Essere un giovane cristiano gay. La scelta della mia vocazione
Testimonianza di Andrea del Progetto Giovani cristiani LGBT, seconda parte
Gli studi universitari, trascorsi con “studio matto e disperatissimo” di Leopardiana memoria, mi allontanarono da molte cose, concentrato solo su programmi, appelli, obiettivi e scadenze. La mia compagnia di amici, ventenni, viveva le prime relazioni amorose, dense e significative, e con loro condividevo gite, cene e passeggiate, subendo sempre il ruolo del “bravo ragazzo” che non ha ancora trovato la “lei” giusta. Ma il ruolo iniziava a starmi stretto, le domande, come in una pentola a pressione senza la valvola di sfiato di sicurezza, mi affollavano testa e corpo.
E cosi, una mattina, mi sono guardato allo specchio e me lo sono detto, prima con gli occhi e poi ad alta voce, ben scandita: Io-sono-gay. Nulla sarebbe stato più come prima. Perché dire le cose, è dirsele. Scriverle è mettersele davanti: non le puoi più cancellare, sono lì e ti guardano. Non le puoi dimenticare, ritrattare o distorcere. Un diario fu il più grande confessore e amico per molti anni: silenzioso, senza limiti, sicuro, rigenerante…
Conclusa la carriera universitaria, regolare e a pieni voti, iniziai ad immettermi nel mercato del lavoro in ambito sanitario. Parallelamente allo svolgimento della attività lavorativa, aumentarono gli spazi, le energie e le responsabilità in ambito parrocchiale, zonale e diocesano.
Per me, quei primi anni giovanili, sono stati quelli che io definisco la mia prima primavera spirituale: accrescimento della fede personale, condivisione della vita parrocchiale, conoscenza, stima e cammino con la mia chiesa locale, fraternità e amicizia con altri giovani, esperienze e testimonianze in ambito ecclesiale (in particolare gli uffici di pastorale giovanile e vocazionale).
Sicché riunioni parrocchiali, impegni ecclesiali, eventi diocesani, convegni, formazione in ambito catechetico, sfide, ritiri spirituali, gite, percorsi zonali, veglie di preghiera, ritrovi informali, ecc. sono state pane spezzato e vino gustato e gustoso di tante serate e weekend. Una grande ventata dello Spirito Santo nella mia piccola e giovane vita, matita di Dio appena abbozzata.
In tutto questo “santo casino” c’è stato anche un percorso di discernimento vocazionale, svolto in ambito diocesano, di circa due anni, rivolto ai giovani. Un percorso denso, articolato e significativo, in cui conservo nel cuore, due immagini contrapposte ma significative: i volti semplici e autentici delle diverse testimonianze di “Eccomi” al Signore sgranate, come i grani di un rosario, durante gli incontri e il totale silenzio-eloquente della condizione di omosessualità nella vita e nella pastorale della Chiesa, nonostante assai presente nelle nostre comunità.
Se da un lato vi era attrazione e sintonia per questi fedeli amici di Gesù del mondo contemporaneo, solcati in percorsi di vita e con carismi-spiritualità cosi differenti, dall’altro parte sentivo che non c’era una voce specifica per me, un volto amico ovvero prossimo, una parola spesa seppur sullo sfondo. Insomma, mancava quel “magis” in più che avrebbe colorato la mia vita ovvero le avrebbe donato pienezza e resa gustosa la mia personale chiamata, il mio peculiare posto nel mondo.
Della Voc-azione nella vita concreta e del percorso di Fede delle persone omosessuali non se ne parla, dunque non esiste o la si elude e sublima, come un tortuoso fiume carsico sotterraneo. Cosi pensai. In fondo, rassicurante: avevo dunque tutte le carte in regola per scegliere, o meglio, sentirmi scelto, anche a vocazioni ordinate o di speciale consacrazione.
Mi interrogai seriamente anche sulla possibilità di accedere al ministero sacerdotale. Questo non ha fatto bene alla mia vita spirituale. Mi ponevo spesso in silenzio ai piedi del Signore e le mie labbra spontaneamente sussurravano e facevano proprie – non ne avevo più altre le avevo finite tutte – le parole del poverello d’Assisi: “Cosa vuoi che io faccia, o Signore?”. Perché alla fine uno deve fare sintesi, dare un chiaro nome alle cose e situazioni, prendere una direzione e camminare, in avanti.
La presenza, discreta quanto preziosa, di una consacrata e di alcuni sacerdoti è stata provvidenziale per guardarmi dentro, dialogare col Signore, rimanere agganciato alla Chiesa che amavo e avevo tanto amato e attraversare il guado. Ma non era abbastanza, non più. Così al termine di un importante evento diocesano nell’autunno 2010 decido, sperimentando il mio personale Getsemani, di lasciare Tutto: incarichi parrocchiali, cerchie di amicizie “catto”, percorsi diocesani, l’intera vita ecclesiale.
Una scelta tranchant, interiormente dibattuta e assai dolorosa, improvvisa, senza spiegazione ad alcuno. Molti amici di vecchia data e conoscenti non capirono (e non potevano altrimenti), molti preti sparirono, non avendo più una giovane manodopera attenta e disponibile (lo dico con amarezza ma ne constatai lucidamente e ben presto la veridicità di tale affermazione).
Uno spartiacque, una nuova trincea, un prima e un dopo, eseguito con la precisione di un bisturi chirurgico sul mio stesso cuore, sacrario di Dio. Così iniziai a cercare.