Viaggio in Guatemala dove essere lesbica significa morire
Intervista di Alejandro Ávila* a Rebeca Lane pubblicata sul sito eldiario.es (Spagna) il 23 giugno 2017, liberamente tradotta da Giacomo Tessaro
C’è un’energia speciale sotto il palcoscenico. Il pubblico non è quello abituale di un concerto rap: si vede una schiacciante maggioranza di ragazze ventenni che palpitano al suono della voce di Rebeca Lane, la rapper femminista che fa tendenza. La cumbia [un tipo di danza, n.d.t.] della sua patria e il Nanai della Mala Rodríguez [altra rapper di lingua spagnola, n.d.t.] (Guardami negli occhi se vuoi uccidermi / Nananai, io non ti lascerò) servono da aperitivo per Poesía Venenosa (Poesia velenosa), la prima canzone che Rebeca dedica al pubblico di Siviglia.
L’entusiasmo delle sue fans esplode quando rappa le parole di una “femminista postmoderna dell’eterna primavera”. Sono tutte qui per i versi combattivi del suo ultimo disco, Alma mestiza (Anima meticcia), e la cantante guatemalteca si offre generosamente: “È la mia prima volta a Siviglia. È bellissimo vedere tanto amore” dice al microfono della Sala X [spazio per concerti di Siviglia, n.d.t.].
Rebeca Eunice Vargas Tamayac si trasforma in un puma quando canta la guerra, le ingiustizie sociali e la cruenta piaga dei femminicidi che devastano il Guatemala. Ma qualche ora prima del concerto Rebeca Eunice non si è ancora trasformata in una rapper agguerrita: ha i suoi tatuaggi guerrieri, certo, ma offre le sue riflessioni con serenità mentre assapora un aperitivo alle acciughe: “Nel mio Paese non siamo abituati a queste delizie” sospira.
Rebeca, di formazione sociologa, riconosce che “la musica mi ha permesso di parlare di molti dei problemi del Guatemala in un linguaggio diverso, che mi permette di arrivare a un grande pubblico, cosa che non succedeva con i miei articoli scientifici. Nei miei testi parlo di guerra, di memoria storica, di giustizia sociale. È necessaria la partecipazione dei giovani in un Paese dove c’è poca libertà, dove le strutture del potere sono razziste e il 70% della popolazione, quella indigena, si trova molto discriminata”.
Rebeca è molto politicizzata e si definisce femminista, anarchica e indigenista, ma non lotta per l’uguaglianza, perché “non desidero pormi allo stesso livello di un uomo sfruttato dal sistema capitalista”.
Vorrei avere cose dolci da scrivere / però devo decidermi, e decido per la rabbia / oggi cinque donne sono state assassinate / e per ora, almeno 20 sono state violentate / un giorno qualunque in Guatemala / moltiplicalo e saprai perché siamo arrabbiate.
Il suo rap è femminista per necessità. Il suo è un Paese devastato dalla violenza, che raccoglie i frutti di un lungo dopoguerra: femminicidi e stupri. “Come donna, la violenza che più mi colpisce è quella maschilista. In fin dei conti, gli assassini sono uomini e non donne. Sono uomini, e non donne, quelli che hanno le armi, i membri delle gang, i narcos, quelli che uccidono le compagne, e queste violenze sono interconnesse. Da anni l’esercito compie violenze sistematiche contro le donne, e durante la guerra ci stupravano, nonostante questo significhi un pesantissimo stigma sociale nelle società indigene”.
Donna, latina, rapper e attivista per i diritti omosessuali: non si stanca mai Rebeca di lottare contro tanti stigmi? “L’alternativa sarebbe conformarmi, ma questo non accadrà mai, ho troppa energia. C’è stato un tempo in cui usavo questa energia contro me stessa, non mi curavo di me ed ero legata a gente che non si curava di me. In un Paese così violento le droghe e l’alcool sono la via di fuga per molti giovani.”
Con il suo femminismo come bandiera, Rebeca sfida a viso aperto i suoi colleghi maschi, che secondo lei sono immersi nella deriva machista del rap, del reggaeton e del trap, e li sistema per le feste in Bandera negra (Bandiera nera): “Ho milioni di ovuli in ogni ovaia / questo non mi rende più donna, come a te non ti rende meno maschio”.
Con altre rapper centroamericane, come la costaricana Nakury, ha fondato il collettivo Somos Guerreras (Siamo guerriere): “Stanno emergendo tantissime donne rapper che raccontano la loro storia attraverso l’hip hop. Le lotte femministe stanno acquistando molto vigore, in tutto il mondo, e molta attenzione è puntata su noi rapper che abbiamo come bandiera il femminismo. Stiamo costruendo la libertà pezzetto per pezzetto e luoghi dove sentirci sicure, dove poter baciare le nostre fidanzate”.
Rebeca non ha problemi a parlare della sua sessualità, né dentro né fuori dal palcoscenico. Si dichiara bisessuale, ma in realtà non ama doversi “etichettare”: “Ci sono cose di cui nessuno parla in Guatemala, come le mestruazioni e la sessualità. Sulle mestruazioni ci dicono che è un argomento di cui non parlare in pubblico, che dobbiamo andarcene in bagno senza che nessuno ci noti, anche se, in un giorno di luna piena come oggi, metà di noi sono mestruate.
Anche gli orientamenti sessuali passano sotto silenzio, per questo sento un legame speciale con le compagne femministe lesbiche. Nella zona nord del Centroamerica, essere lesbica è una condanna a morte, per colpa della lesbofobia e dell’omofobia. In Guatemala tutte noi attiviste siamo in pericolo, ma già per il solo fatto di essere donne siamo a rischio”.
La stessa Rebeca è stata vittima della violenza maschilista: “Ci sono stati vari episodi nella mia vita, due relazioni in cui ho sistematicamente subìto violenza. La musica mi ha aiutato a guarire. Ricevo molti messaggi di donne che mi raccontano le loro esperienze, che mi avvicinano e mi dicono che le mie canzoni le hanno aiutate a interrogarsi sulle loro relazioni. Prima non sapevo di poter fare qualcosa del genere, è un dono speciale”.
È un dono che si concretizza lontano dai riflettori. Rebeca si tiene connessa con le sue fans, che a seconda dei casi la ascoltano in silenzio, si abbracciano o cantano in coro in modo affettuoso proclami femministi: “Viva la lotta delle donne!”. È la risposta ai dati snocciolati dalla rapper sociologa: “In un Paese di 13 milioni di abitanti, ogni anno, per mano dei partner, muoiono tra le 700 e le 1.000 donne. La nostra cultura perpetua la violenza, anch’io ho vissuto episodi di violenza, e poi la colpa la danno a noi. È molto difficile uscire da questa spirale di violenza, dobbiamo accompagnare le nostre donne con amore e pazienza. Ni una menos… ¡Vivas nos queremos!”.
* Alejandro Ávila è giornalista. L’ambiente naturale e il cinema occupano buona parte del suo tempo. Si è formato alla scuola del quotidiano El Correo de Andalucía, per il quale per cinque anni è stato corrispondente da Berlino e inviato speciale al Festival cinematografico di questa città. Con un occhio rivolto all’Andalusia e l’altro all’Europa, ha finito per scoprire che le notizie saltano sempre fuori nei momenti più inaspettati. Twitter: @AleAvilaV
Testo originale: “Ser lesbiana en Guatemala te vale la muerte”