Essere gay in Bangladesh. Invisibili alla luce del sole
Articolo di Julie Lallouet Geoffroy pubblicato sul mensile Tétu (Francia) del gennaio 2015, pag 71-73, libera traduzione di Marco Galvagno
Nel Bangladesh, paese musulmano e conservatore, l’omosessualità resta punibile con l’ergastolo, ma questo non scoraggia di certo le persone omosessuali militanti. Il primo giornale LGBT del paese è uscito l’anno scorso e ora la comunità gay intende fare coming out.
Le pagine sono ancora fresche di stampa, Roopbaan è appena uscito. Siamo nel gennaio 2014, il primo giornale gay è appena nato in Bangladesh senza incidenti. Tutto si guasta alla svelta. A partire dal numero successivo, le prime minacce si fanno sentire. L’articolo di giornale dà l’allerta: “I redattori di Roopbaan farebbero parte di un complotto internazionale, che attenta ai costumi islamici. Il governo li cerca per arrestarli”.
La notizia semina il panico nella redazione del trimestrale. Era nel giugno scorso, il redattore capo Rasel Ahmed ha un ricordo preciso: “partire da quel momento abbiamo cominciato ad avere molta paura. Avevo l’impressione di essere seguito, quando qualcuno bussava alla porta temevo che fosse la polizia venuta ad arrestarmi o ancora peggio ad ammazzarmi”.
In Bangladesh non è bello essere gay. Secondo l’articolo 377 del codice penale i rapporti tra persone dello stesso sesso, in modo particolare tra uomini, sono punibili con l’ergastolo. Questa legge è del 1860, epoca in cui Bangladesh e India erano ancora sotto il dominio britannico. Oggi il Bangladesh è un paese musulmano e particolarmente conservatore sulle questioni morali. Centinaia di persone scompaiono ogni anno, tra di loro molti omosessuali. Alcune famiglie rifiutano i figli gay, altre li fanno addirittura uccidere.
Messaggio d’amore
Da venti anni l’associazione Bandhu lotta contro questo stato di cose e conduce azioni di prevenzione contro l’HiV. Ma è internet che ha dato un nuovo slancio alla comunità LGBT. L’associazione Boys of Bangladesh ha lanciato nel 2002 una chat su internet. Spicca il volo tre anni dopo. Un vero soffio d’ossigeno per tutti coloro che vivono nascosti senza mai poter mostrare ciò che sono.
Molte persone si sono connesse al sito per incontrarsi, per raccontare ciò che vivono giorno per giorno: gli sguardi di sbieco, gli insulti, le minacce, a volte le botte. Man mano la comunità si costruisce e due parchi di Dacca (la capitale del Bangladesh) sono diventati luoghi di incontro. Nell’aprile scorso, per la prima volta gli omosessuali della capitale bengalese sono scesi in strada.
“Con questa manifestazione non volevamo fare un gay pride, sbandierare che siamo omosessuali, ma semplicemente fare passare un messaggio di amore e di diversità!, racconta Xulhaz, l’editore della rivista. Quel giorno il Bangladesh festeggiava il nuovo anno, tutti erano per strada ed anche noi. Eravamo vestiti di colori diversi per formare un arcobaleno, i colori LGBT, ma sapete qua nessuno conosce questo simbolo.
Quella volta è andato tutto bene, le reazioni sono state entusiaste alla vista di tanti colori. L’uscita della rivista invece ha causato parecchi problemi. Messaggi di insulti su internet e minacce: “Bisogna bruciarvi, uccidervi sulla pubblica piazza”. La paura penetra così lentamente negli animi. Rasel Ahmed, redattore capo decide di contattare un’associazione che lotta per la difesa dei diritti dell’uomo per segnalare la situazione: “Avevo paura, molta paura per la mia vita”.
Oggi la situazione sembra più calma, la tensione è scesa e Rasel è più determinato che mai. “Non mi vergogno, al contrario sono fiero di questa rivista, è la nostra bimba. Prima eravamo invisibili, nascosti e questo era molto comodo, ora siamo sotto i riflettori, la situazione è molto più difficile. Ma io non mollerò, Roopbaan ci ha chiesto di lavorare, non è proprio il caso di abbandonare tutto ora”.
Ci sarà voluto un anno a Rasel e Xulhaz per costituire una squadra di volontari, modelli, fotografi e disegnatori, soprattutto per trovare una stamperia che osasse impegnarsi in una pubblicazione così controversa.
Duemila, quelli che si accettano
Per molti omosessuali l’apparizione della rivista è una cosa buona. Alla fine parlano di noi, possiamo esprimerci e farci conoscere si rallegra Antora, una lesbica di ventidue anni. Spiega “in Bangladesh nessuno sa chi siamo, le persone non sono informate, ci ritengono dei malati. Grazie alla rivista le cose cominceranno a cambiare. Ma la strada è ancora lunga”.
Per Xulhaz l’editore di Roopbaan molti omosessuali non si mostrano ed hanno una doppia vita. Secondo le stime i gay dichiarati nella capitale bengalese sarebbero circa 2000, ma tornando alle statistiche circa il 10% dei bengalesi sarebbe omosessuale, cioè 15 milioni. Per lui bisogna aiutare queste persone ad esprimersi, accettarsi e questo richiede molto lavoro. L’omertà familiare è uno dei principali freni. Di cultura musulmana e conservatrice la maggior parte dei genitori non accetta l’omosessualità dei propri figli.
Nazia, ad esempio, ha cercato di parlarne alla madre, 5 anni fa, quando aveva 17 anni: “Non ha capito, mi ha detto che ero malata e mi ha mandato dal medico per farmi curare. Mi ha dato delle medicine che mi facevano dormire, ma oggi sono ancora lesbica”, sorride, “in seguito ho cercato di parlarne ancora, ma è meglio di no. Mi devo sposare entro l’inverno del 2015, o mi rifiuto e rinuncio ai miei genitori, o accetto e mento”.
Condurre una doppia vita non è solo complicato, ma anche fonte di un malessere profondo, ed è quello che sta vivendo Shavon. Questo ragazzo di venti anni è terrorizzato all’idea di parlarne ai propri genitori. “Se glielo dicessi mi farebbero rapire o addirittura uccidere, per loro sarei un mostro, prima che loro figlio, ne sono certo. Allora è fuori discussione il fatto di dirglielo”.
In famiglia Shavon recita la parte, torna ad essere se stesso con pochi amici. Ma il malessere è costante. “Ho cercato di suicidarmi un anno fa bevendo sostanze tossiche. Stavo davvero male. Il fatto di essere in contatto con associazioni come Bandhu mi permette d’incontrare altre persone come me e mi fa davvero bene. Ma purtroppo non riesco ancora ad essere felice. Vado nei parchi di Dacca di sera, ma è solo sesso, la non si trova amore”.
Meglio trans che gay
Gli omosessuali sono rifiutati in Bangladesh, ma la società accetta gli hiras, cioè le trans. Si tratta di uomini che indossano abiti femminili, cambiano sesso e hanno relazioni con uomini. Nel novembre scorso la categoria transgender è persino apparsa sul passaporto bengalese. “è una tappa importante che può giovare a tutti, ma è solo l’inizio” spiega Anamika, una giovane hira di venti anni che ha appena terminato la transizione. Oggi in Bangladesh è meglio essere hira che gay. “Siamo riconosciute, anche se non accettate realmente, ma almeno non siamo invisibili”.
Succede a volte che i gay scelgano di diventare hira per poter vivere la propria sessualità, fino a dimenticare la propria identità, è un mezzo per essere un po meno rifiutati. Ma non bisogna farsi illusioni essere hira non è una passeggiata.
Per strada racconta Anamika “la gente mi squadra. Ho amiche che sono state picchiate. Ma la grande diversità è che la mia famiglia mi accetta per come sono, cosa che avviene raramente ai gay”.
La maggior parte degli hira chiede l’elemosina e si prostituisce, è con questi soldi che la giovane donna ha potuto permettersi un intervento di vaginoplastia, un aumento del seno e un trattamento ormonale. Anche se Anamika è ormai una donna, il matrimonio, pietra angolare dell’integrazione sociale, le resta precluso.
Faccia a faccia
La comunità LGBT vuole strutturarsi, uscire dai semplici rapporti di sesso per formare un nucleo, un bozzolo. A Dacca ci sono i parchi, ma soprattutto gli appartamenti, è lì che i gay possono incontrarsi senza temere sguardi ostili e minacce. L’appartamento di Xulhaz è aperto. Il campanello suona incessantemente. Ragazzi entrano, si trasferiscono in una camera per discutere, bere un tè incontrarsi.
Un contesto, più piacevole e intimo di un parco, un luogo più propizio allo scambio.
“La chat su internet va benissimo, ma non è reale”, spiega Xulhaz, “bisogna incontrarsi faccia a faccia per poter costruire una relazione e conoscersi, quando vedo tante persone a casa mia, mi sento felice”.
Xulhaz ha avuto la fortuna di avere una famiglia molto tollerante, una situazione che forse non è estranea alla sua “educazione occidentale”. “Fin da piccolo mi comportavo in modo diverso. I miei genitori l’hanno accettato. Oggi quando faccio delle feste, vengono anche loro, sembra incredibile. E’ impensabile per la maggior parte dei gay bengalesi. Ho solo una vita e mi rifiuto di scinderla in due in nome delle buone maniere. Sono come sono”.
Zaman vorrebbe fare la stessa cosa, a 19 anni sogna di vivere pienamente la propria vita, ma come Shavon o Nizia non può parlarne né ai genitori, ne agli amici. Per la legge è un criminale, per la religione, un peccatore. Risponde così alle critiche dei bigotti: “L’amore non può essere un peccato. Mentre l’odio sì. Quelli che mi odiano perché amo, anche se si tratta di un ragazzo, sono i veri peccatori, non io”.
Testo originale: Bangladesh: des invisibles au grand jour