Essere se stessi. Dal coraggio del coming out alla violenza dell’Outing
Riflessioni di Gianni Geraci del Guado di Milano
Una delle esperienze più mortificanti che una persona omosessuale può fare è quella di ascoltare qualcuno che parla della sua omosessualità a sproposito senza magari avere la possibilità di rispondere e di correggere gli errori che si fanno. E anche le parole che descrivono alcuni aspetti della nostra omosessualità sono spesso sbagliate: basti pensare alla sistematica confusione che anche quelli che si dicono esperti di scienze della mente fanno tra orientamento omosessuale (che è l’attitudine che una persona ha di provare emozioni profonde per per persone di del proprio sesso) e i problemi di identità di genere (che hanno invece a che fare con il modo in cui una persona si percepisce e percepisce il suo corpo).
La maggior parte degli omosessuali maschi si sentono tranquillamente uomini e la maggior parte delle donne lesbiche si sentono tranquillamente donne nonostante le castronerie degli pseudo esperti che, quando parlano di omosessualità, tirano in ballo l’identità di genere che è invece collegata all’esperienza di chi è transessuale, di chi, cioè, indipendentemente dal suo orientamento sessuale, non riesce a identificarsi con il proprio corpo di maschio o di femmina.
Un’altra confusione in cui cadono quanti parlano di omosessualità senza fare i conti con la loro ignoranza, è quella che c’è tra “coming out” e “outing”. Comunemente, in italiano, questi due termini vengono confusi ed usati come sinonimi, ma non sono la stessa cosa.
Il termine “coming out” deriva dall’espressione inglese: «Coming out of the closed» che, tradotto alla lettera, significa: «Venir fuori dall’armadio», un’immagine che in inglese descrive l’azione di una persona omosessuale che decide di dichiarare pubblicamente la propria omosessualità.
Ecco allora che io potrò dire di aver fatto “coming out” con i miei genitori quando ho detto loro di essere omosessuale, così come posso dire di non aver problemi di “comig out” quando non ho problemi a dire pubblicamente di essere omosessuale.
Il termine “outing” invece fa riferimento all’azione di chi decide di denunciare pubblicamente l’omosessualità di un’altra persona che, invece, fa di tutto per tenerla nascosta. Si tratta, in sostanza, di un gesto che ha una sua valenza politica che, nella storia del movimento omosessuale è stata utilizzata per mettere in imbarazzo quei personaggi pubblici che, pur essendo omosessuali, appoggiavano politiche discriminatorie nei confronti degli omosessuali. Visto che si tratta di una pratica molto vicina alla violazione della privacy delle persone non tutti la approvano all’interno del movimento omosessuale,
Per dirla con le regole dell’analisi logica, quando fa il “coming out” il soggetto è la persona omosessuale che dichiara pubblicamente la sua omosessualità, mentre quando subisce un “outing” la persona omosessuale è il complemento oggetto di un’azione di denuncia compiuta da qualcun altro (che può essere anche lui omosessuale, ma che può anche non esserlo).
Non è corretto quindi dire che: «Tiziano Ferro ha fatto “outing” scrivendo di essere omosessuale nel primo libro che ha pubblicato». Occorre invece dire che: «Tiziano Ferro ha fatto il suo “coming out”, confidando il suo orientamento omosessuale all’interno del suo libro».
Il termine “outing” ha quindi un significato molto meno esteso di quello con cui viene usata da molte persone che parlano (o sparlano) di omosessualità: la si può applicare, ad esempio, alle dichiarazioni di Lele Mora, quando ha detto che Fabrizio Corona era stato il suo amante (dichiarazioni, tra l’altro, smentite dallo stesso Corona). Purtroppo anche i giornali usano in maniera impropria il termine “outing”, forse perché è più corto e più facile da ricordare. Un bello studio condotto da Giulia Tagliaferri nel blog «Le cosmicomiche» di Nicolò Cavalli prende in considerazione l’uso delle due espressioni “outing” e “coming out” nei quattro principali quotidiani italiani (cfr. http://www.linkiesta.it/blogs/le-cosmiconomiche/dentro-e-fuori-l-armadio-la-differenza-tra-outing-e-coming-out) con risultati davvero deprimenti: solo su La Repubblica c’è un uso sostanzialmente corretto (la percentuale d’errore è infatti del 9,5%) mentre gli altri tre quotidiani presi in considerazioni hanno percentuali d’errore superiori al 60% (66,7% per La Stampa, 65,4% per il Corriere della Sera, 60% per Il Sole 24 Ore)
Questa confusione non sarebbe grave se il “coming out” non costituisse, per la persona omosessuale, un’esperienza fondamentale. Un’esperienza in cui l’ex gesuita statunitense John McNeill nel suo bellissimo libro: «Libertà, gloriosa libertà. Un cammino di spiritualità e liberazione per omosessuali credenti» (Edizione Gruppo Abele, Torino, 1996) riconosce addirittura un valore sacramentale, sostenendo che quello che, per le persone eterosessuali è il sacramento del matrimonio (con cui si dichiara alla propria comunità la scelta di vivere in intimità con un’altra persona) per le persone omosessuali è il “coming out” (con cui si dichiara alla propria comunità il proprio orientamento omosessuale e l’eventuale scelta di vivere in intimità con una persona del proprio sesso).
Non parlare di “coming out” sostituire questa espressione, così ricca di implicazioni per la vita di una persona omosessuale, con un’espressione che ha un significato radicalmente differente, significa non rispettare il percorso sofferto con cui migliaia di persone omosessuali approdano alla decisione di fare il loro “coming out”, abbandonando l’ipocrisia in cui vive la maggior parte delle persone omosessuali per seguire finalmente le indicazioni di Gesù che, nel Vangelo, non condanna mai l’omosessualità, mentre condanna duramente qualunque forma di ipocrisia.