Essere sieropositivi nel bel mezzo del Tennessee. La storia di Harold
Testimonianza di Harold R. “Scottie” Scott pubblicata sul sito The Body (Stati Uniti) il 13 settembre 2016, liberamente tradotta da Silvia Lanzi
Essendo cresciuto in una fattoria nel bel mezzo del Tennessee rurale, non avrei mai pensato di ammalarmi di AIDS. Questa è la mia storia. Verso la fine del 1989 incontrai una persona e la frequentai per circa tre mesi. Fu a partire da questa piccola “avventura” che la mia vita cambiò per sempre perché: fui piuttosto ingenuo e permisi a me stesso di infettarmi con l’HIV. Dopo aver discusso i rischi dell’HIV/AIDS, e prima di fare del sesso non protetto, la persona con cui stavo uscendo mi disse di non essere infetta, così credetti che non ci fosse nulla di cui preoccuparsi. Tutto questo sarebbe cambiato.
Arriviamo al 1991. Durante la primavera avevo iniziato a notare delle eruzioni cutanee sul corpo. Apparivano piccole bolle di sangue, che sparivano dopo pochi giorni per poi ricomparire. Continuò così tutta l’estate. Iniziai a volerne sapere di più su quegli strani sfoghi, così presi un libro di medicina per vedere se potessi determinarne le cause. Dopo un po’ pensai di avere una malattia chiamata porpora trombocitopenica idiopatica (PTI), un disordine del sangue nel quale il sistema immunitario distrugge le piastrine e che può essere causato da molti fattori, uno dei quali è l’HIV.
Non pensavo di avere l’HIV perché nel febbraio 1988, sebbene avessi fatto del sesso non protetto, il test era risultato negativo. Pensavo potesse essere leucemia, un’altra possibile causa della PTI. Dopo parecchi mesi con questi pensieri, decisi finalmente di vedere un dottore che aveva lo studio vicino alla città dove abitavo. Dopo avermi esaminato, disse subito che probabilmente era leucemia e mi indirizzò ad un oncologo di Nashville, in Tennessee, a circa ottantacinque miglia dalla mia piccola cittadina, che aveva meno di mille abitanti. È stato là che, dopo aver raccontato le mie esperienze sessuali e fatto gli esami di laboratorio, mi fu diagnosticato che in effetti avevo la PTI e che la conta delle mie piastrine era parecchio fuori dalla norma, in maniera allarmante. Acconsentii a fare un test per l’HIV per escluderlo. Non pensavo di poterne essere infetto; comunque, i miei pensieri andarono al 1989 e alla fastidiosa domanda di cosa mi potesse succedere. Ci volle qualche giorno prima di avere i risultati del test sull’HIV, così venni congedato senza un ulteriore appuntamento. Sarei dovuto comunque ritornare regolarmente per la cura della PTI. Questo succedeva a metà ottobre del 1991.
Il 24 ottobre 1991, alle 11 del mattino, mentre ero al lavoro, il mio capo mi disse che c’era una chiamata del mio dottore di Nashville e che avrei potuto prenderla nel suo ufficio. Risposi al telefono e il dottore iniziò a parlare. Mi disse: “Il suo test dell’HIV è positivo; ha cinque, forse sette anni da vivere; le suggerisco di trovarsi un dottore che la curi”. Ero così scioccato, non solo per aver avuto un risultato positivo, ma anche per il modo in cui mi era stato detto. La stanza e l’ambiente intorno a me iniziarono a girare lentamente mentre cercavo di capire quello che mi era appena stato detto.
Dopo questa notizia piansi molto, sentendomi solo e isolato. Non conoscevo nessuno che avesse l’HIV. Ovviamente avrei potuto infettarmi o no, ma non sapevo cosa fare o a che santo votarmi. Riuscivo solo a pensare: “Come ho potuto farmi questo?” e “Come potrò tenere questo segreto?”. Perché certamente non volevo che qualcuno, nella mia piccola cittadina, venisse a saperlo. La soluzione, pensavo, era porre fine alla mia vita, così nessuno avrebbe potuto saperlo. Molto di quel che sapevo sull’HIV/AIDS l’avevo sentito alla televisione e riguardava perlopiù malattia e morte. Ero così ingenuo da pensare, come molti altri, che l’HIV esistesse solo nelle grandi città, da qualche altra parte del Paese. Comunque, l’epidemia aveva già trovato la sua strada nell’America rurale.
Mentre il tempo passava – avevo deciso di non togliermi la vita – mi trovai coinvolto in un gruppo di supporto che avevo trovato in una città vicina, e fu lì che iniziai la mia rinascita. Lì trovai molti altri che, come me, venivano da piccole aree rurali e imparavano a fronteggiare la vita dopo una diagnosi di HIV. È stato lì che ho deciso che, se volevo imparare a convivere con l’infezione, sarebbe stato ai miei termini. Iniziai a vedere la luce alla fine di un tunnel davvero buio. Se si eccettuano pochi amici intimi, mantenni il segreto per due anni e non dissi niente sul posto di lavoro fino al luglio del 1993, quando, dopo aver sopportato lo stress di mantenere il segreto, decisi di lasciare il lavoro. Dopo tutto, pensavo di avere ancora solamente un anno da vivere, forse tre, se si fosse rivelata corretta la prognosi che mi dava altri due anni di vita.
Dopo aver lasciato il lavoro mi impegnai ancora di più nel gruppo di supporto e diventai amico intimo di un uomo che da qualche tempo viveva con l’AIDS, pagandone lo scotto; infatti morì nell’estate del 1994, per delle complicazioni legate alla malattia. Sono state la sua amicizia, la sua malattia e la sua morte che mi hanno portato a qualcosa che non avrei mai pensato di fare. Nessuno, nel posto in cui vivevo, sapeva davvero di vivere con accanto l’HIV. Non era qualcosa di cui qualcuno osasse discutere. Comunque, dopo aver meditato e discusso parecchio con le persone a me più vicine, presi la decisione di diventare il volto locale e rurale dell’HIV/AIDS. Il 1 dicembre 1994, durante un programma per la Giornata Mondiale dell’AIDS, annunciai di avere l’HIV e di averci convissuto per cinque anni. Aspettai che il mondo mi crollasse addosso, dal momento che avevo incontrato parecchie persone che pensavano che chi viveva con l’HIV fosse colpevole e si meritasse tutti gli effetti della malattia.
Mente la notizia del mio annuncio girava, parlai davanti ad un pubblico di cento persone, rilasciai interviste radiofoniche e una stazione televisiva locale raccontò la storia di un “uomo del posto con l’AIDS”, come si leggeva anche sulle prime pagine dei giornali. Ho passato gli ultimi vent’anni e più facendo volontariato come educatore di comunità, utilizzando la mia storia personale e condividendo quello che nel cammino della mia vita è stato una sorta di “ragazzo immagine” per l’HIV/AIDS. Ho vissuto molto più a lungo della mia prognosi iniziale. Sono uno dei due sopravvissuti dell’originale gruppo di supporto del 1991. Ho fatto la differenza in questo mondo, condividendo me stesso con quelli che volevano ascoltare la mia storia. Non avrei mai pensato di essere ancora in giro dopo così tanti anni, un sopravvissuto su una distanza di almeno ventisette anni. Ci si è riferiti al mio caso come ad un caso di HIV di “produzione propria”, perché è qui che mi sono infettato, dove l’ho fatto, come molti altri che sono andati via dalle loro piccole città e si sono infettati nelle metropoli per poi tornare a casa solo a morire. È stato, e continua ad essere, un viaggio tranquillo; non la mia vita è cambiata, ma ho anche imparato il perdono e l’amore per me stesso e gli altri. Ora, a cinquanta e rotti anni, l’HIV è stata, per molti versi, una benedizione e un’esperienza da cui imparare.
Testo originale: The Journey From Small Town Secret to Sharing My HIV Story