Essere un adolescente gay in Benin significa vivere nascosti al mondo intero
Articolo di Glory Cyriaque Hossou* pubblicato sul sito del quotidiano Le Monde (Francia) il 25 dicembre 2018, liberamente tradotto da Nadia Di Iorio
Wilfried** e Herman** sono due docenti di scuola primaria e membri della Chiesa Cattolica del loro paese, situato nel dipartimento dell’Ouémé, in Bénin (Africa). Uno è lettore, e l’altro è maestro di coro.
All’età di ventisette e ventitré anni, tutto farebbe pensare che vivano una gioventù spensierata, ma non è così. Wilfried è attratto sia dalle donne sia dagli uomini. È bisessuale, e ha difficoltà a farsi accettare come tale: «Non posso dirlo a tutti perché ho terrore di essere deriso ed escluso dai miei amici e dalla mia famiglia. In parrocchia nessuno mi accetterebbe così come sono, e non potrei più essere lettore».
Trascorre le sue giornate tra la scuola dove insegna, la parrocchia e un’associazione di difesa delle minoranze creata nel 2013, di cui è vicepresidente. In Bénin l’omosessualità non è punita, contrariamente a quanto accade ai vicini Togo, Ghana, Camerun e Nigeria. In quest’ultimo Paese, i dodici Stati del Nord, che seguono la Shari’a (legge islamica), condannano i gay alla lapidazione.
Malgrado i tentativi legislativi per criminalizzare l’omosessualità negli anni ’90, il Paese è relativamente neutro su questa questione, e consente agli adulti consenzienti il diritto di avere delle relazioni omosessuali. Ma questa tolleranza non significa assenza di difficoltà per gay e lesbiche, specialmente per gli adolescenti, poiché il Codice Penale, in un emendamento datato 1947, quando il Bénin apparteneva ancora all’Africa Occidentale Francese, stabilisce la maturità sessuale a tredici anni per le persone eterosessuali, e a ventuno per le persone omosessuali. La minaccia di una condanna che va da sei mesi a tre anni di prigione spinge i giovani che si scoprono gay a vivere nascosti in un mondo di adulti liberi, e sancisce l’omosessualità come tabù culturale.
«Non sono pronto a rivelare tutto»
Anche la famiglia di Wilfried ignora il suo orientamento sessuale. Da tempo sua madre gli chiede un nipotino, ma Wilfried non è pronto per la paternità: «Esco con Joy**, una ragazza che non conosce la mia bisessualità. Non sono pronto a rivelare tutto, né a lei, né a mia madre. Verrà il momento anche per quello. Poiché la mia associazione lavora sotto la copertura della lotta per la salute e la difesa dei diritti economici e sociali, le inviterò a delle azioni di sensibilizzazione, dove parliamo a volte della questione delle minoranze sessuali. Sarò un modo per me di prepararle alla notizia». In Bénin, delle dodici associazioni LGBTQI in attività, nessuna è riconosciuta legalmente come difensore dei diritti omosessuali. Tutte devono lavorare «sotto copertura» ufficiale.
Quando Wilfried esce la sera e sa che «incontrerà gente», usa dei codici: «Abbiamo delle espressioni per riconoscerci tra gay. Quando arrivo in un luogo dove qualcuno mi sembra essere omosessuale, dico una o due parole precise per assicurarmene. La maggior parte delle volte, se quello annuisce, la sua omosessualità è confermata».
Herman si definisce «trans». Ha un altro nome quando si traveste da donna. Ha capito la sua condizione quattro anni fa, all’ultimo anno di scuola. Il giorno della nostra intervista, indossa una T-shirt sopra dei collant neri, e parla con un po’ di timidezza: «Al corso di scienze stavamo lavorando in gruppo, quando un compagno di classe mi diede un pezzo di carta con su scritto ‘Ti amo’. All’inizio lo presi per uno scherzo, ma lui insistette. Dopo scoprii che era omosessuale. Siamo stati insieme per un po’».
Punzecchiamento quotidiano
Contrariamente a Wilfried, Herman racconta che viene quotidianamente preso in giro da chi gli sta attorno: «A causa della mia andatura e del mio essere effeminato, la gente mi deride. Quando faccio delle attività artistiche con i miei alunni, i miei colleghi mi dicono davanti a loro: ‘Ah, sei una femmina eh! Perché parli così? Perché cammini così?’ Sono costantemente perseguitato». La persecuzione di cui è vittima può anche spingersi oltre: «Un giorno, la direttrice della scuola nella quale tengo dei seminari ha voluto prendere il mio telefono e guardare le mie foto. Era stata informata da dei colleghi che mi vestivo da donna e mi fotografavo. Ne sono uscito grazie a Wilfried, il quale mi ha ricordato che il contratto che mi lega all’istituto non autorizza la direttrice a frugare nel mio telefono, e che si tratta della mia vita privata. Ma noi le abbiamo comunque cancellate».
Ci sono migliaia di Wilfried e Herman in Bénin, obbligati a nascondere la loro vera identità sessuale, e oggi sostengono che Stato non li protegge a sufficienza. Secondo l’ONG Hirondelle Club, che difende la causa di queste minoranze nel Paese, molti adolescenti del Bénin sono ancora cacciati dal loro nucleo famigliare a causa della loro omosessualità, e finiscono a vivere per strada. Altri sono insultati, vessati, perdono il lavoro, vengono esclusi da scuola, dalle parrocchie, o sono aggrediti in modo grave. Wilfried e Herman vivono nella paura. Temono un giorno di subire la stessa sorte di alcuni loro amici: morire, venire uccisi dall’odio e dall’intolleranza.
* Glory Cyriaque Hossou è un beninese di venticinque anni, impegnato su molti fronti. È segretario generale dell’Associazione dei Blogger del Bénin, ed è coordinatore del comitato beninese di Amnesty International; sta anche conseguendo un master in diritti della persona. Sensibile alle discriminazioni che subiscono le minoranze nell’Africa Occidentale e Centrale, mette la sua penna al servizio dei diritti umani.
** I nomi delle persone sono stati cambiati.
Testo originale: Etre adolescent et gay au Bénin, c’est vivre caché dans un monde libre