Essere un cristiano LGBT. Un inferno in terra nelle paradisiache isole del Pacifico
Articolo di Andre Afamasaga* pubblicata sul sito del quotidiano The Sydney Morning Herald (Australia) il 27 dicembre 2019, liberamente tradotto da Diana
Essere un cristiano gay in un’etnia delle isole del Pacifico non è mai stato facile, ma quest’anno è diventato ancora più difficile. Il post su Instagram, ad aprile, di Israel Folau in cui sosteneva che l’inferno attendeva le persone gay non pentite ha portato al suo licenziamento dall’Australian Rugby Union (il suo datore di lavoro). Da qui è nata una dura battaglia legale che si è conclusa con un accordo tra l’Australian Rugby Union e Folau che, con i suoi sostenitori, ha “ribadito le sue ragioni” e ha parlato “di vittoria”.
Ma se Folau è il vincitore, chi sono i perdenti? Contrariamente al pensiero popolare, il perdente non è né un marchio sportivo, né una grande società e nemmeno il liberalismo. Le vittime invisibili di questa controversia sono state le persone LGBTIQ delle isole del Pacifico e le comunità cristiane. Questa storia rivela un’omofobia profondamente radicata nelle credenze religiose e nei valori culturali. Folau, cristiano di origine Tonga, è semplicemente un prodotto di quell’ambiente.
Sto usando questo articolo per fare pubblicamente coming out, perché sono turbato da questo crescente risentimento verso le persone LGBTIQ. Come samoano gay ed ex pastore mi preoccupo per il dolore provocato dalla storia di Folau e che il cristianesimo sia caratterizzato più dalla politica e dal mantenimento dei propri privilegi, che dall’amore di Gesù.
Questa è la mia storia. Ho trascorso la maggior parte della mia vita chiuso nell’armadio, compresi i molti anni in cui sono stato pastore nel sud-ovest di Sydney. Il timore del giudizio dei miei colleghi cristiani e dei miei amici, e la responsabilità verso coloro per cui ero un punto di riferimento, mi hanno impedito di accettarmi.
Quando divenni un cristiano rinato mi fu detto che il celibato era il rimedio per l’omosessualità. A 25 anni, pieno di zelo, discussi coi miei fratelli che Gesù cancella ogni felicità fugace, comprese le relazioni sentimentali. Negli anni successivi, immerso nell’ideologia della Chiesa secondo la quale l’omosessualità è un grave difetto, imparai che Dio mi voleva “etero”.
Come pastore mi consumavo nello sforzo di pregare per non essere più gay. Mi immergevo nello studio della Bibbia, leggevo libri, ascoltavo sermoni e partecipavo a discussioni. Frequentavo corsi, conferenze e gruppi di “terapia riparativa”, finché fu dimostrato che erano inefficaci e dolorosi. Sono state fatte innumerevoli preghiere per me, e io ho pregato molto. Sono uscito con ragazze sperando che si accendesse un interruttore magico. Più di una volta ho digiunato per 10 giorni di fila.
Dopo 15 anni di sforzi inutili compresi di essere ingenuo e che mi stavo ingannando. Ero anche solo, mi odiavo e pensavo al suicidio. Dopo 11 anni come pastore, ho dato le dimissioni tre anni fa. Ho voltato le spalle ad una vocazione per la quale tutti mi dicevano che ero stato chiamat, e che era un dono.
Mentre l’omofobia nelle nazioni delle isole del Pacifico si può in definitiva far risalire alla nostra storia coloniale, i nostri leader ci hanno assicurato che la discriminazione verso le persone LGBTIQ rimane radicata.
Le linee divisorie tra Chiesa e cultura sono confluite in un insieme di regole e ipotesi intoccabili. Le diaspore del Pacifico in Australia o Nuova Zelanda non riescono a spiegare da dove provengano le norme oggi accettate, e le loro motivazioni.
È chiaro che un ceppo fondamentalista ha sviato le culture del Pacifico ed il cristianesimo, di modo che mostrano disgusto per tutto ciò che è gay. Un esempio recente è stato il divieto di proiettare il film di Elton John Rocketman. Il principale censore di Samoa ha affermato che il tema omosessuale del film “viola le leggi contro il matrimonio fra persone dello stesso sesso, che non si accorda con le nostre credenze, la nostra cultura e il cristianesimo”.
Nel contesto delle isole del Pacifico lo stigma antigay definisce gli omosessuali come il massimo esempio di decadenza sociale. È un sintomo dell’escatologia degli “ultimi giorni”. I sermoni di solito ci incolpano di provocare catastrofi naturali e di minare la purezza culturale ed i valori familiari. I critici analizzano le nostre abitudini sessuali, senza l’intenzione di rivelare le proprie. Questi santuari dal doppio volto sono farseschi, ma discriminatori e pericolosi se convertiti in leggi.
Nelle isole Cook un comitato selezionato propone di criminalizzare l’omosessualità attraverso il carcere per gli atti omosessuali, e includendo le donne. In un articolo sul Cook Island News John Dunn, chirurgo e filantropo, ribatte a questi argomenti: “Le vere minacce alla nostra società sono lo stupro, la violenza domestica, gli abusi delle istituzioni e l’incesto. Due uomini o due donne che si amano non rappresentano una minaccia”.
Mentre alcuni leader moderano le loro parole, il popolo del Pacifico è schietto. A maggio il responsabile della cronaca sportiva del Sydney Morning Herald Andrew Webster si è lamentato che questo dibattito potrebbe portare ad ulteriore esclusione e a maggiore angoscia per i giovani gay, citando questo commento sui social media come preoccupante: “Izzy Folau non è solo a pensarla in questo modo […] specie nella comunità delle isole del Pacifico. Ho avuto dei ragazzi dell’età di mio figlio che mi hanno detto in faccia: se alcuni dei miei compagni di squadra fossero gay, mi rifiuterei di giocare con loro”.
In un appello a Folau, la prima volta che ha postato le sue frasi sull’inferno che aspettava i gay, la mia collega Tuiloma Lina-Jodi Samu ha fatto notare che tali affermazioni espongono le persone LGBTIQ del Pacifico – gruppo già vulnerabile – a rischio di suicidio e violenze.
E ora? Immaginate cosa accadrebbe se la Chiesa si uniformasse realmente all’esempio del suo fondatore, simbolo di empatia ed inclusione. Se questa è una richiesta troppo grande, chiedo ai genitori di porre i loro figli al di sopra della Chiesa.
Dedico questo articolo a mio cugino gay, Monise Fata-Meafou, che è sempre stato un gay orgoglioso, perché è cresciuto in una casa accogliente in cui la sua sessualità era accettata. Nulla è cambiato quando è diventato cristiano. Mi ha dimostrato che si può essere gay e cristiani.
* Andre Afamasaga lavora come consulente senior alla Commissione per i Diritti Civili della Nuova Zelanda.
Testo originale: Gay, Christian and a former preacher, I’m coming out to help anyone hurt by Folau