Sono una donna transgender in Kenya. La fatica per essere solamente me stessa
Testimonianza tratta dal libro Stories of Our Lives: Queer Narratives from Kenya, dall’Archive of Stories Collected for the ‘Stories of Our Lives’ Research Project, NEST Arts Company Limited (Kenya), pubblicato sul sito GayChristianAfrica il 17 novembre 2019, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
[…] Quel giorno ero certa di voler scomparire. Il cratere Nyiragongo ha al centro come un lago, con un raggio di due chilometri, pieno di lava rossa e rovente. Si può camminare sul margine, e se si vuole si può saltare dentro. Alcuni lo fanno, e anch’io lo volevo fare. Ma non lo feci.
Quella notte ballai con i miei demoni. Li guardai negli occhi e dissi “Vaffanculo. Sono stanca di fuggire”. E me ne tornai a casa.
Sono una persona transgender, da maschio sono diventata femmina. Da sempre mi sono sentita diversa, e non mi sono mai considerata un maschio. Non ho mai conosciuto i miei veri genitori: sono stata in varie famiglie affidatarie, tre, fino ad ora. È stata molto dura.
La prima famiglia affidataria pensava fossi una bambina. Quando avevo otto o dieci anni, cominciai a mostrare caratteristiche femminili: mi crebbe il seno e mi si allargarono i fianchi. I miei genitori affidatari ebbero paura e dissero “Questo è un segno. Hatumwezi. Non possiamo occuparci di lei”.
Alla mia seconda famiglia affidataria mi presentai come maschio, anche se non lo sembravo affatto. La madre mi accettò, ma il padre ben poco. Mi portarono all’ospedale di Nairobi, dove mi fecero alcune iniezioni, e cominciai a sviluppare i tratti maschili. La mia voce cambiò drasticamente: ero stata un’ottima soprano! Avevo i capelli lunghi, e dovetti tagliarli. Diventai molto snella, e cominciai a praticare molta palestra per sviluppare i muscoli.
Volevano cambiarmi, farmi diventare un uomo, ma alla fine mi stufai, perché il mio desiderio era di essere donna. Alla fine mollarono la presa e il padre mi cacciò di casa, così dovetti cercarmi un’altra famiglia. Non potevo raccontare la verità, così mentii sulla mia identità fino a che una nuova famiglia mi prese.
La madre della terza famiglia affidataria era buona, mi comprendeva e mi sosteneva, ma suo marito era ostile. Diceva che avrei rovinato i suoi figli, e non mi voleva tra i piedi. Di solito sono stati gli uomini delle mie famiglie affidatarie ad essere contro la mia identità transgender. Le madri non sono così: sanno ascoltare, forse perché sanno cosa vuol dire dare la vita. Non sai mai come sarà tuo figlio o tua figlia, per questo le donne sono più comprensive.
La madre continuava a sostenermi e trovò una sponsor disposta a pagarmi la terapia ormonale e quella psicologica. Ma dopo qualche tempo (probabilmente il padre le riempì la testa di stupidaggini) la sponsor mi disse: “Ti stai comportando male, malissimo, non rispetti i tuoi genitori. Fai la prostituta [mai fatto nella mia vita!]. Se non sai ascoltare i tuoi genitori, chi sono io per immischiarmi? Non ti darò più nulla” e fu proprio ciò che fece.
In quegli anni avevo un aspetto mascolino, ma mi vestivo da donna. Non sono mai stata aggredita fisicamente per questo, solo insultata, e minacciata di linciaggio dalla gente del luogo in cui vivevo. Non potevo uscire di casa durante il giorno, uscivo la notte, ma facendo attenzione a non farmi riconoscere, perché qualcuno poteva riconoscermi e seguirmi.
Dopo aver iniziato la terapia ormonale cominciai a presentare tratti femminili e la gente non era in grado di capire di che genere fossi. Ora dove vivo vengo trattata molto meglio, eccetto che da quelli che mi conoscono da molto tempo, che dicono “Ah! Yule ni mwanaume, kwenda kudungwa sindano. Anafanya mambo ya Kichina… Ah! Quella lì è un uomo, fa tutte iniezioni di quei prodotti cinesi…”. Tutte chiacchiere. Ora sparlano molto meno, ma anni fa era dura.
Nel posto in cui vivo la gente è molto religiosa, è una città musulmana molto fervente. Sono sempre le stesse persone, gli stessi sheikh [anziani della comunità islamica, n.d.t.], che quando è notte, e fa buio, mi chiamano e amoreggiano con me, poi durante il giorno, quando li incontro per la strada o fanno finta di non conoscermi, o, se sono con i loro amici, mi puntano il dito e dicono “Ile ni shoga, ishikeni. Quello lì è un frocio, attenti”. Questi sheikh, questi pastori.
E tutti quei grandi personaggi del Governo, non vogliono che la gente sappia, quindi attaccano noi persone transgender che ci presentiamo per quello che siamo. Di notte sono tutti gay, ma non capisco perché trovino così tremenda l’idea di accettarsi per quello che sono. […]
Testo originale: Queer Narratives from Kenya: I am a male-to-female transgender
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