Fa’ esistere l’Infinito. Il vuoto fecondo e gli impazienti che soccombono agli idoli
Riflessioni sull’Ebraico e il pensiero biblico di Giuseppe Messina*, quarta parte
Secondo i maestri del Talmud, le lettere non erano solo incise sulla pietra, ma l’attraversavano da parte a parte. Detto altrimenti, la materia che costituisce la scrittura della Legge e della rivelazione non è altro che…vuoto! Le lettere del Decalogo sono fatte di vuoto, così come diremmo di marmo o di legno. Ma, come vedremo, quest’indicazione- il vuoto- è fondamentale.
Un’altra tradizione sostiene che Mosè scrisse tutta la Torah dalla prima all’ultima riga senza alcuna parola compiuta, come un susseguirsi ininterrotto di lettere. Ciò viene chiamata Torah hashem, la Torah di Dio. È come una sorta di nome unico di Dio, che non ha né può avere alcun significato. È come una scrittura prima delle parole, senza interruzione, punteggiatura, senza ritmo, senza il minimo spazio bianco. Mosè ha introdotto delle interruzioni nel susseguirsi ininterrotto della Torah.
In ebraico la parola si dice anche milah, ma questo stesso termine significa anche taglio o circoncisione. Tagliare nel corpo del testo per introdurre spazi ricorda il taglio della circoncisione che introduce il figlio maschio nella comunità. Circoncidere il testo significa dargli un senso a partire da una parola, farlo passare da un susseguirsi ininterrotto di lettere a parole separate dagli spazi bianchi, dai vuoti che hanno un senso.
Leggere significa produrre, creare perennemente. Il lettore non cessa di trovare nuovi significati, nuove storie nella Storia. Secondo la tradizione ebraica, verrà un giorno in cui saremo capaci di leggere le lettere bianche tra quelle nere, ossia le bianche, quelle vuote, tra le parole scritte: saremo di fronte alla Torah del Messia. Frattanto, nella nostra condizione umana, lo spazio bianco, il taglio, che consentono di costruire il senso sono essenziali. L’idea, così importante, di un vuoto fondante non appartiene esclusivamente alla Bibbia.
Anche la tradizione cinese insiste sul vuoto, formidabile energia che concatena e associa due atomi o i pianeti, le stelle e le galassie. Anche i maestri della Qabbalah hanno affermato che l’esistenza proviene dal vuoto. Ci torneremo. Ma è evidente che la circoncisione non è estranea a queste riflessioni.
A otto giorni, il bambino ebreo entra nell’Alleanza attraverso questo taglio. Asportando un piccolo pezzo di pelle (e non di carne), si introduce una mancanza. Questa mancanza o vuoto sottolinea l’incompiutezza, l’imperfezione. Essa pone immediatamente l’esistenza come desiderio di porsi in relazione, di inventarsi altrimenti. Chi è totalmente se stesso, pieno di sé, non ha bisogno di niente e di nessuno. È un “io” che non necessita di un “tu” (ma è proprio il caso di dire che ciò rappresenta anche la sua infelicità?).
L’imperfezione richiama il desiderio e la possibilità del superamento, della trascendenza. Il taglio della circoncisione simboleggia una mancanza creatrice. Il dono delle Dieci Parole sul Sinai è sottolineato da un evento straordinario: Mosè riceve le tavole della Legge e successivamente le rompe! Dono della Legge, ma anche dono della rottura: ecco ciò che va compreso. La Legge come una totalità, data e appresa una volta per tutte, non esiste. Mosè era salito sulla montagna e doveva ridiscenderne con la Legge. Mosè ritarda. È in ritardo…come il Messia, che sarà sempre in ritardo. I figli di Israele perdono la pazienza e fabbricano un idolo, il vitello d’oro. L’idolatria comincia con un gesto d’impazienza.
L’impazienza è idolatria. Essa vuole sapere, afferrare, avere sotto mano ininterrottamente la figura del proprio Dio. Volere immediatamente, porta a irrigidirsi: Dio subito, Dio pietrificato, Dio morto, vitello d’oro. Impazienza significa non dare tempo; rifiuto di lasciare a l’altro lo spazio di cui ha bisogno per vivere, per essere. Volontà di sopprimere o impossibilità di sopportare il vuoto, impossibilità di fare posto all’altro, al nuovo. L’impazienza non dà la possibilità al tempo di dispiegarsi.
Pertanto, l’esperienza del dono della Torah, è quella della pazienza, che implica il ritrarsi. In tal modo la mano va verso il mondo, Dio e gli altri senza richiudersi in una presa, senza abbandonarsi alla violenza del pugno chiuso. La rottura delle tavole della Legge reintroduce il taglio, il vuoto fondamentale per il popolo che riteneva di essere già arrivato. Si tratta di una sorta di circoncisione a livello collettivo sul corpo del testo dato a tutti.
Del resto, Mosè rompe le tavole il 17 tamuz, divenuto per gli ebrei giorno di digiuno. Perché? Perché il digiuno fa vivere o rivivere un’esperienza di vuoto in sé. Digiunare non significa solo aver fame, ma ci ricorda che siamo esseri soggetti alla mancanza. Chi non ha fame, al contrario, prova un senso di pienezza.
Richiamare la necessità della mancanza o del vuoto, significa ricordare quella del digiuno. D’altronde, Mosè, che è risalito sulla montagna dopo aver rotto le tavole, ridiscende il 10 di tishrì, giorno di Kippur (giorno dell’espiazione), giorno di digiuno e riflessione. Una volta rotte, le tavole non hanno bisogno di essere riscritte, ma interpretate.
La Torah stessa non può appartenere all’ordine della pienezza: deve essere interpretata. Bisogna approfondire il suo significato attraverso i commenti. Approfondire, dunque fare un vuoto, decostruire il significato. Per gli ebrei il libro della Torah che viene mostrato ogni shabbat rende impuro chiunque lo tocchi, mentre chi lo regge porta il significato stesso dell’ebraismo.
Ciò significa che il libro della Torah, se ricevuto come tale, è un idolo; è un vitello d’oro se lo accetto come oggetto, senza commentarlo e interpretarlo. Occorre, per così dire, che il testo sia circonciso dal commento.
* Giuseppe Messina è docente ordinario di filosofia e storia presso il Liceo Scientifico N. Copernico di Bologna e dal 12 marzo 2010 è presidente-fondatore dell’Associazione Amicizia Ebraico Cristiana (AEC) di Bologna, già membro dell’AEC della Romagna. Scrive articoli sul Bollettino dell’associazione AEC di Firenze. Dal 2006 studia Ebraico biblico presso la Fraternità di Charles de Foucauld di Ravenna con la maestra Maria Angela Baroncelli Molducci. Ha insegnato Ebraico biblico e Pensiero ebraico presso il Collegio San Luigi dei Padri Barnabiti di Bologna e presso il Centro Poggeschi dei Padri Gesuiti di Bologna.