Fa’ esistere l’infinito. Interpreto dunque sono
Riflessioni sull’Ebraico e il pensiero biblico di Giuseppe Messina*, quinta parte
All’inizio abbiamo sostenuto che non si tratta di comandamenti, ma di parole. La tradizione ha diffuso l’idea che le Dieci Parole fossero prescrizioni. Tuttavia la prima parola: “Io sono l’Eterno, tuo Dio”, è innanzi tutto un’informazione, non un’ingiunzione. La seconda, è vero, lo è. Infatti, è scritto: “Non avrai altri dei di fronte a me”. Ma le Dieci Parole cominciano con “Io sono”. Questo “Io sono” è stato scritto sulle tavole. È un testo, trascritto sulle tavole, tramandato di padre in figlio. Siamo di fronte alla specificità della rivelazione per l’ebraismo: il nome di Dio è dato nel testo. Potremmo spingerci anche oltre: Dio è un testo per gli ebrei.
“Io sono l’Eterno, tuo Dio”. Di primo acchito, Dio si rivela, in questo modo, il Suo nome, o uno dei suoi nomi, “l’Eterno”. Ma sarebbe fuorviante assumere così questa parola. Eterno, non è un nome di Dio, un nome in più, come Zeus o qualche altro. Il suo nome è il Tetragramma, YHWH, quattro consonanti senza vocali che è possibile compitare, ma non pronunciare. Pronunciarlo ponendovi le vocali significherebbe, riempire il nome, saturare, per così dire, subito il suo significato. La sua infinità e eternità verrebbero cinte nei limiti di una parola. Se volessimo tradurre il Tetragramma, bisognerebbe dire: “Silenzio ha detto”, giacché il suo nome invita piuttosto al silenzio.
Certo, il Tetragramma è l’Essere, ma, in primo luogo, è una parola composta da quattro consonanti prive di vocali. Pura immagine che non lascia vedere nulla, puro silenzio che non lascia sentire nulla, se non il silenzio stesso, nella profondità del linguaggio, fondamento del linguaggio. I maestri del Talmud ci insegnano che, se combinate, le consonanti permettono di scrivere: hwh, hyh, yhh, ossia il presente (howeh), il passato (hawah) e il futuro (yeheh). Il Tetragramma pertanto non è proprio il nome di Dio, ma l’apertura alle tre dimensioni del tempo. L’Essere è il tempo! Il Tetragramma si potrebbe tradurre con “essere”, essere stato” e “sarò”.
Il Tetragramma si inscrive in ogni dimensione del tempo e della storia. In tal modo la dimensione infinita del Tetragramma entra nella Storia. Insistere molto sull’importanza della Legge orale, che non cessa di rompere, di frantumare la Legge scritta, significa insistere sulla responsabilità che gli uomini hanno- e gli ebrei in particolare- di rendere infinito Dio; di non contenerlo in un testo chiuso. La Torah scritta in quanto tale, senza il commento della Legge orale, non può essere il nome di Dio. Altrimenti diventa un idolo.
La Torah è stata scritta per essere tramandata, affinché il maschile biblico si capovolgesse nel femminile del commento, per rompere non solo il testo, ma anche l’io e rivolgerlo verso un altro. La fecondità dell’ebraismo è la dialettica delle due Leggi. Grazie allo scarto o al divario che c’è tra la Torah scritta e orale e all’intervallo in cui opera l’interpretazione o – per usare un termine dotto – l’ermeneutica, l’ebraismo si dispiega nel tempo della storia. In analogia con il celebre “penso dunque sono” di Cartesio, che ha orientato tutta la filosofia occidentale, potremmo dire che l’ebreo, che ha inteso la parola “Io sono” afferma: “interpreto dunque sono”.
Secondo il Talmud, Mosè sul Sinài non ha ricevuto il contenuto della Torah, ma le diverse chiavi interpretative che, nel corso dei secoli, permettono al commento infinito di svilupparsi. La Legge orale che ha tramandato non è una spiegazione definitiva, ma solo regole interpretative. Si potrebbe, a questo punto, contrapporre un paradosso o una contraddizione.
L’apertura della Torah è infinita, il commento senza fine, essa viene tramandata di generazione in generazione, ma così siamo di fronte a un circuito chiuso. Tutto resta confinato nella comunità ebraica e il rischio è quello di girare in tondo, tra se stessi. Affinché si sia veramente presi in movimento di trascendenza infinita, universale, non bisognerebbe cancellare i limiti della comunità ebraica, superarla per coinvolgere altre comunità? Se si risponde di sì, non si viene meno alla vocazione di essere popolo eletto? Eletto, forse…ma bisogna dire perché. Dal punto di vista ebraico elezione significa avere la responsabilità di trasmettere a tutti il senso infinito della Torah.
Del resto, il testo stesso delle Dieci Parole non ci lascia sguarniti su questo punto. Nella Bibbia, come la conosciamo noi oggi, i libri sono suddivisi in capitoli e questi in versetti. La tradizione ebraica procede, piuttosto, per raggruppamenti di testi, chiamata sidra. Tali raggruppamenti sono designati con un nome che ragguaglia circa il loro contenuto. In quale sidra sono disposti i Dieci Comandamenti? Essa reca il nome di un individuo, cosa non molto frequente (per esempio, Noè per il diluvio).
Per le Dieci Parole, l’individuo in questione è Ietro, sacerdote di Madian. Benché abbia concesso la figlia in sposa a Mosè, egli non appartiene al popolo ebraico. Perché, si chiedono i commentatori della Torah, le Dieci Parole sono enunciate in una sidra che reca il nome di un sacerdote idolatra? Si può intuire la risposta: le Parole non sono indirizzate solo agli ebrei, ma a tutta l’umanità.
* Giuseppe Messina è docente ordinario di filosofia e storia presso il Liceo Scientifico N. Copernico di Bologna e dal 12 marzo 2010 è presidente-fondatore dell’Associazione Amicizia Ebraico Cristiana (AEC) di Bologna, già membro dell’AEC della Romagna. Scrive articoli sul Bollettino dell’associazione AEC di Firenze. Dal 2006 studia Ebraico biblico presso la Fraternità di Charles de Foucauld di Ravenna con la maestra Maria Angela Baroncelli Molducci. Ha insegnato Ebraico biblico e Pensiero ebraico presso il Collegio San Luigi dei Padri Barnabiti di Bologna e presso il Centro Poggeschi dei Padri Gesuiti di Bologna