Famiglia e omosessualità. Imparare l’accoglienza
Articolo di Alessandra Bialetti Gregori* pubblicato su Adista Segni nuovi n° 9 del 9 marzo 2013
Il coming out, ovvero la rivelazione a se stessi e agli altri della propria identità omosessuale, rappresenta un fattore di benessere per la costruzione identitaria, un fattore protettivo di crescita armonica, ma anche un momento di crisi degli equilibri familiari ed amicali.
La crisi, tuttavia, va letta in un’ottica di risorsa e non di incidente di percorso: costituisce la possibilità, per l’intero nucleo familiare, di rivedere le proprie posizioni, scendere nel profondo di se stessi a contatto con le proprie paure, stereotipi e pregiudizi per trovare nuove strategie relazionali fondate su un rapporto di verità.
Al momento del coming out tutta la famiglia “si colora di omosessualità” dovendo ridefinire se stessa sia internamente, sia esternamente nei confronti di una società che vive un’omofobia più o meno manifesta.
Il coming out è momento di confusione emotiva molto forte: l’omeostasi familiare subisce un trauma profondo, traballano i riferimenti valoriali fino a quel momento perseguiti, si vive un senso di colpevolizzazione per aver messo al mondo un figlio “sbagliato” o, nel caso del genitore omosessuale, per non poter essere più una buona guida. Questa ferita nelle relazioni familiari, tuttavia, si può trasformare in feritoia ovvero rappresentare quella porta in cui addentrarsi per giungere alla piena realizzazione e a nuovi rapporti familiari.
Non si vuole assolutamente parlare di pedagogia della prevenzione etichettando nuovamente l’omosessualità come patologia, ormai derubricata dal Dsm, manuale diagnostico dei disturbi mentali, nel lontano 1973. Si intende invece propugnare una pedagogia dell’accoglienza in cui la persona omosessuale possa vivere pienamente se stessa in tutte le sue manifestazioni, compreso naturalmente l’orientamento omosessuale, elemento della personalità ma non tratto caratterizzante.
In ambito cattolico spesso si tende a privilegiare l’aspetto riparativo, il prevenire l’insorgere di una patologia all’interno della famiglia, il caricare i genitori di tali pesi educativi da imbrigliare totalmente le positive risorse esistenti in ogni nucleo familiare anche se bloccate da un momento di crisi.
È importante sottolineare che pedagogia dell’accoglienza non vuol significare accettazione. Tale termine, infatti, celerebbe al suo interno l’insidia della categorizzazione dell’omosessualità come malattia da curare o “disgrazia” da sobbarcarsi. Parlare invece di pedagogia dell’accoglienza porta a mettere a fuoco il riconoscimento del valore e dignità della persona così come essa è con le sue pulsioni affettive e con un progetto di vita che preveda anche una relazione stabile e, in alcuni casi, il desiderio di genitorialità.
Accogliere, quindi, non è accettare passivamente, ma rendersi protagonisti di nuove relazioni familiari in cui il dialogo, l’ascolto empatico del vissuto dell’altro, la condivisione del lutto di un sogno eterosessuale che non si realizzerà più e del conseguente timore di isolamento e ghettizzazione costituiscono le variabili di un nuovo percorso pedagogico che miri esclusivamente alla piena realizzazione e benessere della persona.
Pedagogia dell’accoglienza è pedagogia della verità. La famiglia, a confronto con l’omosessualtià, è chiamata a compiere un cammino di autenticità, unica condizione per uscire da un clima di menzogna, nascondimento, isolamento, senso di colpa e incamminarsi verso una chiarezza e trasparenza che i figli e genitori omosessuali richiedono come condizione necessaria per il riconoscimento di se stessi e per affrontare, in un’alleanza familiare, il difficile e destabilizzante clima sociale.
È la clandestinità comunicativa, prima ancora di quella sociale, a mettere in serio pericolo le relazioni familiari e la realizzazione personale. Chiarezza e trasparenza rispetto al proprio orientamento sessuale, rappresentano l’unica via, quando se ne ritiene giunto il momento opportuno, per elaborare paure, fantasmi, non detti che minano alla radice ogni rapporto interpersonale.
È acquisire quegli strumenti necessari per affrontare e accettare la nuova realtà. Il rischio della non verità è un silenzio carico di interpretazioni e domande che, se non inserite in un contenitore emotivo rassicurante, non fanno altro che amplificare il giudizio omofobo proveniente dalla società.
Pedagogia dell’accoglienza è pedagogia della presenza e della pazienza. Presenza che si fa compagna di viaggio nel percorso di identificazione della persona omosessuale fino alla sua entrata in società, elaborando i sensi di colpa di avere fallito come genitori e di aver messo al mondo un figlio con un problema in più.
Pazienza nell’accogliere se stessi come si è, valorizzando la diversità come ricchezza per poi affrontare un immaginario collettivo che ancora non riesce a vedere l’essere “differente” come una ricchezza nelle relazioni interpersonali e sociali.
Pedagogia dell’accoglienza è educazione alla resilienza, ovvero quella capacità fondamentale, per l’essere umano, di resistere agli urti interni ed esterni rimanendo fedele a se stesso e alla propria essenza: spetta alla famiglia attivare la capacità resiliente della persona omosessuale in modo che possa poi promuovere pienamente se stessa.
Pedagogia dell’accoglienza è pedagogia dell’integrazione completa della persona. L’identità infatti, è costituita da vari livelli: personale ovvero come il soggetto si percepisce; fisico che parla di un corpo che agisce l’identità sessuale; sociale, attribuito dal gruppo sociale di appartenenza e psicologico costituito dalle caratteristiche psicologiche personali.
Nella persona omosessuale il cammino di integrazione di queste varie componenti risulta particolarmente difficoltoso in quanto l’identità personale contrasta con quella fisica, che veicola un corpo ricco di impulsi inizialmente giudicati sbagliati e sporchi, e con quella sociale non riconosciuta e stigmatizzata dal gruppo di maggioranza, ovvero il mondo eterosessuale.
Accogliere la persona omosessuale significa allora collaborare a questo delicato cammino di integrazione lasciando interagire le varie componenti in modo armonico per giungere alla strutturazione di una personalità aperta, flessibile, non giudicante ed autogiudicante ma promuovente la profonda essenza della persona. In tale cammino di integrazione risulta particolarmente importante la dimensione spirituale, considerata unanimemente, fattore protettivo di una crescita sana.
L’essere umano è essere relazionale che nasce, cresce e si sviluppa all’interno di una relazione con se stesso, con gli altri e con un Altro trascendente che interpella il senso della propria esistenza.
Nel caso della persona omosessuale la dimensione spirituale, ma più propriamente un cammino di fede, è ancora uno spazio da promuovere e sostenere laddove percepisce il suo essere sbagliata rispetto ad una Chiesa che difficilmente entra in dialogo con la diversità e una comunità che mostra tutto il suo limite nell’accogliere e promuovere relazioni sane al proprio interno.
L’integrazione tra fede, intesa come rapporto di dialogo e fiducia verso il trascendente, e omosessualità è condizione necessaria per elaborare un progetto di vita che integri totalmente la persona per ciò che è aprendo l’orizzonte su relazioni stabili di cura, accudimento, protezione all’interno di coppie o famiglie omosessuali.
Il bisogno spirituale è intrinseco nell’essere umano tanto quanto il suo orientamento sessuale e comprende sia la certezza di essere protetti da qualcosa più grande di se stessi e della propria umanità, sia un forte senso di comunità e condivisione che permette di affrontare i momenti di difficoltà.
La pedagogia dell’accoglienza si estende dalla famiglia a tutto il nucleo sociale: è un “problema” di tutti e di ciascuno perché la crescita spirituale di un gay o di una lesbica può facilitare la crescita psicologica complessiva e costituire una risorsa anche per le comunità parrocchiali in cui il “diverso” è portatore di una ricchezza che concorre al bene di tutti.
Occorre camminare ancora molto su questo punto: è uno spazio di dialogo ancora da riempire non di silenzi ma di fattivi gesti di avvicinamento e comprensione.
Mancano ancora gli strumenti per comprendere la situazione, strumenti per sostenere la persona omosessuale in un cammino di accoglienza di se stessa e di piena partecipazione alla vita di una Chiesa che si rivolga e si inginocchi ai piedi dell’umano riscoprendo la sua vera missione educativa e pedagogica: il servizio alla vita.
Contrariamente a quanto si dice prevenire non è meglio che curare, accogliere è meglio che prevenire. In fondo Gesù di Nazareth non è stato l’iniziatore e il promotore della pedagogia dell’accoglienza?
* Alessandra Bialetti Gregori. Formatrice alla relazione d’aiuto e di coppia, alla comunicazione e all’ascolto per educatori insegnanti, anuimatori e genitori.
Questo approfondimento nasce da una tesi, discussa recentemente all’Università Pontificia Salesiana, sul tema Genitori sempre: Omosessualità e genitorialità, che aveva come scopo quello di individuare delle linee pedagogiche di sostegno ai genitori con figli omosessuali o ai genitori che, loro stessi, scoprono o si riappropriano dell’identità omosessuale.