Cosa significa per i cristiani LGBT fare gruppo?
Riflessione di Massimo Battaglio
Credo che quasi tutti noi, come d’altra parte quasi tutti i credenti della nostra epoca, siamo passati, almeno in gioventù, attraverso l’esperienza del “fare gruppo”. Il gruppo è, da decenni, lo strumento che si usa in tutte le parrocchie come fondamento pastorale e base della comunità.
Anch’io ho fatto gruppo per anni e, in alcune occasioni, continuo a farlo. Ma con un’impostazione che, vedo, è sempre stata un po’ originale. Intanto, facendo parte di un’associazione (la GiOC, Gioventù Operaia Cristiana), il gruppo non esauriva l’esperienza comunitaria. Gruppi coetanei provenienti da quartieri diversi, si davano momenti e temi unitari. Gruppi disetanei dello stesso territorio se ne davano altri. Tutti i gruppi convergevano poi in campagne d’azione comuni e si confrontavano con altre esperienze di movimento. Il senso di appartenenza, che scaturisce naturalmente dal fare gruppo, si traduceva immediatamente in senso di rete, che è alla base del senso di Chiesa.
Anche nei gruppi cristinani lgbt succede una cosa simile: forte identificazione nel proprio gruppo; altrettanto forte tensione nel fare “circuito”. Sincera ricerca di fede ma senza dimenticare di far parte di un movimento lgbt più vasto, a sua volta inserito nel mondo di tutti.
Nella mia esperienza, il gruppo seguiva un metodo preciso anche nella propria organizzazione interna. Ciascun componente era chiamato a riflettere ed agire su più dimensioni: quella religiosa, quella etica, quella socio-politica. Si esigeva che ognuno lavorasse sul proprio rapporto con Dio, con se stesso e con gli altri, con atteggiamento attivo e propositivo. Le riflessioni partivano dai fatti delle nostre vite, che venivano analizzati, valutati prima laicamente e poi alla luce del Vangelo, e quindi trasformati in occasione di azione.
Poco per volta, il gruppo passava da luogo amicale a cellula attiva nella comunità e sul territorio. Pian piano si dissolveva con l’irradiarsi dei suoi membri nel mondo. Restavano i valori, restava (e resta) l’amicizia. Restano forti periodici momenti di comunità. Ma resta soprattutto la tensione a restituire – non solo a ricevere – al mondo intero – non solo alla combriccola – sotto forma di impegno.
Oggi, nè io nè tutte le persone che ho incontrato nel mio fare gruppo, riusciremmo a sopravvivere senza qualche impegno socio-politico, senza costanti riferimenti etici, senza fede.
Mi piacerebbe poter reincontrare, nei gruppi cristiani lgbt, qualcosa di simile. Vorrei che non fossero solo luoghi in cui riconoscersi (e consolarsi) reciprocamente. Non vorrei che si limitassero ad essere micro-comunità appartate dove si radunano “quelli bravi” in opposizione a un mondo e a una Chiesa “cattivi”.
Vorrei che i nostri gruppi diventassero “cellule di missione”, in grado di far riflettere le nostre comunità sulle nostre tematiche. Non vorrei che servissero a supplire agli altri gruppi, quelli da cui proveniamo e che talvolta ci hanno esclusi.
L’esclusione è desolante, lo riconosco, e il gruppo lgbt è anche uno strumento per reagire. Per fortuna, io non l’ho provata. Ma se me la sono risparmiata, si deve, almeno in parte e almeno per me, proprio a quel metodo di lavoro che si adottava nel mio gruppo: guardare i fatti del quotidiano, valutarli, agire.
Un giorno, al gruppo, il fatto su cui discutere fu il mio orientamento sessuale. Ed era impossibile una reazione escludente perché lì c’ero io, quello di sempre, solo con un po’ di coraggio in più. Ed ero io, con la mia vita, il mio quotidiano, a diventare il criterio di ragionamento. Viceversa, la tradizione, i codicilli catechistici, le circolari cardinalizie, restavano elementi di confronto, non ricette di cure mediche dolorose ma indiscutibili.
Il gruppo lgbt cristiano che io sogno è un gruppo di testimonianza. E’ un gruppo di persone che “si formano”, cioè che ragionano e si tengono aggiornate, innanzitutto sul vivere l’omosessualità, poi sul vivere la fede e infine sul conciliare le due dimensioni. Ed è un gruppo “formante”, cioè che propone i propri ragionamenti e il proprio esempio ad altri, facendone magari di tutti i colori per farsi ascoltare.
Per esempio, un buon gruppo, a mio avviso, è quello che organizza veglie di preghiera per le vittime dell’omofobia che siano non solo aperte ma interessanti (magari senza puntare alla partecipazione del vescovo ma piuttosto a quella del popolo).
Un buon gruppo è quello, sempre a mio avviso, in cui tutti i membri, prima o poi, saranno in grado di confrontarsi con altri gruppi cristiani “di pastorale ordinaria” parlando della propria storia magari in coppia.
Esagero: un buon gruppo lgbt cattolico fa il diavolo a quattro finché il proprio contributo viene riconosciuto essenziale nei corsi di preparazione al matrimonio.
Il gruppo che continua a ripetersi che il Signore ci ama così come siamo (e cioè nonostante qualche nostra presunta menomazione) ma che non lo dice agli altri (anche con insistenza quando è necessario) è un pessimo gruppo.
Così come è un pessimo gruppo quello che “media”, cioè che scende a compromessi tra la vita dei suoi componenti e la mentalità cattolica comune per suscitare tolleranza.
Un gruppo così è un gruppo ombra, dove “ombra” va inteso in dialetto veneto e significa cicchetto, bicchierino di grappa: una cosa che dà forza ma crea dipendenza. E le dipendenze escludono più dei viceparroci.