The Cross in the Closet. Fingersi gay per capire quanto pesa il pregiudizio
Articolo di Marino Niola tratto da Il Venerdì di Repubblica del 26 ottobre 2012, pag.69
Si finge gay per un anno. Per vedere l’effetto che fa. Il suo nome è Timothy Kurek ed è un cristiano evangelico di Nashville, Tennessee. Uno di quei fondamentalisti che dell’omofobia – è lui stesso a dirlo – hanno fatto un articolo di fede. Una missione per conto di Dio.
Ai suoi amici che facevano outing (ndr coming out) intimava sempre di pentirsi del loro abominio per guada-gnarsi il paradiso. Ma alla fine è stato lui a pentirsi, e a sconfessare il proprio integralismo.
Scosso dal dolore di un’amica diseredata dalla famiglia dopo aver confessato di essere lesbica, Kurek ha fatto una clamorosa retromarcia. Dalla bigotteria all’empatia.
E così ha iniziato il suo cammino di conversione con una discesa negli inferi del pregiudizio. Gli è bastato pronunciare tre sole parole, “I’m gay”, perché tutto il suo mondo cadesse in pezzi. Gli amici di sempre gli hanno tolto il saluto e sua madre ha scritto di preferire un cancro mortale a un figlio omosessuale.
Ma Kurek ha tenuto botta ed ha portato per un intero anno quella croce che i gay portano per tutta la vita. Adesso ha raccontato il suo esperimento in un libro dal titolo eloquente. The Cross in the Closet, la croce nel ripostiglio. È la cronaca di un calvario quotidiano.
Che diventa una durissima requisitoria sulla disumanità di una Chiesa dal cuore di pietra. Che trasforma la devozione in ossessione. E la religione in discriminazione.