Folgorati sulla via di San Paolo
Articolo di Emanuele Quaranta tratto dal mensile “Diario” del gennaio 2006
In principio era una città. Una città che la tradizione ebraico-cristiana ha tramandato alla storia affibbiandole un’etichetta di riprovazione e condanna. E la cosa divertente – se solo ci fosse qualcosa da ridere – è che tutto nasce da un errore di interpretazione esegetica.
Sodoma era una città che sorgeva nella valle del Giordano, a ridosso del Mar Morto. Lì vi abitava Lot, nipote di Abramo. E lì vanno a visitarlo due angeli del Signore.
Di notte, gli abitanti di Sodoma circondano la casa di Lot, racconta la Genesi, e ingiungono a Lot di consegnare loro i due stranieri perché possano abusarne. Lot tenta di dissuaderli e, per placarli, arriva fino a offrire alla folla infoiata le sue due giovani figlie vergini in cambio. Il racconto biblico prosegue, come noto, con la maledizione dell’intera città da parte di Jahvè e la fuga di Lot mentre Sodoma viene distrutta.
Secondo i biblisti moderni, però, il grande equivoco, l’errore di fondo, che si fa strada soprattutto a partire dalle Lettere di Paolo, è che il giudizio così severo non sia dovuto tanto a una condanna morale dell’omosessualità o della violenza carnale – come si terrà per buono sin dai primi secoli cristiani – quanto piuttosto allo scandalo divino nei confronti della violazione di un comandamento sacro nell’Oriente biblico: quello dell’ospitalità nei confronti dello straniero.
Quello di Genesi, capitolo 19, versetti 1-25, non è certo l’unico passo vetero testamentario cui la tradizione religiosa più omofobica si appiglia. Altro brano molto citato è quello del Levitico («Se uno ha rapporti con un uomo come con una donna, tutti e due hanno commesso abominio»). Ma, anche in questo caso, dedurne immediatamente una condanna della pratica omosessuale è, quantomeno, precipitoso. E in questo caso, non perché il versetto non sia abbastanza esplicito.
Ma perché la condanna avviene nel contesto della cosiddetta «Legge di santità», una serie di prescrizioni molto precise, da rispettare obbligatoriamente per conservare la necessaria purezza per il culto al Signore. Così come è proibita la pratica omosessuale, infatti, viene stigmatizzato l’atto sessuale con la propria moglie durante il periodo delle mestruazioni. O, addirittura, viene vietato di seminare il proprio campo con semi di due specie diverse, o accoppiare bestie di due specie differenti, o indossare una veste tessuta di due diverse materie.
In realtà, una condanna dell’omosessualità in quanto tale non esiste nelle Scritture. Anche perché l’omosessualità, come la intendiamo noi oggi, cioè come naturale predisposizione a essere attratti eroticamente nei confronti di persone del proprio stesso sesso, non era neppure concepita al tempo.
Gli atti omosessuali esistevano come pratiche orgiastiche idolatriche, legate a un’idea di prostituzione sacra. Oppure, più avanti, nella Grecia antica, come forme di «educazione sentimentale» dei ragazzi, nella versione della pederastia.
Ma se Gesù, nei Vangeli, non parla mai di omosessualità né tanto- meno fa riferimento a una condanna degli atti omosessuali, come mai nella tradizione cristiana è così forse lo scandalo da censura dell’erotismo gay? Secondo alcuni esegeti contemporanei. questo – come tante altre acquisizioni del cristianesimo – è dovuto alla rilettura che della buona novella del Messia di Nazareth dà san Paolo, vero deus ex machina della trasformazione di una setta ereticale ebraica in una nuova religione, destinata a conquistare i conquistatori romani e a divenire l’insegna dell’impero.
Le parole più dure nei confronti dell’attività omosessuale Paolo le pronuncia nella Lettera ai Romani e nella prima ai Corinzi. Chi ha abbandonato Dio e si è rivolto agli idoli, dice l’apostolo di Tarso, è stato disorientato e traviato anche nel corpo, così da desiderare persone del suo stesso sesso, invece che del sesso opposto. E agli abitanti di Corinto dice di non illudersi: gli ingiusti – tra i quali mette anche sodomiti ed effeminati – non erediteranno il regno di Dio.
Da dove deriva tutta questa rabbia omofobica che si avverte nelle parole di Paolo? Alcuni biblisti si sono spinti fino a adombrare ipotesi di omosessualità repressa nello stesso apostolo, che in un famoso passaggio della seconda Lettera ai Corinzi parla di «una spada» che gli è stata «conficcata nella carne», un tormento personale insomma, un travaglio di passioni che, dice Paolo nella Lettera ai Romani, lo spingerà a comportamenti ambigui e contraddittori: «Il bene che io voglio non lo faccio, ma il male che non voglio lo pratico. Disgraziato uomo che sono, chi mi libererà da questo peso di morte?».
Autobiografismi a parte, di si curo c’è una forte misoginia nel pensiero e negli atteggiamenti dell’apostolo, così come un combattuto, ma radicale disprezzo della sessualità, la cui visione sembra tutt’altro che rasserenata dalla conversione al Vangelo liberante del Cristo. Da qui in avanti, si potrebbe dire, il cammino della Chiesa verso il rifiuto netto e assoluto non solo dell’omosessualità, ma anche di uno sguardo pacificato e solare nei confronti dell’amore carnale, è tutto in discesa.
Già all’indomani dell’affermazione del cristianesimo come religione dell’impero romano, con Costanzio, figlio di Costantino, viene promulgata la prima legge contro il «reato» di omosessualità. «Una spada vendicatrice», dice la norma, «armi il diritto, affinché gli infami vengano sottoposti a dei supplizi ricercati».
Siamo nel 342, ed è appena l’inizio di una lunga storia di atti volti a mettere all’indice il peccato imperdonabile di sodomia. Una storia fatta di pulsioni contraddittorie, di attrazione inconfessabile verso quell’atto carnale proibito, in cui spesso l’omosessualità repressa genera un angoscioso senso di colpa, tale da scatenare l’orrore verso se stessi e i propri simili. E tale da spingere le gerarchie ecclesiastiche e imperiali a tentare di cancellare quell’onta persino dall’immaginario collettivo.
Non è un caso, insomma, se Costanzio — il primo legislatore omofono – sia anche notoriamente, a detta degli storici, omosessuale lui stesso. Pochi anni dopo, Teodosio stabilisce la pena pubblica del rogo per i colpevoli di «atti contro natura». E nel VI secolo, con Giustiniano, il codice di diritto penale recepisce e sancisce definitivamente la condanna esemplare e sistematica nei confronti del reato di sodomia.
È così che il «peccato» morale secondo le norme religiose diviene anche colpa penai- mente punibile dalle autorità imperiali, che dell’ordine cristiano costituito si fanno garanti e interpreti.
Con l’immersione nel Medioevo, la situazione per i gay non muta di molto, se non per il tipo di supplizio cui la fantasia del braccio secolare decide di sottoporli. Il codice giustinianeo prevede la decapitazione con la spada.
Il governo della Spagna visigotica, invece, introduce la castrazione e, per gli ecclesiastici, l’espulsione dagli ordini sacri, la scomunica e l’esilio (sempre che il colpevole fosse sopravvissuto all’amputazione degli attributi). La cosa curiosa è che, in questo periodo, gli unici processi contro omosessuali che siano passati alla storia riguardano proprio degli ecclesiastici: per esempio, Isaia di Rodi, prefectus vigilum di Costantinopoli, e Alessandro di Diospolis, in Tracia.
Dopo una parentesi di relativa mitezza nei confronti degli omosessuali in età carolingia, durante la quale le pene nei confronti dei colpevoli si limitano a misure canoniche e penitenziali e il «reato» di sodomia viene declassificato paragonandolo a qualsiasi altra forma di fornicazione, è intorno al XIII secolo che l’intolleranza riemerge più forte di prima. E il sodomita torna a essere condannato al rogo, costretto ad ardere nelle stesse fiamme riservate a eretici e streghe. Non è un caso che, quando Filippo IV il Bello volle disfarsi dei monaci templari, li accusò di praticare la sodomia e il loro capo, Jacques de Molay, fu giustiziato sul rogo.
Sul piano teologico-morale, a fare testo d’ora in poi sarà il pensiero di San Tommaso, che inserisce la sodomia tra gli «atti contro natura» insieme alla masturbazione e alla bestialità e – in quanto tale – peccato contro la castità ben più grave dell’incesto, dell’adulterio o della fornicazione. Per secoli la teologia cattolica non si discosterà dalla Summa dell’Aquinate.
E qui che si profila chiaramente il ricorso al concetto di «legge naturale», argomento che, nonostante l’usura logica e filosofica, regge tuttora nelle encicliche pontificie e nei documenti della Congregazione per la dottrina della fede.
In epoca comunale e rinascimentale, il contesto sociale e civile, radicalmente mutato rispetto all’età feudale, fa sì che anche sul piano dei comportamenti sessuali i costumi cambino. Secondo alcuni studiosi, almeno nelle città più vivaci e ricche come Firenze e Venezia, si fa strada addirittura una «sottocultura sodomita».
In ogni caso, la pratica del sesso gay si diffonde a tal punto che nobili ed ecclesiastici finiscono periodicamente alla berlina in taluni clamorosi processi imbastiti nella Repubblica della Serenissima. Quanto a Firenze, ne fa oggetto di scherno persino il Machiavelli in alcune sue pagine. E oggetto di prediche infuocate san Bernardino da Siena.
Lo «splendore» rinascimentale, con i suoi costumi liberi e le sue gerarchie ecclesiastiche ricche e lussuriose, si chiude con lo choc della riforma protestante, cui segue la Controriforma cattolica.
E con il Concilio di Trento, appunto, che riprende piede l’inasprimento della repressione dei costumi sessuali «sregolati», in particolare dell’omosessualità. Ed è qui che pene canoniche e punizioni del braccio secolare si saldano in un perfetto equilibrio. Ma è anche a quest’epoca che risale la creazione di quello che. negli Stati Uniti dei nostri giorni, è stato definito una «fabbrica di gay»: il seminario.
E il Concilio di Trento, infatti, che per ovviare al bassissimo livello di preparazione culturale e spirituale del clero impone la formazione dei chierici all’interno di istituti ad hoc.
I seminari, che per molti secoli si riveleranno un’intuizione geniale per risollevare le tristi sorti del clero cattolico, finiranno in questi ultimi decenni per essere per lo più desolati casermoni svuotati di «vocazioni».
E talvolta oggetto di scandali e inchieste non soltanto canoniche, ma anche giudiziarie per i numerosi casi di abusi sessuali commessi su giovani seminaristi da parte di compagni più grandi o addirittura di pastori e docenti.
La dottrina e la prassi introdotta con la Controriforma reggeranno fondamentalmente fino al Concilio Vaticano Il senza incrinature di sorta. Ma con gli anni Sessanta tutto cambia radicalmente, dentro e fuori la Chiesa. Nella società civile si fa strada la cosiddetta «rivoluzione sessuale».
E le finestre vaticane, rimaste sbarrate per secoli, verranno finalmente aperte dall’intuizione di papa Giovanni XXIII, che aprendo le assise conciliari diede il via a mutamenti fino ad allora impensabili. Il rinnovamento della teologia innescato dalla miccia del Vaticano II lentamente comincia a portare frutti: la nuova teologia morale dà avvio a una rivalutazione di tutto l’ambito della sessualità.
Se prima gli atti sessuali nelle coppie sposate erano considerati legittimi, ma quasi un male necessario per evitare la concupiscenza e garantire la procreazione, ora ci si concentra sulla loro positività in quanto manifestazione della bellezza misteriosa e stupefacente della relazione affettiva. Di conseguenza, anche nei confronti degli omosessuali si mette in risalto la positività di una relazione affettiva stabile.
Alle aperture di tanti teologi postconciliari, da Bernard Haring a Leandro Rossi, non fa seguito un uguale sviluppo del magistero. Anzi, a partire dall’ultima fase del pontificato di Paolo VI, e poi con Giovanni Paolo Il, si assiste a una «stretta» nei confronti dei moralisti considerati eccessivamente «aperti» e una concomitante serie di pronunciamenti ufficiali contro la pratica omosessuale.
Il 29 dicembre la Congregazione per la dottrina della fede, guidata allora dal cardinale croato Franjo Seper, pubblica una dichiarazione su Alcune questioni di etica sessuale.
Il documento, che pure insiste sulla necessità di accogliere «con comprensione» le persone omosessuali, dichiara però che «secondo l’ordine morale oggettivo», le relazioni omosessuali sono atti «intrinsecamente disordinati e in nessun caso possono ricevere una qualche approvazione».
Nel novembre 1979, a pochi mesi dalla sua elezione, Karol Wojtyla, il papa figlio del cattolicesimo polacco più tradizionale, fa subito intuire di che pasta è fatto: parlando ai vescovi statunitensi durante il suo primo viaggio oltreoceano, dice che «l’attività omosessuale, da distinguersi dalla tendenza omosessuale, è moralmente malvagia».
Su quest’onda, il primo ottobre 1986 la Congregazione per la dottrina della fede, ormai nelle salde mani del «prefetto di ferro», il cardinale Joseph Ratzinger, si pronuncia nuovamente sul tema con il documento Cura pastorale delle persone omosessuali.
Anche qui si distingue tra tendenza o inclinazione omosessuale che — seppure «disordinata» — non è peccato, e atti sessuali, che vengono invece condannati su tutta la linea. Ai gay, insomma, non resterebbe che la perfetta castità a vita, se volessero rispettare il magistero ufficiale della Chiesa.
Qualche anno dopo, il catechismo universale della Chiesa cattolica non fa che ribadire il concetto, inserendo nella lista dei «peccati gravemente contrari alla castità» le pratiche omosessuali, oltre che la masturbazione, la fornicazione e la pornografia.
E nel 2003, ancora l’ex Sant’Uffizio si pronuncia duramente contro i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali che in alcuni Paesi occidentali vanno qua e là comparendo, e invita senza mezzi termini i politici cristiani a fare ricorso, nei casi estremi, all’obiezione di coscienza.
Certo, a guardare soltanto i pronunciamenti delle gerarchie ecclesiastiche, si rischia di avere un’immagine parziale e riduttiva di ciò che bolle all’interno del variegato mondo cattolico. Molti pastori, sacerdoti e vescovi, si sono dati parecchio da fare in questi anni per offrire ascolto, vicinanza e attenzione ai tanti omosessuali credenti che, faticosamente, tentano di mettere insieme la propria fede con la propria naturale inclinazione sessuale. Gruppi di cristiani omosessuali sono nati in tutto il mondo, Italia compresa.
Nel nostro Paese, solo per citarne un paio, «Il Guado», a Milano, con il sostegno di don Domenico Pezzini, e «Davide e Gionata», a Torino, sotto l’ala protettrice del Gruppo Abele di don Luigi Ciotti.
Non pochi teologi, pur all’interno delle maglie strette concesse dall’occhiuta vigilanza dottrinale vaticana, continuano la propria elaborazione su tematiche «di frontiera» come il rapporto tra sessualità gay e morale cristiana.
Di tanto in tanto, c’è persino qualche coraggioso sacerdote che decide di fare outing e confessare apertamente la propria omosessualità, senza con questo pretendere o rivendicare nulla, se non manifestare la propria anima ferita da tanto nascondersi: «Il grande passo è riconoscersi di fronte a se stessi e agli altri», ha raccontato uno di questi preti al giornalista Marco Politi nel bel libro La confessione (Editori Riuniti).
«Riconoscere la propria omosessualità è una liberazione. Conosco altri preti come me che non ce la fanno e passano una vita schizofrenica. Preti che incontro nei locali gay, ma non vogliono parlarne. Preti che fanno il gioco sporco, si lasciano andare in pubblico a infuocate proclamazioni di moralità, difendono la linea ufficiale della Chiesa, e poi hanno storie personali squallide».
Sì, nonostante in questi anni che ci separano dal Vaticano II molte cose siano andate cambiando e tante persone credenti, laici o preti e vescovi, si siano impegnate per cancellare la tradizionale omofobia che si respirava nelle sacrestie, bisogna ammettere che purtroppo, per ciò che riguarda la questione omosessuale, nella Chiesa domina ancora la grande ipocrisia: da una parte la dottrina, inflessibile e priva di misericordia, dall’altra una prassi fatta spesso di diffusa pratica omosessuale, coltivata nel nascondimento e nella completa amoralità.
Da qui, forse, il grande scandalo mediatico che suscitano – ogni qualvolta emergono – i casi di ecclesiastici coinvolti in affaire a sfondo omosessuale. Per non parlare, ma questa è tutt’altra cosa dall’omosessualità, delle migliaia di episodi di abusi sessuali nei confronti di minori.
L’ultimo, recentissimo, documento vaticano, che blocca l’ammissione in seminario delle persone con tendenze omosessuali, è stato interpretato da molti osservatori come il tentativo un po’ rude di porre un freno ai tanti scandali di pedofilia esplosi nelle parrocchie o negli istituti religiosi di tutto il mondo, Stati Uniti in primis (dove molte diocesi sono andate letteralmente fallite per far fronte ai processi intentati dalle vittime contro parroci e vescovi).
Ma sembra un tentativo un po’ disperato, oltre che discriminatorio. Soprattutto, è frutto dell’ennesimo cortocircuito logico e teologico: perché nulla cambierà realmente, se non si tenterà di fare i conti con una visione antropologica e morale più complessa, che tenga conto anche dell’esistenza di persone «naturalmente» omosessuali.
E dunque, delle due l’una: o il buon Dio si è sbagliato e i gay sono degli errori di natura (ma toccherebbe dubitare delle capacità del buon Vecchio con la barba che sta nell’alto dei cieli), oppure si è finora sbagliata la Chiesa. E difficile immaginare che tale resa dei conti possa avvenire sotto il pontificato di Benedetto XVI, l’ex «prefetto di ferro» del Sant’Uffizio wojtyliano.
Fino ad allora, ci capiterà inevitabilmente di assistere a vescovi come quello spagnolo di Alcalà de Henares, monsignor Jesus Català, che qualche tempo fa se ne uscì con la «dotta» battuta: «Diciamocelo: quelli lì sono degli invertiti!».
Oppure ci toccherà leggere sui giornali che qualche eminentissimo cardinale è finito sotto processo per avere abusato dei propri chierichetti, come successe in Austria all’ex arcivescovo di Vienna, Hermann Groèr. Quell’anziano porporato era stimatissimo da papa Wojtyla, anche per il suo acceso fervore mariano.
Chissà cosa ne avrà pensato la Madonna, lei che pure è stata madre e ha dovuto assistere alle violenze cui è stato sottoposto il figlio.