Un padre. Ricordando Gabriele, co-fondatore di AGeDO Foggia
Un ricordo di Lidia Borghi, volontaria del Progetto Gionata, di Gabriele Scalfarotto, co-fondatore di AGeDO Foggia
L’otto ottobre 2013 il cuore di Gabriele Scalfarotto, co-fondatore di AGeDO Foggia, ha smesso di battere. Le poche notizie reperibili sul web lo danno morto per mano sua. Nulla di tutto ciò importa davvero, alla fine dei conti.
Mancherà a molte persone quel suo modo di essere, quella sua lucida determinazione messa in ogni cosa che faceva, quel suo modo di affrontare la vita che avresti detto appartenere ad un uomo d’altri tempi, tutto d’un pezzo, con un altissimo senso dell’onore e, quel che più conta, del dovere civico di agire per eliminare la mancanza di pari diritti umani e pari dignità civile per le lesbiche ed i gay in Italia.
Ecco perché nacque AGeDO Foggia, come ci ricorda il figlio Ivan dalle pagine del suo sito personale: “L’Agedo di Foggia è una delle più belle esperienze in cui io mi sia imbattuto in questi anni di lavoro politico in tutte le regioni d’Italia e lo dico incurante del conflitto di interessi affettivo, dato che si tratta di una creatura nata dall’intuizione, dall’entusiasmo e dal lavoro di Gabriele Scalfarotto, che poi sarebbe mio padre. Nel breve volgere un paio di anni, in una media città del nostro mezzogiorno, l’Agedo è riuscita a raccogliere più di cinquanta soci e fa localmente un indefesso, validissimo e preziosissimo lavoro di informazione e formazione, creando consapevolezza sui temi del rispetto e dell’inclusione delle persone GLBT.”
Quel che resta – ed è immenso – del lavoro svolto dalle volontarie e dai volontari di quell’associazione, verrà portato avanti con rinnovato impegno e fermezza da un gruppo di madri e di padri che, nel nome di Gabriele, lotteranno con le unghie e con i denti, ne sono sicura, per garantire a figlie lesbiche e figli gay un futuro migliore. Nel nome del rispetto alla persona, della compassione e di quella Carta costituzionale in cui Gabriele dimostrava di credere ogni volta che muoveva un passo nella direzione della giustizia sociale.
La pubblicista ma, ancor prima, la figlia putativa che è in me, lo vuole ricordare con la testimonianza che questo padre amorevole le ha rilasciato alcuni mesi fa, uno spaccato di vita famigliare scritto con grande onestà e con l’umiltà di chi sente di essere ateo ma non perde occasione per dialogare con chi è credente. Per capire. Per continuare ad amare. Per lasciarsi andare all’amore derivante dall’incontro con chi è altra, altro da noi. Per andare oltre.
Due righe di Gabriele Scalfarotto
Sono nato cattolico. Tale sono stato, praticante, per tutta la mia adolescenza e per la mia prima gioventù. Boy scout, quando lo scoutismo era un’avventura, dall’età di 9 anni (lupetto), fino ai 26 (rover scout e capo clan). Eravamo quattro gatti, malvisti dappertutto. Per istrada la gente ci prendeva in giro per la divisa (un gruppo di ragazzi vestiti da cretini, guidati da un cretino vestito da ragazzo).
Nelle parrocchie ci accettavano solo lì dove il parroco era giovane e un po’ ribelle. L’ordine dall’Alto, dalle Gerarchie Vaticane, era di incoraggiare l’Azione Cattolica, dai cui quadri venivano fuori gli attivisti della Democrazia Cristiana. Noi scout “cattolici” eravamo un tantino più di sinistra.
Correvano gli anni ’50. I camping attrezzati, come ci sono adesso, non li avevano ancora inventati. I campeggi (allora si chiamavano così, in italiano) si facevano in riva ai corsi d’acqua, per disporne in abbondanza. Era buona da bere l’acqua dei ruscelli allora. Dove c’era l’acqua si montavano le tende e si accendeva il fuoco. Su quel fuoco si cucinava e, la sera, vi si faceva il bivacco.
Cena alla brace, canzoni di montagna e piccoli sketch, in cui noi stessi eravamo attori e, di volta in volta, pubblico. Di notte, a turno, si montava la guardia. In due. Un’ora per turno. Avevamo 12/15 anni. Era estate piena, ma di notte faceva freddo. I campi li andavamo a fare in montagna, e lì di notte faceva freddo anche d’estate.
Il buio della notte, il silenzio dei monti, il verso solitario di un animale notturno, la luce delle stelle, della luna quando c’era, la famiglia lontana, il freddo, il fuoco. La preghiera veniva su da sola. Dio lo sentivi vicino, gli parlavi, lo vedevi, lo toccavi. Per recitare il Rosario non usavamo la coroncina classica. Il Rosario scout era un largo anello, con dieci dentini e una piccola croce. Serviva bene a scandire le poste di preghiera. La mattina l’Assistente Ecclesiastico, prete giovane e sportivo, celebrava la messa su di un altare che noi stessi avevamo costruito con i rami degli alberi, che abbondanti si trovavano sul posto. Parlava la nostra lingua, aveva i nostri stessi sentimenti, ci capiva, lo capivamo. Facevamo tutti la Comunione.
Tutti i giorni. Dopo avere confessato contriti che, dopo aver fatto la pipì, la mano si era qualche volta un po’ attardata “là” o che la notte avevamo avuto una erezione spontanea. Tre pater ave gloria, atto di dolore, avanti un altro.
La spiritualità era anche lì, ma non solo lì. La spiritualità era nella intera giornata. Le lunghe marce a piedi, lo zaino pesante. Mai badare ai chilometri che ti aspettano: guarda al primo chilometro, e poi ancora al primo, e al primo ancora. E così in una giornata si facevano anche 20/25 chilometri. La media era di 4/5 chilometri l’ora. Un quarto d’ora, un chilometro. “Il ritmo dei passi ci accompagnerà” “Sul volto di chi soffre facci trovar Gesù”. Era tutto una preghiera.
Poi, più grandetti, 19/22 anni. Due volte l’anno a Lourdes. Viaggio nei vagoni “attrezzati”: i malati nei lettini a castello e noi ad assisterli. Poi alle piscine dei gravi. Sbendi ogni singolo malato, ne scopri le piaghe, lo prendi in braccio, lo immergi nell’acqua, lo tiri fuori, lo medichi di nuovo. Come è strana quell’acqua, ricomponi il malato, ed è come non fosse bagnato. I turni di notte in corsia: Gabriele, mi metti il pappagallo? I campi continui a farli, ma sei da solo, massimo in due. Ti dai appuntamento con qualcun altro su quella tal montagna, vicino a quel tal ruscello, dove c’è il salto dell’acqua.
La tenda è un peso inutile. Si dorme all’addiaccio, nel sacco a pelo, lo zaino per cuscino, il cielo per soffitto. In cielo le stelle. Quante stelle! Che bella luce che fanno. Potresti leggerci il giornale. La preghiera viene su da sola. Dio lo senti vicino, gli parli, lo vedi, lo tocchi.
La fidanzatina, un’altra, un’altra ancora. La confessione è un tantino più imbarazzante. La laurea. Dopo un anno, il matrimonio. Allora si poteva. La sposina non ancora laureata resta a casa della mamma a studiare, e tu ti trasferisci per lavoro. Il sabato torni a casa, la domenica sera riparti. Ventiquattrore scarse. Far un figlio sarebbe stato da incoscienti. C’è ancora da inventarsi la famiglia. Alla comunione mattutina ci sei abituato. Una mattina, prima di andare in ufficio, passi in chiesa. Vai a confessarti. Hai rapporti protetti con tua moglie? Prometti di non farlo più. No? Niente assoluzione, niente comunione.
Ma che chiesa è mai questa?! Caccia via un uomo di 27 anni, che fa sesso una volta la settimana con la giovane sposa lontana. Se non puoi reggere il peso di un figlio, non fare sesso. Proponiti questo o niente assoluzione. Esci bastonato dalla chiesa, cammini per la città, pensi, rifletti, rivedi la tua intera vita passata.
Se di un edificio tiri giù una pietra importante, rischi di minarne la intera struttura. Viene giù tutto. E pian piano tutto viene giù.
Le stelle, la luna, il fuoco di bivacco, i chilometri a piedi, le piscine dei gravi a Lourdes. Pian piano vedi le cose in altra ottica. Dio c’è. Forse. Se c’è, ed è il Dio giusto che ti hanno insegnato, allora capirà chi sei, saprà comprendere come sei fatto, non vorrà punirti se la domenica arrivi alla messa dopo la lettura del Vangelo, o se di venerdì mangi la carne. O se, con la moglie lontana, qualche volta per metterti tranquillo ti masturbi.
Passano i mesi. In chiesa non entri più. Le riflessioni amare montano. Se Dio queste cose non le capisce, è un dio cattivo. O forse Dio non c’è. E quella bella statua della Madonna che tanto ti ispirava, la guardi bene. È un tronco di albero, lavorato di scalpello da qualcuno pagato per fare questo. Hai pregato per anni inginocchiato innanzi a un pezzo di legno!
Nel dubbio ti comporti sempre bene, ma non per assicurarti un posto in paradiso. Perché comportarsi bene è giusto. Ed è anche bello.
Il rispetto e la gentilezza si pagano in anticipo, e quasi sempre producono rispetto e gentilezza. Il mondo ti è amico, ti sorride. Senza dogmi che, in quanto tali, non puoi e non devi capire, senza timore di punizioni e senza attesa di premi.
L’anatema che colpisce te per una masturbazione o per un coitus interruptus, non è scagliato contro l’imprenditore che non paga il giusto ai dipendenti, che evade il fisco; contro il guidatore imprudente che mette a repentaglio l’altrui e la propria incolumità; contro il vivisezionista futile, che induce sofferenze gravi ad animali, che sono pur sempre creature di Dio. L’omofobia non era nota come tale, ma certo non era argomento da confessionale la pubblica derisione di un gay.
Tale la Gerarchia Vaticana, tale il dio di cui quella vanta l’esclusiva rappresentatività.
Così si forma un ateo convinto. Convinto ma rispettoso dell’altrui credo, timoroso di fare del dis-apostolato. Chi ci crede, è bene che resti della sua idea. Se saprà a sua volta essere rispettoso, non farà danni. Se vorrà imporre con la forza la propria dottrina, se vorrà identificare il “peccato”, con il “reato”, allora danni ne farà, e tanti. Ma non li puoi combattere. Devi subirli e attendere che rinsavisca.
Tutto questo fino a miei 27 anni di età. Tre anni ancora e la sposa si laurea e mi raggiunge. È la Moglie. Mettiamo su casa. Sono un ateo tranquillo. Il rapporto sessuale non è più protetto, anzi! Lo vogliamo il figlio. Quel che accade dopo, lo riprendo da quanto ho scritto per Paola e Giovanni Dall’Orto, nel loro libro “Mamma, papà: devo dirvi una cosa” (Edizioni Sonda, pagina 163. n.d.a.): Ero giovane. Trent’anni, non ancora. La moglie incinta. Il sesso del bebè ci interessava, solo per curiosità: maschio? femmina? L’ecografia non c’era. Il sesso lo si sapeva alla nascita. Maschio! Fine argomento sesso.
Non era focomelico, quello il timore. Bello. Come bello può essere un mostriciattolo appena venuto fuori dal guscio di mamma.
Sorride, non dorme di notte, riconosce papà e mamma, il primo dentino, comincia a camminare. Del sesso ti ricordi quando si bagna e devi cambiarlo. Quanta pipì che fa!
I reumatismi, il soffio al cuore, le tonsille, il ricovero in ospedale. La notte non si può star lì: il bambino è assistito. Individuata la finestra, tutta la notte papà e mamma seduti per terra a guardar su. Fintantoché le luci non si accendono tutto procede bene. Non si accendono. Il soffio al cuore è congenito. Meno male. A casa, tutti a casa, amore mio.
Il nido, l’asilo, la scuola primaria. Gli occhiali. Gli alberi! Si vedono le foglie! Non le vedevi?! No, vedevo una macchia verde: era normale. La scuola media. Il colloquio con gli insegnanti. Studia poco, ma rende bene. Cerca di studiare di più, figliolo. Ma papà! Il comportamento in tavola. Sta’ seduto, tieni le mani a posto, reggi bene le posate, non fare rumore quando mastichi. Ma papà! L’estate all’estero, a studiare le lingue, in full immersion. La mamma: è piccolo. No, ora è il momento migliore per assorbire altre lingue. Lite furibonda. Quattordici anni, il vespino. La mamma: è pericoloso. Se va dietro gli altri è pericoloso di più. Lite furibonda. Il liceo. Salta la terza. La notte studia per il salto, il giorno per l’anno in corso. Coraggio, amore mio. Dai, dai, dai! Hurrah, ce l’hai fatta. Evviva.
Il sesso? Non c’è. Non esiste. Non è che non esista il sesso: non esiste il problema del sesso. Non per me. Non del SUO sesso.
L’università. Il decollo. Il distacco totale e definitivo. La banca, in giro per l’Italia. L’approdo a Milano. Il lavoro, come va? Bene, benissimo. Papà, ho amici simpaticissimi, uno è cantante lirico. Ci divertiamo. Ok, va bene. Papà, che comodo vivere a Milano: hai tutta Europa a portata di mano. Il fine settimana, d’ora innanzi, vado ad Amsterdam. Ho amici anche lì, ed è mezz’ora di aereo. Beato te. Bravo. Divertiti.
Amenità. Conoscenza superficiale, epidermica. Bene, bravo, divertiti (finché puoi!). Tempo. Un anno? Due?
È il 1° gennaio. Càpito a Milano. Gli telefono a casa. Sono qui, volevo solo accertarmi che tu fossi in casa. Arrivo. No, papà, non puoi. Sono in disordine, devo ancora farmi la doccia. Ci vediamo fra tre ore in Cadorna. Ciao.
Si è rincretinito?! Deve ancora fare la doccia, e non mi può incontrare. Non può incontrare ME, suo padre, che di lui sa tutto.
Le tre ore passano. In tre ore, da furibondo divento idrofobo.
Arriva. Ciao, papi. Ciao. Bacio formale. Subito dopo, diretto: Papà, se non sai certe cose, a casa mia non ci puoi venire, né ora, né mai più. Ecchecaspita! Chi c’è? Una signora felicemente sposata che ti vede clandestinamente? No, papà, c’è un uomo.
Un uomo
È il 1° gennaio. Sono le 19. Fa un freddo cane. Di colpo sono tutto sudato. Credo di capire. Capisco. Sudo. Fa freddo e sudo. Il sesso non esiste? Esiste, eccome! Il sesso non è un problema? Sì che è un problema, e che problema! In piedi, vis-à-vis. Ci guardiamo negli occhi. È buio. Fa freddo. Un freddo cane. Sudo. Silenzio. La testa si affolla. Pensieri brevi si accavallano rapidi.
Silenzio. Quando hai cominciato a capire, quando hai capito la tua vera natura? quanti anni avevi? come hai fatto? Cosa ti è successo, che ha scatenato gli eventi? COSA hai fatto? perché non mi hai detto niente? Io dov’è che ero? Dove sono stato tutti questi anni? Mi sono mai occupato di questo figlio, di cui ero certo di conoscere TUTTO, e invece non so NIENTE? Hai sofferto? Quanto hai sofferto? Hai chiesto aiuto? L’hai trovato? Chi ti ha aiutato? Fa un freddo cane.
Io dov’è che ero? Sudo. Sto zitto. Ti guardo negli occhi. Non ero io che ti portavo per mano, che sentivo la tua mano piccola e forte nella mia, quando camminavamo insieme e insieme facevamo nuove esperienze? Perché non hai cercato quella mia mano, quando hai capito che la tua strada si faceva difficile? Dove ho sbagliato? Ti ho allevato male? Il diritto alla libertà che ti ho sempre riconosciuto, era rispetto grande. Non era superficialità, disinteresse per te. Che immagine ti ho trasmesso di me? Quale è adesso il tuo mondo? Quali rischi corri?
Perché adesso, solo adesso, mi dici chi sei, e me lo dici così? Vuoi rompere con me?! Scherzi?! No, io questo non lo voglio. Non lo permetterò. Ti voglio bene. Sei la mia vita. Non me ne importa se sei gay. Macchisenefrega! Io voglio solo che tu stia bene. Solo questo voglio. Devi saperlo. Devo fartelo capire. Come faccio? Silenzio.
Fa freddo, un freddo cane. Sudo ancora di più.
Non ho più tempo per pensare. Dieci secondi, quindici. Non un attimo di più. Un’eternità. Non hai niente da chiarirmi. Non devi credermi perplesso. Se ho sbagliato fin adesso, non può, non deve capitare più.
Cerco di sorridere. Non è una smorfia. È un sorriso. Farfuglio qualcosa. Qualcosa che non ti spiace. Nei tuoi occhi lo stesso sorriso. Sei contento. Sollevato. Son contento anch’io. Ci abbracciamo. Forte.
Questo il coming out di Ivan, “il” mio figlio. Adorato (che non lo sappia!).
Poi un giorno vedo per televisione la intervista alla mamma di un gay. Mi piace. Ivan, come mai la mamma di un gay è stata intervistata? Come l’hanno rintracciata? Per tutta risposta mi raggiunge una email di Paola dall’Orto, fondatrice e presidente di AGEDO (Associazione di Genitori e amici di Omosessuali). L’AGEDO è stata fondata, vieni con noi? Vengo!
Correva l’anno 1996 (circa).
Su Il Venerdì di Repubblica leggo un giorno qualcosa del genere: Sono un gay. Ho combattuto la battaglia per il divorzio, e insieme agli altri la ho vinta. Ma sono gay: non mi sposerò, e quindi non divorzierò mai. Ho combattuto la battaglia per l’aborto legalizzato, e insieme agli altri la ho vinta. Ma sono gay: non mi sposerò, e quindi non avrò mai una moglie che voglia abortire di un figlio comunque inopportuno. Da gay, per una ragione di civiltà, ho combattuto le battaglie degli etero, e con loro le ho vinte. Di grazia, voi etero, perché non combattete anche voi le battaglie degli omo, e non ci aiutate a vincerle?
Ha ragione! Ivan, ma al Gay Pride nazionale posso partecipare anche io? Certo papà, ne sarei felice!
Correva l’anno 2000.
Il pride era a Roma e, da allora, non ne ho più mancato uno.
Da allora tra AGEDO Milano e Pride sul territorio nazionale ho iniziato la mia vita intensa di padre AGEDO.
Un’estate vengono a trovarmi alla mia casa al mare la presidente di AGEDO Palermo e la presidente di AGEDO Lecce. E tu, AGEDO Foggia quando la costituisci? Come faccio? Sono solo. Trova altre quattro persone, in 5 bastate a metter su una AGEDO locale. Ma sono solo!
Correva l’anno 2010.
Ho bisogno di aiuto. Ateo, ma rispettoso, ho due amici preti. Preti scomodi. Chiedo loro aiuto, spiego loro il perché. Si entusiasmano. Mi organizzano incontri, mi fanno andare sull’altare a parlare mentre uno dei due celebra. Era tanto che non seguivo una messa.
Metto su non 5, ma 10 persone interessate: 5 genitori di omosessuali, 5 amici di omosessuali. Cinque togati e Cinque laici, per rifarsi al Consiglio Superiore della Magistratura (absit injuria verbis).
E in 10 abbiamo costituito AGEDO Foggia.
Era il 5 ottobre 2010.
Ad oggi, abbiamo superato i 50 iscritti. Lavoriamo bene, siamo contenti.
Siamo l’unica associazione di eterosessuali che combatte con la stessa grinta, con la stessa rabbia, le battaglie degli omosessuali, e con loro siamo decisi a vincerle.
Gabriele Scalfarotto