Gay a Haiti. L’omofobia abita qui!
Articolo di Amelie Baron pubblicato sul mensile Tétu (Francia), n.196 del febbraio 2014, pp. 42-47, liberamente tradotto da Marco Galvagno
L’omofobia abita nei quartieri di Haiti senza che le autorità reagiscano. Di fronte alla crescita del fanatismo religioso, che è assai aumentato dopo la fine del terremoto che ha distrutto l’isola 4 anni fa, i gay di questo paese delle Antille si sentono abbandonati a se stessi.
Sdraiato su uno dei letti della sua cameretta Charlot Jeudy ha l’orecchio incollato alla radio, è la sua apertura sul mondo fuori Haiti, la casa che divide con la madre, la sorella e una nipotina non è certo lussuosa, le tre stanzette sono piccole, ma la famiglia tira avanti come può in questa promiscuità.
E dentro a questo piccolo universo in un quartiere povero di Port au Prince, la capitale di Haiti, Charlot può essere se stesso senza paura, ovvero un “masisi”.
Sulla bocca di molti haitiani questa parola: “masisi” è un insulto, risuona durante il giorno per le strade e nei media. La lingua creola non parla di omosessuali e lesbiche, ma di “masisi” e “madivine”.
Parole che anche i gay stessi usano per definire se stessi perché rifiutano di abbandonarle agli omofobi e rivendicano ad Haiti l’esistenza della comunità M (masisi) e della comunità GLBT.
Sei il diavolo
Nel dicembre 2011 è uscito così il manifesto dei Masisi, un testo che è un urlo scagliato di fronte all’omofobia latente nella società haitiana. “Noi, vostri concittadini, vostri amici, vostri figli, vostre figlie, vostri dirigenti, vostri camerieri, vostri giornalisti, vostri medici, vostri avvocati, vostri artisti (…) dichiariamo di essere nati masisi e di voler restare masisi”.
Con questa dichiarazione hanno fondato l’associazione Kourai, di cui Charlot, di 29 anni, è il presidente. E’ uno dei pochi haitiani a essersi dichiarato pubblicamente gay. Una scelta non facile e non scontata la sua.
Quando a 18 anni ha rivelato a sua madre, una donna anziana alla quale è molto legato, che gli piacevano gli uomini, lei gli ha semplicemente risposto: “L’importante è che tu vada a scuola e che ti impegni negli studi”.
Non tutti hanno la fortuna di avere dei genitori così aperti come Charlot. Molti devono tacere ai lori cari la propria vita privata.
“Fino ad ora i miei genitori ignorano il fatto che sia bisessuale”, ci confida Soraya, 24 anni. Attualmente sto con una ragazza, ci diamo appuntamento in un bar o a casa sua, dato che abita da sola, lontano dai suoi.
Mento, non è normale, ma sono costretta. Figurati ad Haiti da quando sai di essere lesbica ti dicono che sei impura, che sei uno scarto della società, che sei il diavolo.
Siamo perversi, immorali, nemmeno umani agli occhi di quelli che hanno sempre in bocca i precetti della Bibbia.
Responsabili del terremoto
Il peso della religione ad Haiti condanna gli omosessuali al silenzio o al rifiuto della loro famiglia. Stephenson Meus, membro del comitato esecutivo di Kourai, ha deciso di fare coming out in un video che presentava l’associazione.
Dopo aver visto il filmato su internet sua madre che vive negli Stati Uniti l’ha subito chiamato: “era molto delusa e mi ha detto questa frase terribile che resta scolpita nella mia mente: Ho vergogna di te”.
Le risposi allora che non era più mia madre. Attraverso il dialogo hanno un po ricucito i rapporti, ma Stephenson spiega che sua madre ancora non lo accetta, dato che è molto religiosa.
Di fronte alla pressione sociale fare una doppia vita è normale per i gay haitiani, un dilemma identitario più profondo per i ragazzi giovani che sono per la gran parte molto religiosi e che devono sorbisi quotidianamente prediche profondamente omofobe. “In chiesa ci dicono che i gay sono il diavolo e che siamo persino responsabili del terremoto” testimonia Prince, uno studente di legge di 27 anni, fiero di essere gay, ma che continua e essere (credente) praticante.
Con la crescita delle chiese protestanti americane nel paese, accentuata dopo il terremoto del gennaio 2010, la devozione religiosa ha portato al fanatismo religioso.
Con una facilità impressionante alcuni pastori protestanti hanno organizzato a Port au Prince manifestazioni omofobe.
Il 19 luglio scorso migliaia di persone di tutte le età hanno sfilato per le strade con la Bibbia in mano, nonne vestite con l’abito della festa hanno urlato i peggiori insulti contro i gay.
Sotto lo sguardo complice dei poliziotti che inquadravano il corteo sono stati lanciati perfino inviti all’omicidio dei gay: é una cosa immorale ha urlato Wibert di 25 anni: “Se trovo un gay, lo picchio e lo ammazzo. Non è lecito uccidere nessuno, ma siccome un gay è come se si uccidesse da solo, allora posso ammazzarlo”.
Per gli omosessuali, testimoni di questo odio, il 19 luglio simboleggia ormai questa deriva inquietante: “il giorno della manifestazione rimane il più brutto della mia vita” racconta Clercito, 27 anni.
Nella città bassa ho assistito a scene di violenza contro i gay. Avevo paura per loro e per me stesso e non mi sono avvicinato. Vorrei che il 19 luglio diventasse il giorno del gay pride ad Haiti.
Avendo un carattere forte Soraya non ha avuto paura e s’è unita alla manifestazione per vedere: “Sentivo le persone urlare slogan odiosi ed io stavo zitta. Tuttavia lungi dallo scoraggiarsi la ragazza non ha schivato il dibattito, un manifestante mi ha chiesto cosa pensassi dei gay. Ho detto che sono scelte individuali e che in uno stato democratico nessuno dovrebbe essere picchiato”.
Sfortunatamente nella settimana dopo la manifestazione la commissione americana per i diritti dell’uomo ha contato 47 aggressioni omofobe contro i gay con coltelli, machete, pietre e bastoni.
Fondamentalismo religioso
Questo aumento di violenze ha tuttavia spinto Prince a dichiarare la propria bisessualità. A 27 anni è uno dei leader suo quartiere, è molto amato per tutti gli sforzi che ha effettuato per i sinistrati della sua comunità nei mesi dopo il sisma del 2010.
Prima ero nel non detto, ho spiegato ai miei genitori che avevo diritto di avere l’orientamento sessuale che volevo. La sua famiglia ha potuto solo prendere atto della situazione, il fratello con il quale vive, finge di accettare, ma è omofobo ed evita di parlarne.
Se il silenzio perdura tra le famiglie, ma è l’assenza di reazione da parte dello Stato di fronte al fondamentalismo religioso che preoccupa maggiormente i membri dell’associazione Kourai.
“Persone sono state bastonate, perseguitate, nelle loro case, nei loro negozi e non è stato fatto niente”, si indigna Charlot. “Non capiamo come una parte della popolazione urli e predichi l’odio verso le persone GLBT sotto lo sguardo delle autorità -. E vi sono anche poliziotti che hanno partecipato alle violenze, è una cosa inaudita”.
Stessa constatazione d’impotenza per Didier. Lo stato è ipocrita: “danno più importanza a un ladro che a un gay, non ho fatto nulla di male, essere gay non è qualcosa che si compra, è ciò che sono”.
Ipocrisia dei gay borghesi
Ma questo silenzio compiacente delle autorità verso l’omofobia compreso il silenzio del presidente Michel Martelly che da cantante apprezzava gli show dei travestiti e gli atteggiamenti non conformisti, nasconde la divisione radicale di Haiti tra un élite ristretta che vive nel lusso più sfrenato e una maggioranza che sopravvive con poche decine di dollari al mese.
Non c’è una comunità gay unita ad Haiti. E’ più facile vivere la propria omosessualità quando si abita in una villa sulle colline di Port au Prince che in un quartiere popolare, sovraffollato.
“I gay borghesi mi fanno arrabbiare” accusa Prince, “vivono tranquilli a casa propria e possono andare a vivere la loro omosessualità in Francia, Spagna o negli Stati Uniti, loro hanno questa possibilità, ma la maggior parte della popolazione di Haiti no”.
Di fronte all’intolleranza e alla violenza molti giovani sognano di andare via. Se trovo un modo di andarmene all’estero, se un paese mi offre la possibilità parto, annuncia Richard, privo di dubbi.
Haiti non è uno stato responsabile. Mi rende triste, dato che uno stato che non scoraggia la violenza, è uno stato nel quale nessuno dovrebbe vivere. Una constatazione tragica condivisa da Stephenson: “ogni sera prima di andare a letto ho la speranza, ma ogni mattina mi alzo triste, dato che il 19 luglio ho scoperto che nel mio paese non si vuole che io sia libero.
E’ un dolore che mi fa piangere. Ho paura e mi sento perso: la mia società mi chiede di cambiare quando io sarò sempre me stesso. Rispetto i miei doveri di uomo e di cittadino, ma questa gente non mi accetta”.
Il 21 novembre alcuni uomini armati hanno attaccato la sede di Kourai, in pieno pomeriggio e impunemente. Le persone presenti sono state picchiate e legate.
L’ufficio è stato saccheggiato, i computer rubati, le stampanti e i mobili distrutti. Ma la cosa più grave è che i vandali hanno portato via con se lo schedario con i nomi dei membri dell’associazione. E’ vero che Charlot è preoccupato, non esce più a certi orari, ma questi avvenimenti lo incoraggiano a battere sempre più forte i pugni sul tavolo.
Dopo la manifestazione del 19 luglio ho visto che il problema era più grave di quanto pensassi. I francesi perseguitati sono forse andati in Belgio? I gay haitiani devono capire che è il loro paese. Voglio restare in questo paese, voglio morire qui nel mio paese, non ho intenzione di andarmene.
Testo originale: Haïti: terreur et tremblement