Gay e cristiano. Il mio cammino di liberazione nella chiesa Presbiteriana
Intervista a Michael Adee tratta newsletter ecumenici del marzo 2008, tradotta da Roberto Pavan
Michael Adee è il coordinatore nazionale americano di More Light Presbyterians (MLP), una rete di persone che chiedono la piena partecipazione di lesbiche, gay, bisessuali e transgender credenti nella vita della chiesa presbiteriana americana. In questa intervista racconta il suo cammino di sensibilizzazione su queste tematiche della sua comunità e della sua chiesa. Un’esperienza la sua che, in Italia, i credenti omosessuali sapranno realizzare nelle loro chiese? Vedremo. Anche se spesso “i ghetti li costruiscono per primi coloro che li vivono”.
Da che tipo di ambiente provieni?
Provengo dalla Louisiana e da una tipologia di famiglia molto regolare: un padre ingegnere, una madre casalinga e un fratello.
E come ricordi la tua vita lì, in Louisiana?
Sicuramente mentre crescevo e realizzavo che non ero come gli altri, tipo che non riuscivo ad essere il modello di ragazzo che dovevo essere e il modello di maschio che dovevo essere, per me fu molto difficile.
Allo stesso tempo non avevo nessun termine di paragone, nessun esempio che mi potesse aiutare. Non sapevo neanche cosa fosse l’omosessualità. Tuttavia, analizzando col senno di poi il mio passato e guardando attentamente indietro, anche se a quel tempo soffrivo molto, l’ambiente ora è promettente, anche la mia chiesa lo è.
Cosa vuoi dire con “promettente”?
Sono cresciuto spiritualmente all’interno di una chiesa presbiteriana, e mentre la frequentavo furono gli anni delle prime ordinazioni delle donne pastore. Era una comunità che proponeva quel tipo di fede che ti permette di mantenere il cervello attivo, molto progressista intendo. Riusciva a consentirti di porre domande. Si chiama fede riformata.
E questo come ti ha influenzato?
Quando ero piccolo mi sentivo amato dalla famiglia e dalla comunità, soprattutto accettato. Ma quando cominciai il liceo e fino ai primi anni del college, e cominciai anche a sentirmi diverso perché ero gay, allora le cose cambiarono. Sentii che non potevo essere gay e contemporaneamente cristiano, non riuscivo a sentirmi buono e gay, né morale e gay, né gay e figlio di Dio. Per me il processo di coming out fu piuttosto lungo.
Avevo ormai oltre vent’anni. Per prima cosa sono partito dal realizzare il problema con me stesso, cercando di sentirmi bene nella mia stessa pelle. Poi mi sono rivolto all’esterno, a quelli che mi circondavano, e ho cominciato a selezionare le amicizie e le persone con cui stavo. Ma la cosa forse più pubblica è cominciata quando insegnavo al college nel Kentucky.
Organizzai un gruppo di sostegno per gli studenti gay in difficoltà, soprattutto per sensibilizzare il college stesso al problema. Anche se la mia responsabile mi aveva già avvertito che il luogo era troppo conservatore per dare spazio a discussioni del genere. Era il 1991 e fui subito licenziato a causa del mio attivismo. Fu in quell’occasione che mi dichiarai con mio padre per esempio.
Non era un modo un po’ rude per farlo? Intendo, dire che eri stato licenziato e che eri gay nello stesso momento?
E’ vero. E’ stato difficile per lui. Io volevo solo che mi dicesse che mi voleva bene, che ero suo figlio e che tutto si sarebbe sistemato. E ci riuscì bene mio padre dopotutto.
Anche se mi rimproverò che potevo evitare di organizzare quel gruppo di sostegno. Ma io gli risposi che era stato proprio lui ad insegnarmi ad essere onesto con gli altri e ad essere sempre sincero. All’inizio tra me e lui ci fu un po’ di conflitto ma poi capì ogni cosa. Realizzò anche lui che ero stato licenziato non perché ero gay o un attivista, ma perché viviamo in una cultura ed in una società anti-gay.
Cosa ti ha aiutato in quel periodo?
Il gruppo di cui ho fatto parte. Il PFLAG, una sorta di laboratorio dove riuscivo ad ascoltare i genitori di figli omosessuali con i loro problemi. La cosa che spesso si domandavano questi genitori era se mai essi avessero sbagliato in qualche modo nell’educazione dei loro figli. Usai questo spunto per confortare mio padre, in modo tale che mai si sentisse in colpa per la mia omosessualità.
Dissi che lui ne era responsabile quanto lo era per i miei capelli biondi e per gli occhi azzurri, anche se ero stato adottato. Anche quando non riusciva a capirmi, non ha mai smesso di farmi capire che mi amava. Fu così che realizzai che, mentre io facevo coming out con me stesso, anche lui seguiva un suo personale processo, non meno lottato, per accettare la mia omosessualità.
Da parte mia continuavo ad inviargli materiale sull’argomento, devo dire che sono stato anch’io molto paziente a seguirlo nel suo processo di accettazione. E proprio il PFLAG mi ha aiutato a comprendere mio padre. Ma anche la chiesa mi aiutò molto, tutto il direttivo e i pastori mi sono sempre stati vicini.
E come sei riuscito a trovare questa chiesa?
Fu proprio mentre ero in carica come leader del gruppo LGBT che la responsabile del gruppo cattolico mi disse che esisteva una chiesa presbiteriana al di là del fiume a Cincinnati, che mi avrebbe sicuramente accolto bene.
La cosa mi sembrava ironica poiché solitamente invitiamo le persone alle nostre riunioni, alle nostre chiese o alla nostra comunità. Capii che lei fece un gesto di profondo affetto nei miei confronti, perché sapeva che non sarei stato accolto bene nella sua chiesa. Alla fine quindi andai nel posto consigliato.
Allora fu una chiesa ospitale. Le persone della comunità ti hanno pian piano accettato. Ma non ce n’erano altri nel tuo stesso stato?
Si certo, ma nessuno fino ad allora uscì allo scoperto come me. Mi ricordo che feci coming out pubblicamente durante una riunione, a colazione. Invitai il presidente di PFLAG attorno al tavolo e discutemmo di come le famiglie debbano amare i loro figli gay. Fu così che mi dichiarai.
Passammo quindi dalla teoria alla pratica con un esempio vivente tale quale io ero. E gli altri membri della chiesa mi guardavano per la prima volta come io ero veramente, cioè una persona di fede, una persona sincera. Tanto che mi nominarono per diventare Anziano. Loro sapevano benissimo che, agendo così, stavano sfidando il pregiudizio che insiste nella chiesa.
Ma la cosa più bella era che la mia nuova carica mi permise di costruire un ponte diretto con mio padre, dato che lui era un Anziano da 40 anni. Ci consentì di avere in comune un luogo tutto nostro di conversazione, e lui ne fu molto orgoglioso.
E come reagì la Chiesa Presbiteriana americana ad un Anziano apertamente gay?
Molti erano decisamente scontenti, circolavano voci sulla mia promiscuità ma era perché ero diventato ormai un personaggio pubblico. Ci fu anche un processo all’interno della chiesa nei miei confronti in cui si metteva in dubbio il mio ruolo di anziano.
Ma la mia chiesa fu irremovibile, anche perché ci sentivamo al sicuro essendo noi parte del network di More Light Presbyterians, un circuito molto popolare e numeroso negli U.S.A. Tuttavia ancora oggi la Chiesa Presbiteriana ha una legge apertamente anti-gay e io sono qui e lavoro per cambiarla.
Parliamo di questo. Ora sei l’organizzatore nazionale di More Light Presbyterians, quali sono i tuoi compiti da organizzatore?
Sono soprattutto un educatore. Incoraggio la mia partecipazione nei gruppi religiosi e sociali per portare testimonianza ed educare la gente alla questione omosessuale. Inoltre fornisco metodi di training individuale perché le persone riescano ad aiutarsi da sole.
Ovviamente li aiuto anche con la Bibbia, sul significato di essere gay e un cristiano progressista, sull’etica sessuale. E il mio impiego mi piace molto perché unisce il mio attivismo alla mia fede.
Perché per te è così importante mescolare la tua fede all’attivismo, piuttosto che occuparsi di solo una delle due cose?
L’omofobia e l’eterosessismo sono gli ultimi pregiudizi che la società ancora accetta. Essi inoltre sono giustificati proprio dalla religione. Proprio per questo vado nelle chiese – dove comunemente non sono gradito – per cercare di cambiare questo pregiudizio. L’unica cosa essenziale per me è la volontà di amare Dio, te stesso e il prossimo.
E la mia fede, che mi hanno insegnato, consiste nell’individuare questo prossimo e dare il benvenuto a questo straniero. Per fare un esempio, io stesso avrei voluto che mio padre non si sentisse a disagio a parlare di me ai suoi colleghi o amici membri della chiesa. Vorrei che queste questioni venissero apertamente discusse, soprattutto per non sentirsi mai soli.
Quando mi dichiarai per la prima volta nella mia comunità ebbi reazioni differenti. Ricevetti una lettera che mi supplicava di capire il terremoto che avevo causato all’interno della mia chiesa, ma ne ricevetti un’altra che mi aprì il cuore poiché diceva: “Non riesco ad immaginare quanto difficile sia stato per te crescere in questa città”. Questo è l’atteggiamento cristiano che voglio insegnare.
In generale posso dire che nella mia vita e nel mio processo di coming out sono stato molto fortunato, perché purtroppo sono ancora tantissimi quelli che non possono essere dichiarati.