Gay e cristiano. Il mio canto libero (o almeno ci provo)
Riflessioni pubblicate sul sito del gruppo Kairós, cristiani LGBT+ di Firenze
C’è una canzone che ho provato a suonare per settimane con la mia chitarra. Ogni volta mi sembrava di sbagliare qualcosa: una nota fuori posto, un cambio d’accordo troppo brusco, il ritmo che non veniva.
Non era nemmeno una canzone difficile, almeno non sulla carta. Ma c’era qualcosa che mi sfuggiva, come se la mia mano sapesse dove andare, ma il suono non volesse seguirla.
Forse è così anche con la mia fede.
Sono gay e sono cristiano. E ogni volta che cerco di mettere insieme queste due parti di me, mi sembra di suonare una canzone che nessuno ha mai scritto, una melodia che esiste dentro di me ma che il mondo intorno rifiuta di riconoscere.
Ci pensavo l’altro giorno mentre ero in fila in un affollato ufficio postale di periferia, aspettando di ritirare un pacco.
Intanto allo sportello vicino al mio una donna trans abbastanza alterata cercava di spiegare all’impiegato che sì, quella sulla sua carta d’identità era davvero lei prima di iniziare la transizione . Mentre una giovane suora, in coda con me, guardava incuriosita la scena.
Intorno a noi la gente presente guardava la scena, alcuni con espressioni divertite, altri con curiosità, altri ancora con un giudizio che non avevano neanche bisogno di esprimere a parole.
E io?
Io ero lì, come sempre, in bilico tra l’appartenere e il sentirmi fuori posto.
Mi è tornato in mente un incontro a cui ho partecipato in universitá, qualche mese fa. Ero andato a curiosare in gruppo di cristiani cristiani che si trovavano per confrontarsi su fede e attualità. Tutto l’incontro era stato abbastanza noioso finché un ragazzo ha detto che la Chiesa deve essere aperta, ma con “limiti chiari”. Ho alzato la mano e gli ho chiesto: “E chi decide quali sono questi limiti?”
Lui ha risposto con un sorriso imbarazzato, cercando di spiegarlo con la dottrina, con la tradizione. Ma a me non bastava.
Perché Gesù non ha mai detto “seguitemi, ma solo se rientrate nei parametri giusti”. Non ha mai fatto domande prima di accogliere, prima di guarire, prima di amare.
E allora perché la sua Chiesa sì?
Non so cosa stesse pensando la suora in fila con me in quell’ufficio postale. Non so se fosse d’accordo con gli sguardi giudicanti intorno a noi o se, dentro di sé, sentisse lo stesso stridore che sento io ogni volta che vedo il Vangelo usato per escludere invece che per accogliere.
Quello che so è che la Chiesa in cui voglio credere non è quella degli sguardi di giudizio.
È quella delle persone che, come me, cercano di suonare una canzone nuova, anche se ancora non riescono a farlo senza sbagliare qualche nota.
Forse, come con la chitarra, ci vorrà tempo. Forse dovremo riprovare mille volte, con le dita che fanno male e il cuore che ogni tanto si arrende.
Ma non ho intenzione di smettere di suonare.