Gender, riflettere oltre gli estremismi
Articolo di Giannino Piana pubblicato sul quindicinale Rocca n.8 del 15 aprile 2015
La recente prolusione del cardinale Bagnasco ai lavori delle sessione primaverile del Consiglio episcopale permanente della Dei, affronta, in un apposito paragrafo, la questione della teoria del «gender». Il Presidente della Conferenza episcopale italiana manifesta tutta la propria preoccupazione per la sua possibile introduzione all’interno della scuola – il tentativo di introdurla è stato lo scorso anno sventato dall’emergere di posizioni contrastanti nell’ambito della maggioranza di governo e da una forte presa di posizione dei vertici della chiesa italiana – denunciando drasticamente i rischi ad essa connessi e sollecitando un risveglio della coscienza individuale e collettiva perché reagisca a tale prospettiva.
La tesi del cardinale Bagnasco è infatti che la teoria del «gender» – sono sue parole – «pone la scure alla radice stessa dell’umano per edificare un ‘transumano’ in cui l’uomo appare come un nomade privo di meta e a corto di identità». In altre parole, si tratterebbe di una visione antropologica che mette radicalmente in discussione la naturalità dell’identità di genere, il suo stretto legame cioè con la differenza originaria dei sessi, e che finisce, di conseguenza, per ricondurre gli atti sessuali a una mera costruzione sociale. Per questo il Presidente della Dei non esita ad usare espressioni forti come «identità senza essenza» o a parlare di «persone fluide» – il rinvio è qui (forse) alla «società liquida» di Bauman – «che pretendono che ogni desiderio si trasformi in bisogno, e quindi diventi diritto».
Un cambio radicale di prospettiva
Si tratta – come è evidente – di giudizi pesanti, che meritano una seria considerazione. Non vi è dubbio infatti che la teoria del «gender» si presenta in molti casi sotto la forma di un’ideologia assoluta e totalizzante, che tende a soppiantare radicalmente la tradizionale interpretazione della differenza sessuale, negando di fatto ogni ruolo al sesso biologico. Ma è questa l’unica possibile lettura di tale teoria? Per rispondere è anzitutto necessario far luce sulle sue origini e sulle ragioni che ne hanno provocato l’insorgenza.
Nata agli inizi degli anni novanta del secolo scorso negli Stati Uniti, la teoria del «gender» si è posta, fin dall’inizio, come obiettivo quello di spiegare la pluralità di identità delle persone, non riducibile al semplice dato biologico, ma legata alla presenza anche di altri fattori. Posta in questi termini, la questione non è in realtà del tutto nuova. La tendenza a considerare l’identità soggettiva come frutto di un processo complesso, che coinvolge, oltre al dato biologico, le dinamiche psicologiche ed educative, le varie forme di socializzazione e il contesto culturale entro il quale ha luogo lo sviluppo della personalità, è, in qualche misura, sempre esistita. A caratterizzare, tuttavia, l’attuale corso è un vero e proprio salto qualitativo, che coincide con l’assegnazione del primato ai fattori ambientali – sociali e culturali – e che mette in discussione i modelli relazionali del passato, aprendo la strada a nuove forme di incontro e di reciproco riconoscimento.
Le cause di questa svolta vanno addebitate, da un lato, agli sviluppi dell’ideologia liberale, che ha sottolineato con forza la libertà dell’autocostruzione individuale della persona e, dall’altro, al pensiero femminile, che, nella fase più recente, è passato (almeno in alcune aree della propria elaborazione) dal teorizzare il valore delle differenze, proponendo come modello la reciprocità tra i sessi, alla loro negazione, perciò alla rinuncia a catalogare i generi in forza dell’apertura a un intreccio indefinito di possibilità espressive anche a livello sessuale.
Natura e cultura: un binomio da integrare
È naturale che questo modo di fare l’approccio susciti (e non possa non suscitare) forti perplessità nell’ambito del mondo cattolico (e non solo) e renda, in certa misura, plausibile la reazione del cardinale Bagnasco, che intravede in esso il pericolo (non puramente ipotetico) di incorrere in una totale confusione circa il costituirsi della coscienza di sé, con la conseguente ampia dilatazione delle modalità di attuazione dell’esperienza sessuale.
Questa lettura, per quanto prevalente non è tuttavia l’unica possibile. Se infatti si abbandona una prospettiva rigidamente ideologica, che – è corretto rilevarlo – soggiace tanto alle posizioni estreme della teoria del «gender» quanto ad alcune forme allarmistiche di reazione presenti in area cattolica, e si fa spazio a una visione più attenta alla globalità e alla complessità dell’umano, lo scontro risulta tutt’altro che inevitabile. Sesso e «gender», lungi dal dover essere concepite come realtà del tutto alternative, sono fattori che possono (e devono) reciprocamente integrarsi.
A ben guardare è qui in gioco la definizione di un giusto equilibrio tra natura e cultura. Non si tratta di optare per l’una rinunciando all’altra, ma di rimetterle correttamente in circolazione tra loro; si tratta cioè, nel caso specifico, di riconoscere l’importanza fondamentale che riveste la differenza uomo-donna, che ha anzitutto la propria radice nel sesso biologico e che costituisce l’archetipo irrinunciabile da cui ha origine l’umano, e di non esitare a riconoscere, nello stesso tempo, il ruolo delle strutture sociali e della cultura.
Il peso determinante della cultura
È senz’altro merito della teoria del «gender» l’aver dato maggiore rilevanza nella definizione dell’identità di genere ai vissuti personali, concorrendo così al superamento di alcuni pregiudizi, fonte di gravi discriminazioni, come quelle che hanno a lungo determinato (e in parte tuttora determinano) l’emarginazione di alcune categorie di persone, gli omosessuali e i transessuali in primis. D’altra parte, non si può negare che esista un indubbio aspetto di verità nella difesa che la gerarchia cattolica ha fatto (e fa) del dato biologico quale base imprescindibile dell’umano, segnalando pertanto il pericolo che la sua decostruzione finisca per comprometterne gravemente l’identità.
La composizione delle due esigenze va allora ricercata in una revisione del concetto di «natura umana» (e di «legge naturale umana»); revisione per la quale preziose indicazioni si trovano anche nella storia del pensiero cristiano.
Si pensi soltanto alla posizione assunta a tale riguardo da parte della teologia scolastica, la quale, reagendo nei confronti della tradizione patristica che, influenzata dal dualismo platonico e dal naturalismo stoico, aveva accentuato la fissità del dato biologico, sottolinea con forza l’importanza del dato culturale, facendo consistere nella «razionalità» – «natura ut ratio» secondo la nota formula di Tommaso d’Aquino – la specificità della natura umana e riconoscendone, di conseguenza, l’aspetto dinamico ed evolutivo.
La ricerca del confronto
Questa ultima interpretazione è venuta consolidandosi nel secolo scorso grazie agli apporti decisivi di alcune correnti filosofiche moderne, la fenomenologia e il personalismo in particolare, che hanno riportato l’attenzione sulla globalità dell’umano, ponendo sempre più l’accento sul dato culturale e sociale quale suo fattore costitutivo. Si deve aggiungere poi che un ulteriore (e decisivo) contributo all’approfondimento dei presupposti antropologici che stanno alla radice della teoria del «gender» (oltre a quelli già segnalati dell’ideologia liberale e del pensiero femminista) è stato fornito dalla riflessione di alcuni pensatori di area francese – da Michel Foucault a Gilles Deleuze sino a Jacques Derrida – che, partendo dalla consapevolezza della ricchezza dell’umano, hanno reso trasparente come la questione dell’identità vada ripensata nell’ottica di una maggiore attenzione alla singolarità della coscienza di sé e della propria libertà, nonché facendo spazio alle decisioni soggettive e agli stili di vita personali ed evitando perciò di dare l’adesione a paradigmi universalistici, che non rispettano le diversità individuali.
Respingendo posizioni unilaterali e semplificatrici di marca strettamente ideologica che non hanno peraltro – come già si è detto, anche se giova ribadirlo – alcun riscontro nella realtà, si deve ammettere che la lettura del mondo umano che proviene dalla teoria del «gender» non può che sollecitare l’etica in generale, e quella di ispirazione cristiana in primo luogo, a fondare i propri orientamenti su basi più ampie di quelle tradizionali, prestando maggiore attenzione alle complesse dinamiche che presiedono alla costruzione dei comportamenti, dinamiche legate ai processi strutturali e culturali propri della società cui si appartiene.
La rivelazione biblica offre, a tale proposito, importanti suggestioni, invitando a riflettere sulla dialettica esistente tra la postulazione di un «principio» – l’archetipo – al quale non si può rinunciare – la differenza dei sessi che ha la sua origine nel dato biologico e che viene ricondotta all’ordine della creazione – e il costante riferimento alle forme culturali, che modellano, di volta in volta, l’identità e le preferenze sessuali, configurandole, nella loro dimensione storica, come fenomeni in costante divenire.
L’abbandono di ogni preclusione ideologica, inclusa quella presente in forme di rifiuto aprioristico della teoria del «gender» (la prolusione del Cardinal Bagnasco corre questo pericolo), e l’apertura a un confronto sereno e costruttivo tra le posizioni più moderate che abbiamo delineate – confronto che, per essere costruttivo e fecondo, va incentrato sul riconoscimento della dignità della persona umana e dell’uguaglianza dei diritti, perciò su una piattaforma di valori condivisi – è la via da percorrere per contribuire allo sviluppo di una convivenza civile nella quale le differenze, lungi dall’essere demonizzate o emarginate, si traducano in ricchezza per la vita dell’intera famiglia umana.