Gianni raggiunge Franco in cielo. Furono i primi sposi gay di Torino
Riflessioni di Massimo Battaglio
Siamo un po’ tristi a Torino. Gianni Reinetti, 85 anni, 52 passati con Franco Perello in attesa di potersi sposare, è volato da lui.
Avevano celebrato la loro unione civile di corsa, appena dopo l’approvazione della legge Cirinnà, perché Franco già non stava bene. Era il 6 agosto 2016. Si erano dovuti lasciare meno di sei mesi dopo: il 26 gennaio 2017.
Ma oggi, a Torino, siamo anche un po’ lieti. Perché la storia di Franco e Gianni è stata tra le più belle, le più dolci a cui abbiamo assistito in questi anni. Sicuramente è stata tra le più romantiche, nel senso vero del termine, cioè di un amore solido, da tutti i giorni, ma eroico, da persone forti.
Ricordo le nozze, un tripudio di gioia, con quei due anziani distinti signori che reggevano un cartello: “noi siamo famiglia!”. E ricordo il funerale di Franco, celebrato in chiesa perché due sposi sono sempre stati molto religiosi e attivi nella vita della loro parrocchia.
Per loro non c’era contraddizione tra fede e omosessualità vissuta alla luce del sole. Amore da una parte, amore dall’altra. Semplice, no?
Non fu facile, quella mattina, tra i curiosi, i giornalisti, i corvi appostati per sollevare polemiche (che nacquero subito e andarono dal grave all’osceno) e tutta la comunità lgbt+ tesissima. Mi chiesero di mettermi in mezzo e lo feci volentieri. Alla fine, l’assessore alle pari opportunità, Marco Giusta, mi disse: “sei una bella carogna. Sei riuscito a farci pregare”.
Vabbè. Che c’entro io? Gianni piuttosto, lui sì che proseguì col suo coraggio da leone. Insieme agli amici Roberta Fontana e Stefano Peretti, raccolse le memorie di quella lunga vita in due e, in interminabili serate, scrissero un libro: Franco e Gianni 14 luglio 1964. Non ne veniva fuori l’immagine di due militanti perché Franco e Gianni non erano mai stati in prima linea sul versante politico. Ma era una storia bella, fatta di passione, allegria, sostegno reciproco e tanta lotta quotidiana contro i pregiudizi.
Ora, ciò che trovo un po’ deprimente, sono i titoli dei giornali che ripetono: Franco e Gianni, i primi “uniti civilmente”. Ma cosa diamine vuol dire “uniti civilmente”? Se si parla di una coppia etero, diciamo per caso “uniti matrimonialmente”? Va bene sottolineare che le unioni civili sono un istituto piuttosto barbaro.
Va bene ricordare che, nel concedere qualcosetta a gay e lesbiche, finiscono per discriminarli una volta di più. Ma quando si parla di una coppia, suvvia, concentriamoci sui fatti, non sui cavilli!
Ho fatto interminabili discussioni coi miei amici, per capire se si potesse parlare di “sposi” a proposito di due persone che contraggono unione civile, e se possono dire: “ci sposiamo”. I più non fanno differenza (e invece dovrebbero farla perché, davvero, unioni civili e matrimonio non sono la stessa cosa, purtroppo).
Alcuni gongolano perché sono rimasti a “non chiamatelo matrimonio”. Altri ancora, la differenza, la fanno fin troppo. Sostengono che, nel senso comune, il termine “sposare” è collegato all’istituto del matrimonio, per cui, finché non lo avremo, nessuno potrà obbligarci a usare quella parola.
Allora ho chiesto a un amico giurista e scrittore (e, combinazione, amico anche di Franco e Gianni). Mi ha confermato che i vocaboli “sponsare” e “sponsus”, nel diritto romano, indicano qualunque contratto in cui una parte si impegna a sostenere l’altra. Il matrimonio è solo uno dei mille atti che prevede questo tipo di promessa.
Anzi: per i romani, “matrimonium” e “sponsalia” erano proprio cose diverse. Il primo era l’atto con cui si stabilivano i doveri della madre in un’unione di coppia. Gli altri erano contratti di fedeltà politica, economica, sociale. La traduzione più filologica del termine “sponsus” non è “sposo” ma “sponsor”, che è un’altra cosa.
E’ proprio per questo – mi dice il mio amico – che la legge italiana non usa mai quei termini nell’ambito del diritto di famiglia. Sarebbero troppo vaghi e, giuridicamente, fuorvianti. Pertanto, il nostro Codice Civile parla di matrimonio – e ora di unioni civili e patti di convivenza – e di coniugi ma non parla mai di sposi. Di più: è ammesso che, nel rito dell’unione civile come in quello del matrimonio, l’ufficiale pronunci la frase “gli sposi possono scambiarsi gli anelli” perché il gesto viene dopo che essi hanno contratto la loro unione, dunque fuori dall’ambito legale ma dentro il rito.
Il mio amico (che poi sarebbe Gianluca Polastri e ha firmato una quantità di antologie lgbt+ come per esempio Queerfobia, l’ultima, e Over 60, la precedente) riassume così: gli etero si sposano secondo il rito del matrimonio e noi ci sposiamo secondo il rito dell’unione civile. Non è il massimo, certo, ma tenderei a non rendere le unioni civili più aride di quel che sono già. “Uniti civilmente” sa proprio di deserto, o di uffici anagrafici, che più o meno è la stessa cosa.
Franco e Gianni hanno lottato per sposarsi. Erano felici di esserci riusciti. Saranno felici, insieme, da oggi, per sempre, in un posto in cui non esistono matrimoni di serie A e di serie B.