Giochiamo anche noi. L’Italia del calcio gay
Dialogo di Katya Parente con la scrittrice Francesca Muzzi
Lei è autrice di “Giochiamo anche noi. L’Italia del calcio gay” (anno 2018, pagine 142), un libro uscito per i tipi della Ultra Edizioni un paio di anni fa ed ancora attualissimo. Si presenta così: “Mi chiamo Francesca Muzzi, sono eterosessuale, lo scrivo perché in tanti me lo chiedono…”
Perché un libro sul calcio gay in Italia?
Tutto è nato dalla mia esperienza personale. A 18 anni ho cominciato a scrivere per il quotidiano locale Gazzetta di Arezzo. Mi occupavo di sport. Ogni volta però che entravo in un campo da calcio mi dicevano sempre le solite frasi, e cioè che una donna non avrebbe dovuto occuparsi di calcio, perché è uno sport per uomini.
Gli anni sono passati. Faccio sempre la giornalista, ho 50 anni, lavoro sempre per il quotidiano che oggi si chiama Corriere di Arezzo, e mi dicono sempre le stesse cose. E cioè che sarebbe meglio che andassi a rumare il sugo, piuttosto che scrivere di pallone. Da qui mi sono detta: ma se per una donna è così difficile entrare in uno stadio, come sarà per un gay? Ed ecco il mio libro.
Dove hai trovato il materiale, e quanto tempo ti ha preso la scrittura del libro?
Il materiale l’ho trovato facendo il lavoro che faccio. E cioè indagando, scoprendo. Il libro, compatibilmente anche con il mio lavoro, mi ha preso circa due anni.
Le squadre LGBT sono una sorta di enclave del panorama calcistico italiano. Chi sono gli “abitanti” di questa “riserva”?
Io non le chiamerei “riserve”. Sono semplicemente dei ragazzi che hanno voglia di giocare a pallone. Si sono riuniti in squadre LGBT solo per sentirsi più liberi. Liberi di abbracciare o baciare il compagno a bordo campo. Liberi di fare tornei. Non ghettizziamo nessuno.
Perché anche se all’inizio sembra così, poi i ragazzi ti spiegano che i loro tornei, le loro squadre nascono per la libertà di essere se stessi. Cosa che in una squadra eterosessuale non sarebbero. O per meglio dire, verrebbero giudicati.
Ti occupi da sempre di giornalismo sportivo. Al di là del calcio, che tu sappia, com’è la situazione?
Il calcio è il mondo “machista” per eccellenza. Non c’è sport che pubblicizzi la virilità come il calcio. Basta guardare le pubblicità. Basta rifarsi alla canzone della Rita Pavone. Gli altri sport forse, ma dico forse, sono meno “giudicanti”, e quindi fare coming out è più semplice.
Anche se, purtroppo, abbiamo visto che ogni coming out fa sempre notizia. In qualsiasi disciplina. E fino a quando farà notizia non ne usciremo.
Cos’hai imparato da tutte le storie che hai raccolto?
Ho imparato che in mezzo al campo non c’è distinzione se sei gay o etero. Entrambi giocano alla stessa maniera. Ho imparato che sono ragazzi che hanno solo voglia di giocare a pallone.
Ho imparato che ancora c’è tanto da fare per buttare giù il muro di omofobia. Nonostante le belle parole pronunciate dai campioni, nonostante i lacci delle scarpe arcobaleno. Ancora siamo al punto di partenza. L’ho provato scrivendo questo libro.
Avevo chiesto contributi a calciatori, ex calciatori, allenatori, ovviamente famosi. Tutti hanno declinato l’invito. Alcuni mi hanno risposto “con questo argomento non vogliamo entrarci”.
L’unico che ci ha messo la faccia è stato Tomas Locatelli, ex calciatore di serie A. Il suo contributo è diventato l’introduzione del mio libro. “Io non so se ho mai giocato con o contro un gay. Per me in campo erano tutti uguali. E un’altra cosa, se è servito un libro per tirare fuori il calcio e l’omosessualità, allora nel mondo dorato del pallone qualcosa non ancora va”, scrive Locatelli. Quando il coming out di un calciatore non farà più notizia, allora potremo dire di avere vinto.
E conclude dicendo: “Non serve essere omosessuale per lottare per i diritti delle persone. L’amore è sempre amore. Qualsiasi colore abbia”.
Un libro coraggioso, che ha avuto varie menzioni, tra cui quella del giornalista sportivo Gianni Mura, scomparso a marzo, che lo mette tra le cento cose da ricordare nel 2018. Non ci resta che leggerlo.