Il cinema italiano negli anni novanta: la fine del declino
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Appunti di Luciano Ragusa distribuiti durante gli incontri del cineforum del Guado che si sono tenuti il 15 Maggio 2016
Un quinto posto giustificato dai bassi incassi e dal numero esiguo di film prodotti: per tutto il decennio si fa fatica a superare l’asticella delle cento produzioni annue e, nel 1996, si infrange il record negativo stabilità durante il decennio precedente e si producono solo settantatré lungometraggi.
Ed è dopo questo picco negativo che si inizia a intravvedere una inversione di tendenza: si registra infatti un aumento del numero degli spettatori che coinvolge anche alcune pellicole italiane come Fuochi d’artificio di Leonardo Pieraccioni, e Tre uomini e una gamba del trio Aldo Giovanni e Giacomo; si iniziano ad offrire al pubblico i cinema multisala che hanno un grosso successo soprattutto sugli adolescenti (che apprezzano il fatto che i multisala siano anche dei punti in cui trovarsi per stare in compagnia o per mangiare qualcosa insieme).
Restano esclusi dai progressi che si registrano negli ultimi anni del secolo i film che non vengono distribuiti nel circuito di questo nuovo tipo di sale: il pubblico non li prende in considerazione e molto spesso gli incassi non riescono nemmeno a coprire i costi di produzione.
Al di là dei numeri, però, a parte alcune eccezioni, gli anni novanta sono caratterizzati da una decisa mediocrità anche perché i grandi protagonisti del cinema italiano, uno dopo l’altro, se ne vanno più meno tutti: Federico Fellini muore nel 1994, Marcello Mastroianni nel 1996, Nanny Loy nel 1995, Marco Ferreri nel 1997 e Massimo Troisi, che della cinematografia italiana era stata senz’altro una significativa promessa, muore prematuramente nel 1994.
Naturalmente qualcuno riesce ancora a proporre dei bei film (si pensi, ad esempio, a Mario Monincelli, ai fratelli Taviani, a Ermanno Olmi o a Pupi Avati, per non parlare di Nanni Moretti e di Roberto Benigni che con il suo La vita è bella, riporta finalmente il cinema italiano ai vertici della cinematografia mondiale).
Moretti e Benigni possono essere idealmente visti come i due poli tra cui si colloca il meglio della nostra produzione cinematografica degli anni ottanta che comprende le opere di Gabriele Salvatores, Giuseppe Tornatore, Carlo Mazzacurati, Marco Tullio Giordana, Gianni Amelio, Silvio Soldini, Francesca Archibugi, Alessandro Benvenuti, Ciprì e Maresco e Mario Martone).
Col senno di poi si può tranquillamente dire che sono questi gli autori che portano il cinema italiano fuori dalla crisi in cui era precipitato nei tre lustri che separano il 1980 dal 1995 e che avevano fatto dire a qualche critico che il cinema italiano era «il più brutto del mondo».
Di sicuro l’Italia è uno dei paesi che ha sofferto di più l’invasione dei blockbusters americani anche se, in realtà, la vera causa della crisi è stata quella deriva etica ed estetica che è seguita al crollo delle ideologie. Occorreva trovare nuovi argomenti su cui esercitare la creatività: c’è voluto tanto, ma alla fine degli anni novanta questi argomenti sono arrivati.
Il cinema gay italiano negli anni novanta
L’analisi del cinema gay italiano degli anni novanta è senz’altro più complessa e articolata rispetto a quella che si poteva fare per i decenni precedenti. Certamente si registra un incremento sensibile nel numero delle pellicole al cui interno sono rappresentati personaggi LGBT, ma sono ancora pochi i film che hanno il coraggio di mostrare la quotidianità vera di lesbiche gay e transessuali; le variabili in gioco sono molte e tra queste continua ad avere un ruolo importante la difficoltà ad abbandonare stereotipi e luoghi comuni che fin dall’inizio del periodo che stiamo analizzando è stato un elemento di disturbo.
A questo fattore ereditato dal passato si aggiunge però anche un’incapacità artistica di immaginare orizzonti sociopolitici all’interno dei quali contestualizzare le storie delle persone LGBT.
E così, anche se negli anni novanta si incontrano alcune pellicole dove il tema viene trattato con sufficiente simpatia e rispetto, ci si guarda bene dal gettarlo nella mischia dell’agone pubblico allo scopo di aprire una discussione: il risultato è quindi un cinema senz’altro molto più “politicamente corretto” nei nostri di lesbiche, gay e transessuali, ma privo di quella carica eversiva che invece era emersa in alcune opere del ventennio precedente.
Si potrebbe obiettare che, in realtà, il passaggio storico è comunque importantissimo, perché alla prassi di mettere in relazione l’omosessualità con la distruzione della società (come si faceva negli anni sessanta, quando si pensava che il legame tra diversità sessuale corruzione morale fosse inscindibile) si è sostituita l’idea di un’omosessualità normale e senza frastuoni.
Si tratta certamente di un passo in avanti, ma il perbenismo da cui è sottesa è pur sempre ispirato al quella logica del “non chiedere e non dire” che, quando le cose diventano imbarazzanti, giustifica comunque qualunque forma di censura. Nemmeno una calamità come quella dell’epidemia da HIV è riuscita a scalfire l’ipocrisia di un simile atteggiamento e non è un caso che, nella filmografia italiana degli anni novanta non esista (nemmeno in un’ottica eterosessuale) un film paragonabile a Philadelphia di Jonathan Demme.
A questi elementi occorre aggiungere l’implosione del cinema indipendente che ha bloccato sul nascere esperienze simili a quelle che, negli anni ottanta, avevano portato avanti autori come Silvano Agosti, Gianni Da Campo e Gianni Minello.
Più effervescente è invece il mondo dei medi e cortometraggi che, complici anche i minori costi di produzione, ha visto lo sviluppo di una produzione più vicina alla militanza politica LGBT con autori di indubbio valore come Claudio Cipelletti, Giampaolo Marzi, Ottavio Mai, Giovanni Minerba, Daniele Segre, Marco Puccioni, Pasquale Marrazzo e Tonino De Bernardi. Purtroppo l’assenza di un mercato in cui distribuire le loro opere, ha impedito al grande pubblico di apprezzare i loro lavori che sono rimasti strettamente legati al circuito delle associazioni e dei festival LGBT.
Tra questi lavori vanno segnalati alcuni importanti documentari come L’amore proibito dell’eroe, proposto, nel 1995, da Giovanni Minerba (storia di un israeliano che, dopo la morte del compagno militare, chiede al governo di riconoscergli lo stesso trattamento riservato alle vedove dei militari defunti): Promessi Sposi (1993) di Antonio De Lillo dove si raccontano le difficoltà che incontrano Lina e Antonio nel veder riconosciuta pubblicamente la loro relazione indipendentemente dal fatto che Antonio era nato donna; Una storia d’amore (1996) di Damiano Lamberti e Roberta Calandra, che documenta le vicende di Brett Shapiro, scrittore ebreo omosessuale che ha adottato il figlio del compagno morto di AIDS.
Molto interessanti sono anche i due documenti firmati da Claudio Cipelletti: Tuttinpiazza del 1997 (video dossier sul movimento gay italiano) e Nessuno uguale (1998), realizzato in collaborazione con AGEDO montando alcuni spezzoni delle registrazioni di una serie di interviste in cui gli allievi di tre scuole superiori di Milano parlano della diversità omosessuale.
Un’ultima citazione in questo spezzone della filmografia LGBT la merita senz’altro Parola chiave di Giampaolo Marzi che è uscito nel 1994: si tratta infatti dell’unico tentativo che c’è stato in quegli anni in italia di fare informazione sull’AIDS in un’ottica gay.
Per quanto concerne invece il settore dei lungometraggi l’autore che in misura maggiore ha inserito nelle proprie pellicole ruoli LGBT è Giuseppe Bertolucci. Sono infatti almeno tre i film girati da lui che si possono prendere in considerazione: Il pratone del Casilino del 1995 (adattamento per il grande schermo di uno spettacolo teatrale che lo stesso Bertolucci aveva messo a punto partendo da Petrolio, l’ultima opera di Pier Paolo Pasolini); Il dolce rumore della vita del 1999 (dove si racconta la storia di Sofia, una giovane attrice di teatro innamorata del proprio maestro di recitazione, che però è gay) e L’amore probabilmente, uscito nel 2001, dove la protagonista avrà una relazione con una donna e con un uomo.
Nel 1996 esce Dentro il cuore del regista Memé Perlini, un’assurda storia ambientata negli ambienti neonazisti romano che non può che finire tragicamente. Tre anni dopo, invece, Emilio Greco firma Milonga, un film in cui un commissario di polizia omosessuale (interpretato da Giancarlo Giannini) deve scoprire gli autori di un omicidio nel mondo del tango argentino.
Del 1998 è invece L’ospite di Alessandro Coalizzi in cui la protagonista scopre l’omosessualità velata del padre e una relazione della madre con un ragazzo della sua età. Ambientato nel mondo militare è invece Marciando nel buio, un film di Massimo Spanò, uscito nel 1996, che racconta la storia di un sergente che si prostituisce per arrotondare lo stipendio e che coinvolge in questa sua attività nascosta un commilitone che vive il dramma di non poter far emergere una violenza che subisce mentre si prostituisce.
Il problema di questi film è che, quando i personaggi LGBT non hanno un ruolo subalterno (e quindi risultano marginali, se non inutili, nell’economia della narrazione) le vicende sono talmente assurde e talmente sopra le righe nelle situazioni border line che presentano, da rendere la fruizione del film davvero irritante, quando non addirittura impossibile. In particolare è il caso delle opere di Spanò, di Perlini e di Greco.
Un film credibile è invece Padre e figlio del campano Pasquale Pozzessere (1994) in cui un ragazzo al rientro dal servizio di leva e senza prospettive di lavoro, si innamora di una transessuale con la quale vuole intraprendere un viaggio negli Stati Uniti. Il padre, che non condivide questa scelta, farà di tutto per fargli cambiare idea e il conflitto che si instaura tra i due diventa l’occasione per dipingere i conflitti intergenerazionali in maniera particolarmente efficace.
Ancora una volta, però, come capita spesso nel cinema italiano, è la commedia a farla da padrona, proponendo opere che, pur avendo il merito di non cadere più nel macchiettismo tipico dei decenni precedenti, non offrono allo spettatore nessuno strumento per riflettere.
In questo tipo di film l’autore che, più di ogni altro, propone personaggi omosessuali è Christian De Sica che, nel 1991, con Faccione racconta i tentativi con cui la proprietaria di una galleria d’arte cerca di ‘redimere’ un suo dipendente la cui colpa è quella di avere una relazione omosessuale, nel 1995, con Uomini, uomini, uomini fa lo sforzo di raccontare la vicenda di quattro amici che si muovono nel mondo omosessuale romano e nel 1996 e con Tre propone un menage a troi in cui uno stalliere con velleità rivoluzionarie viene coinvolto da un barone nella relazione tra quest’ultimo e la moglie.
Anche Vincenzo Salemme si è misurato con un personaggio gay nella commedia Amore a prima vista del 1999 dove una scombussolata storia d’amore omosessuale si rivela essere soltanto un sogno. Salvatore Maira, invece, nel 1999 firma Amor nello specchio, uno dei pochissimi film in cui si parla dell’amore tra due donne: Virginia e Lidia, attrici di una compagnia teatrale che vivono una intensa storia d’amore.
Un esperimento interessante è Femminielli, un documentario del 1994 in cui Michele Buono segue per più di dieci anni (le riprese, infatti, erano iniziate nel 1983) la vita di alcuni femminielli nei vicoli e nelle case di una una Napoli antica.
Aurelio Grimaldi, invece, autore di Meri per sempre, il romanzo da cui era stato tratto il film Mary per sempre di Marco Risi, negli anni novanta firma due pellicole a tematica gay molto diverse tra di loro: La discesa di Aclà a Floristella del 1992, dove vi si narra la storia di Aclà, un ragazzino costretto a vivere in una solfatara, in cui i carusi (il termine siciliano per indicare i bambini) sono oggetto di attenzioni sessuali e violenze da parte degli adulti; Nerolio, del 1996, che offre invece uno spaccato della personalità notturna di Pasolini, cosa che suscitò le polemiche di una parte del movimento gay, che non accettava le situazioni provocatorio che Grimaldi metteva in luce.
Altri due siciliani si occupano di Pasolini, si tratta di Ciprì e Maresco che, nel loro cortometraggio Arruso (uscito nel 2000) omaggiano la sua figura intervistando le persone che lo hanno conosciuto durante un viaggio a Palermo per la lavorazione de I racconti di Canterbury.
In occasione del ventennale della morte di Pasolini esce nelle sale Pasolini. Un delitto italiano di Marco Tullio Giordana, un film che, pur mostrando indubbie qualità formali, mescolando immagini di repertorio e finzione cinematografica, non aggiunge nulla alle verità già conosciute dal grande pubblico sul delitto, lasciando trasparire il significato commerciale dell’operazione.
Nel 1996 esce invece un lungometraggio firmato da Antonio Capuano dal titolo: Pianese Nunzio, 14 anni a maggio in cui si racconta la storia di un prete in prima fila nella lotta contro la camorra e del suo innamoramento per Nunzio, un ragazzo della parrocchia che verrà costretto dalla malavita organizzata a denunciare il sacerdote che aveva intrattenuto una relazione con lui. Napoletano come Capuano è Pappi Corsicato, autore, nel 1993 di Libera, un film a episodi che, nel secondo episodio, intitolato Carmela in cui si racconta di un adolescente che, uscito dal riformatorio, inizia una relazione con un giovanotto che vende sigarette nella zona in cui abita la madre Carmela e si trasferisce da lei dove trova una vecchia foto che lo ritrae con i suoi genitori e scopre che Carmela, in realtà, è suo padre e che era diventata donna dopo la morte della moglie.
Altre due pellicole da segnalare sono, nel 1997, Il bagno turco di Ferzan Ozpetek, un regista turco trapiantato in Italia, e nel 1994, Belle al bar di Alessandro Benvenuti. Il primo film è la storia di un architetto romano che, costretto a recarsi ad Istanbul per vendere un bagno turco ereditato da una zia, scopre un’atmosfera che lo afferra e che lo porta a prendere la decisione di non venderlo. Nella seconda pellicola Benvenuti interpreta Leo che, durante un viaggio di lavoro incontra il cugino che ha cambiato sesso e si chiama Giulia (si tratta dell’unico film italiano, in cui fino al 2000, si parla di transessualità con rispetto e sospendendo qualunque giudizio).
Da questa carrellata si capisce bene che anche negli anni ottanta l’omosessualità viene accettata dalle case di produzione solo quando rientra in quei canoni che, ricorrendo a cliché consolidati, promettono di aumentare gli incassi. Questo fa sì che non ci sia spazio per opere che invitano a riflettere in maniera diversa sulla condizione di lesbiche, gay e transessuali.
In sostanza, siamo ancora in presenza di quella “tolleranza repressiva” che permette ai cineasti di parlare di omosessualità solo se evitano di dare spazio a quelle rivendicazioni identitarie che si vedono invece nelle produzioni fatte in ogni altra parte del mondo.
Per saperne di più:
Brunetta Gian Piero, Guida alla storia del cinema italiano. 1905-2003, Einaudi, Torino, 2003.
Zagarrio Vito, Cinema italiano anni novanta, Marsilio, Tascabili Cinema, Venezia, 1998.