Gli anni sessanta tra timide aperture e vecchi stereotipi
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Scheda di Luciano Ragusa proposta durante il cineforum del Guado di Milano del 14 Febbraio 2016 per la proiezione di due mediometraggi con cui abbiamo deciso di documentare l’immagine che il cinema degli anni sessanta offriva dell’omosessualità.
La stagione che in misura maggiore incarna, nell’immaginario collettivo lo spirito di cambiamento sociale, al punto tale da essere considerata ‘favolosa’ è quella che ha attraversato gli anni sessanta del secolo scorso.
In effetti, molte delle istanze sorte in seno al decennio precedente, che oggi definiremmo “eticamente sensibili”, trovano, in questo decennio, spazio e modalità comunicative che consentiranno, negli anni settanta, di trovare espressione legislativa: l’esempio probabilmente più calzante è l’iter parlamentare della legge Baslini-Fortuna che introduce il divorzio in Italia. Iniziato nel 1965 termina il primo dicembre del 1970 e apre la stagione del successivo periodo referendario.
L’apice della contestazione, come sappiamo, saranno le proteste del sessantotto, il cui spirito, unito all’esasperazione per i continui soprusi della polizia, avrebbe portato alla rivolta della comunità omosessuale del Greenwich Village di New York l’anno successivo. La protesta si sarebbe estesa prima nelle grandi città americane e poi in tutto il mondo occidentale (compresa l’Italia) e avrebbe segnato la fine dei movimenti ‘omofili’ e l’inizio di una forma di attivismo politico e rivendicativo che avrebbe segnato il futuro della comunità omosessuali in tutto il mondo.
Per quanto concerne il cinema, in Italia, negli anni sessanta, ci sono tentativi importanti che affrontano il tema dell’omosessualità fuori dagli schemi consueti. Basta pensare a Comizi d’amore (1964) e a Teorema (1968) di Pier Paolo Pasolini. Oppure a La commare secca (1962) di Bernardo Bertolucci, o il Satyricon di Fellini (1969), per non dimenticare Il mare (1962) e Metti una sera a cena (1969) di Giuseppe Patroni Griffi e la trasposizione cinematografica del romanzo Agostino di Alberto Moravia fatta da Mauro Bolognini nel 1962.
A questo breve elenco andrebbero senz’altro aggiunte altre pellicole che testimoniano come nella percezione dell’omosessualità ci sia stato un lentissimo progresso, figlio del più generale processo di liberazione sessuale che ha caratterizzato la società nel suo complesso. Occorre comunque osservare che i personaggi gay che sono presenti nei film, nella stragrande maggioranza dei casi, sono relegati nel mondo della cronaca nera, provocano scandalo scandalo, sono dediti all’immoralità e ripropongono cliché e luoghi comuni che hanno aiutato a mantenere l’asticella dell’omofobia ad altissimo indice di gradimento nazionale.
Una lista non esaustiva di questi film comprende: di Luchino Visconti (che pure era omosessuale) Rocco e i suoi fratelli (1960), dove uno dei protagonisti, Simone, viene sedotto dal manager Morini; La caduta degli dei (1969) dove si teorizza l’associazione tra omosessualità e progetto totalitario; La cuccagna di Luciano Salce (1962) e Il disco volante di Tinto Brass (1964) che ripercorrono l’immaginario dell’omosessuale effeminato e possibilmente da rinchiudere in manicomio; Il commissario Pepe di Ettore Scola (1969), Costa azzurra di Vittorio Sala (1959) e Via Margutta di Mario Camerini (1960), che invece ripropongono il luogo comune dei ‘froci’ altolocati che usano la leva economica per sedurre giovani maschi. Altri titoli che cadono in questa trappola sono Il sesso degli angeli di Ugo Liberatore (1968), Frenesia dell’estate di Luigi Zampa (1964) e Le Salamandre di Alberto Cavallone (1969).
I fattori che hanno favorito questo genere di rappresentazione sono naturalmente più di uno, è però interessante notare il rapporto che si crea tra la raffigurazione di lesbiche e gay e la censura che, non a caso, contestava solo quelle opere in cui la lettura che veniva data dell’omosessualità non corrispondeva all’immaginario collettivo che, quindi, al posto di essere ‘educato’ dalle opere cinematografiche, veniva rinsaldato nei suoi pregiudizi.
Può essere comunque utile fornire alcuni esempi che potremmo arbitrariamente proporre come dei “casi campione” che possono aiutare chi legge a capire, tra indecenze e illegalità, casi di plagio, rapimenti e morte, il modo in cui era percepito dall’opinione pubblica il mondo sommerso composto dalle persone LGBT.
Il libro di Carlo Camilleri
Carmelo Camilleri era un funzionario di polizia attivo per tutto il ventennio fascista (nel suo libro Polizia in azione. Incursione nel mondo che ho combattuto, Ordine Pubblico, Roma, s.d. [probabilmente del 1958], a pagina 24 dice di essere arrivato a Torino nel 1921) che, nel corso della sua carriera ha raccolto appunti e note sulle attività che aveva condotto per contrastare il mondo della criminalità e, al suo interno, l’universo “dell’inversione sessuale”.
In una recensione del 1958 il suo libro viene presentato così: «Polizia in azione fu scritto nel 1958 su note ed appunti raccolti durante l’intera carriera, ma resiste al tempo perché è rigorosamente estraneo ad ogni retorica». Basandosi quindi su una ingiustificata autorevolezza il libro di Camilleri presenta il mondo “dell’inversione sessuale” secondo i canoni della propaganda in auge nel ventennio fascista. Nel leggerlo si capisce molto bene quali fossero le fonti che plasmavano la percezione dell’omosessualità da parte dell’opinione pubblica.
Nell’introduzione si legge: «A Sanremo ebbi occasione di portare a buon fine parecchi servizi di polizia giudiziaria e di identificare gli autori di gravi vari reati che… attratti dal calcolo delle probabilità di potere… potevano rimanere impuniti. Ma tale previsione si dimostrò sempre e troppo ottimistica, giacché io avevo potuto, coadiuvato da abili agenti di speciale intuizione, stendere una tale rete, che non mi sfuggiva nessuno nuovo arrivato in città, sul quale si esercitava la più oculata vigilanza, tanto che poche denunce di reato furono, in quel periodo, archiviate, con la formula: “ad opera d’ignoti”» (Op. cit., p. 24)
Sempre dall’introduzione racconta che, dopo essere arrivato a Torino: «Volli, innanzi tutto, studiare la città, nella quale le attività turbinavano intensamente, e con aspetti poliedricamente vari… Sono riuscito a scoprire e stroncare con energia e tenacia manifestazioni gravi di corruzione e delinquenza. Ero notissimo in tutta la malavita torinese, che aveva il terrore di me e che mi aveva attribuito poteri magici divinatori e ubiquitari» (Op. cit., pp. 24-25).
Superman è arrivato in città: e siccome gli omosessuali furono tra le categorie combattute dal nostro supereroe vediamo cosa ne pensa (Op. cit., pp. 35-38).
«L’inversione sessuale è connessa ad uno stato di immoralità, il più della volte costituzionale e spesso è causa occasionale di reati, anche gravi… Lo stato d’immoralità costituzionale degli omosessuali resiste a qualsiasi intervento della polizia. Gli omosessuali sono generalmente predisposti al delitto… Il loro stato di immoralità costituzionale costituiva quasi sempre l’occasionalità per la perpetrazione di delitti. Molti invertiti, da me interrogati, riconoscevano la colpevolezza e l’ignominia della loro turpe passione, ma non potevano spiegarne la genesi, dichiarando, però, energicamente di non poterla vincere e di essere impossibilitati ad emendarsi (sottolineatura mia).
La pederastia è uno dei mali sociali più pericolosi, che dovrebbe preoccupare seriamente i legislatori, poiché, oltre ad estrinsecarsi a danno della pubblica morale, dà luogo a gravi azioni criminose, tra cui primeggiano il ricatto per evitare uno scandalo, il furto, la truffa, la violenza e spesso l’omicidio. I pervertiti, alla anomalia sessuale, accoppiano sempre altre anomalie etiche, che li conducono al delitto… Tenacissimi nelle loro torbide passioni, gli omosessuali, non si vergognano del loro stato e si adattano ad ogni bassezza pur di soddisfare le loro insane voglie».
«Pericolosissimi sono quelli che prendono una cotta per il loro amante: lo seguono ovunque, gelosi fino al parossismo, non tollerano che guardi donne, gli scrivono lettere vibranti di affetto, sature d’incontenuto desiderio, piene di volgari lascivie. Dotati di capacità immaginativa, che raggiunge la fantasiosità, predisposti alle più assurde invettive, alla bugia, alla calunnia, esuberanti di lussuria sfrenata e d’incontenuta emotività, privi di freni inibitori, di volitività e di senso morale, violenti contro se stessi e contro gli altri, si rendono spesso colpevoli di sanguinose reazioni verso i propri amanti che li tradiscono, o che intendono troncare la vergognosa tresca».
«Il loro turbamento neuropsichico conduce al delitto passionale, che ha uno sfondo di vendetta per il tradimento subito ed è una conseguenza della gelosia che si sviluppa al punto da diventare delirio. Parecchi degli omicidi nel torbido mondo degli invertiti, hanno origine nello speciale impeto di passionalità, dall’affievolimento delle capacità di resistenza, dallo stato di morbosità in cui cade il soggetto. Rari sono i casi in cui la reazione contro il proprio amante è immediata, il più delle volte si matura con lenta preparazione e spesso la si sente e la si prevede».
«I pederasti rappresentano un grave pericolo per la società, giacché, essi sono sempre predisposti a compiere efferati, preordinati delitti di sangue. Severe disposizioni, che non sono contemplate dalla nostra legislazione penale, dovrebbero colpire questa ignominiosa attività».
«Gli invertiti dovrebbero essere rinchiusi, segregati, in appositi istituti. Oggi quelli colpevoli di reati sono associati nelle carceri comuni, dove, le prolungate privazioni, si risolvono in fenomeni di omosessualità episodica o abituale, o in turbamenti neuro-psichici. L’arrivo di un pederasta in un carcere è una manna per i reclusi, costretti ad una dura astinenza ed è una gioia per il pederasta che è messo in condizioni di soddisfare, senza freni, con tutta libertà, ed incontenutamente, le sue gomorriche abitudini, per cui. Il più delle volte, egli ha vinto sulla legge, che ritiene di averlo colpito, mentre lo ha messo, invece, nella migliore delle condizioni per soddisfare liberamente la sua turpe passione».
«Bisogna reagire a questo grave stato di cose, che è deleterio per la società, vergognoso per una nazione civile, impegnativo per lo stato che ha il dovere di legiferare per prevenire e reprimere. Non concedendomi la legge alcuna facoltà repressiva, mi avvalsi dei sistemi di prevenzione: sorveglianza continua delle zone in cui questi miserabili si riunivano, sistematici fermi per misure di pubblica sicurezza e rimpatri per i non iscritti alle anagrafe di Torino, proposte di ammonizione per gli oziosi, vagabondi e coloro che avevano precedenti penali, retate allorquando avvenivano gravi delitti ad opera d’ignoti, con parecchi giorni di detenzione prendendo a pretesto presunte indagini; pedinamenti, che rendevano impossibile qualsiasi convegno: ecco le armi di ripiego di cui mi servivo per perseguitare questi relitti umani. E riuscii: la massa degli invertiti, vessata ad oltranza in tutti i modi e con tutti i mezzi, si sbaragliò ed isolatamente i pederasti più noti si eclissavano e, tremanti di paura, si nascondevano cercando di far dimenticare la loro esistenza, per non inciampare nelle reti fittissime, che avevo tessuto intorno a loro. E così che potei evitare molti reati, che questi psicopatici, se non vigilati e bistrattati, avrebbero, senza dubbio, commesso».
I balletti verdi
Se esistesse un’ipotetica classifica degli eventi più significativi che hanno condizionato l’opinione pubblica degli anni sessanta sul tema dell’omosessualità e, di conseguenza, l’immaginario collettivo, compresa la sua forma cinematografica, i balletti verdi occuperebbero un posto di primo piano. Tutto comincia quando un padre, residente in provincia di Brescia, scopre che il figlio adolescente intrattiene una relazione con un uomo più maturo, denuncia il caso ai carabinieri. Prende così vita (nell’autunno del 1960) all’interno dell’universo gay bresciano, un’inchiesta la cui eco fu amplificata in tal misura da spingere alcuni ad immaginare una possibile rete nazionale di sfruttamento del vizio su poveri adolescenti.
Ma perché balletti verdi? Il nome è stato mutuato da una serie di incontri tra uomini e ragazze minorenni scoperti nella città di Parigi, etichettati come balletti rosa: siccome lo scrittore Oscar Wilde era solito presentarsi con un garofano verde all’occhiello, per antonomasia, il verde, divenne il colore rappresentativo per tutti gli omosessuali.
Il giovane quindicenne, interrogato, ammise la sua relazione e, probabilmente impaurito, descrisse alcuni incontri tra omosessuali a cui aveva partecipato, consegnando agli inquirenti le generalità di alcuni di loro. Emerse che una parte di essi aveva intrattenuto rapporti a pagamento con minorenni ma, anziché considerare la questione nella sua effettiva portata, i magistrati ipotizzarono la presenza di una vasta organizzazione di sfruttamento della prostituzione minorile. In poche settimane gli inquisiti diventarono 187 e iniziarono a circolare strani elenchi di personaggi noti, tra cui Mike Bongiorno, Paolo Carlini, Gino Bramieri, Dario Fo, Franca Rame, che, naturalmente, diedero alla vicenda una dimensione nazionale inaspettata.
Col progredire dell’istruttoria ci si accorse che lo scandalo dei balletti verdi era molto più circoscritto e mise in luce il fatto che venissero organizzati alcuni festini omosessuali che avevano avuto, tra i partecipanti, alcuni personaggi noti, come l’attore Gio Stajano a Roma, piuttosto che il coreografo Paul Steffen a Milano. Nessuno degli altri personaggi sopra elencati risultò coinvolto nella vicenda: probabilmente erano il frutto della baldanza di alcuni adolescenti che, di fronte alla pressione delle testate giornalistiche e dei rotocalchi, cercarono di darsi importanza coinvolgendo dei personaggi conosciuti.
Resta comunque il fatto che molti degli inquisiti videro il proprio nome pubblicato sui quotidiani, con le conseguenze che una situazione del genere poteva provocare in un paese fortemente omofobo come l’Italia di quegli anni: uno di essi perse il lavoro e fu costretto ad espatriare; due inquisiti si tolsero la vita mentre altri ricordano di essere diventati lo zimbello delle comunità in cui vivevano dove erano costantemente additati per strada.
Ma di cosa erano accusate queste persone? Visto che, dall’introduzione del codice Zanardelli (1889) in poi, nessun articolo ha mai fatto riferimento a procedure penali relative al reato di omosessualità, le accusa erano quelle di sfruttamento o favoreggiamento della prostituzione minorile, di atti osceni in luogo pubblico in cui l’omosessualità, anche e non era punita dalla legge, veniva vista come un’aggravante in quanto grave colpa morale.
Dei 187 imputati iniziali ne vennero rinviati in giudizio 16, dei quali, il 29 gennaio 1964 ne venne condannato soltanto uno che subì una pena di 4 anni di carcere per favoreggiamento della prostituzione.
Sebbene l’istruttoria si fosse concluse per quasi tutti gli accusati in un nulla di fatto, la sofferenza che creò nelle persone gay che erano state coinvolte fu enorme, così come l’impatto sull’opinione pubblica e su alcuni politici e giuristi che tentarono di introdurre nel codice penale italiano una norma che condannasse i rapporti omosessuali.
Quale verità emerge dall’analisi dell’istruttoria? Brescia era davvero la capitale di una vasta organizzazione che favoriva la prostituzione minorile maschile? Per rispondere riporto di seguito una pagina tratta dal libro Balletti verdi di Stefano Bolognini, attivista, giornalista e scrittore, che nel 2000 ricostruì per intero la vicenda.
«A Brescia, come detto, si tenevano le elezioni e qualcuno voleva togliere voti alla DC . Questo qualcuno, intravide nella denuncia del padre, la possibilità di uno scaldaletto nella Brescia bene, quella degli industriali e dei preti, quella che gestiva il potere. Lo scandalo sfuggì di mano a chi lo aveva alimentato, e i giudici si trovarono nella condizione di dover andare fino in fondo o di insabbiare lo scandalo.
Nell’impossibilità di concludere degnamente l’inchiesta scelsero la seconda strada. Tanti sono gli indizi di questo stato di cose: primo fra tutti la fuga di notizie. Destra e sinistra utilizzarono lo scandalo contro i cattolici, i primi si proposero come nuovi moralizzatori, i secondi, si difesero dalle accuse di immoralità che da sempre ricevevano e le restituirono una per una. La DC ne uscì malconcia, ma non perse consensi. L’ipotesi dello scandalo politico è suffragata anche da altre tesi.
La denuncia esposta dal genitore bresciano nel 1960 non poteva essere certo la prima avvenuta in Italia. Qualunque procura avrebbe potuto far parlare un omosessuale o una marchetta in modo da indagare negli “ambienti viziosi”. La questione politica spiega perché lo scandalo sia cominciato a Brescia: lo scandalo serviva a qualcuno. Dire a chi sarebbe banalizzare il caso. Non vi fu una parte specifica che tramò per alimentare lo scandalo.
Quello scandalo serviva un po’ a tutti, e un po’ tutti cercarono di trarne vantaggi. Crebbe forse più perché nessuno aveva realmente interesse a fermarlo, né tantomeno ad affrontarlo con professionalità e ragionevolezza. Crebbe perché se vi era realmente qualcuno che poteva andarne di mezzo, questi, altro non era che un invertito» (Cfr, Stefano Bolognini, Balletti verdi, pp. 78-79).
Per saperne di più sui balletti verdi:
Bolognini Bolognini, Balletti verdi. Uno scandalo omosessuale, Liberedizioni, Gavardo (BS), 2000.
http://www.stefanobolognini.it/428/balletti-verdi-la-ricostruzione-dello-scandalo
http://www.culturagay.it/recensione/10387
http://www.giovannidallorto.com/testi/XX06.html
Aldo Braibanti
Il nome di Aldo Braibanti è inevitabilmente collegato all’accusa di plagio e al processo che da questa accusa scaturì. Eppure la sua vita è stata un’avventura incredibile indipendentemente dal processo giudiziario che ha reso famoso il suo nome.
Classe 1922, figlio di un medico condotto, nel seguire il padre che lo portava con sé quando andava dai pazienti per visitarli a domicilio, seguiva il padre nelle visite domiciliari ai pazienti, ha imparato ad apprezzare la bellezza della campagna piacentina e a sviluppare una profonda sensibilità ecologica che l’avrebbe spinto a studiare per gran parte della sua vita la vita delle termiti e delle formiche.
Nel 1939, mentre ancora frequentava il prestigioso liceo classico Romagnosi di Parma, pubblicò Agli uomini vivi una lettera aperta dai toni decisamente antifascisti che gli avrebbe creato qualche problema.
Negli anni successivi, mentre frequentava la Facoltà di Filosofia presso l’Università di Firenze entrò in contatto con i movimenti intellettuali antifascisti ed entrò in contatto dapprima con Giustizia e Libertà e successivamente con le cellule clandestine del Partito Comunista.
Sotto il fascismo Braibanti venne arrestato due volte: la prima volta nel 1943 in seguito ad una retata che vide coinvolto anche il futuro segretario repubblicano Ugo La Malfa (sarebbero stati scarcerati il 25 luglio di quello stesso anno, quando, alla caduta del Fascismo, il generale Pietro Badoglio diede l’ordine di liberare prima i docenti, e poi gli studenti (mentre tutti i comunisti adulti verranno fucilati dai tedeschi); la seconda nel 1944 ad opera della Banda Carità, un reparto dei servizi speciali di Firenze noto per la violenza inaudita con cui conduceva le sue azioni di epurazione antifasciste.
Malgrado queste disavventure riuscì a uscire indenne dalla guerra civile e, dopo aver portato a termine la sua esperienza di partigiano, divenne responsabile della Gioventù comunista toscana. Nel 1947 lasciò questo incarico e si trasferì a Castel d’Arquato dove, nel Torrione Farnese, diede vita a un progetto artistico culturale di grande successo che permettteva a Braibanti di dedicarsi alla poesia, alla letteratura, all’arte, alla saggistica filosofica, e alle sue amatissime formiche e termiti.
Nel 1956 venne invitato a partecipare ai lavori dell’VIII congresso del Partito Comunista, ma il suo intervento, molto polemico per via di alcuni aspetti dello stalinismo (l’insurrezione ungherese con la successiva repressione da parte sovietica si era conclusa solo due mesi prima) lo portò ad abbandonare il partito pur mantenendo parecchie solide amicizie con alcuni ex compagni partigiani.
Il “Caso Braibanti”
Trasferitosi definitivamente a Roma nel 1962, Braibanti iniziò a collavorare con un ragazzo di 23 anni che si chiamava Giovanni Sanfratello: il giovane aveva frequentato il laboratorio della Torre Farnese a Castel d’Arquato aveva infatti deciso di trasferirsi anche lui a Roma per abbandonare la famiglia d’origine che era molto chiusa e per continuare la collaborazione con Aldo Braibanti al quale lo legava anche una relazione omosessuale.
Ii 12 Ottobre 1964, Ippolito Sanfratello, padre di Giovanni, sporse denuncia alla procura di Roma contro Aldo Braibanti e, grazie alla connivenza ambigua di un pubblico ministero, lo accusò di plagio. In pratica, accusava Braibanti di aver influenzato il figlio e di avergli imposto le proprie idee e i propri principi.
Durane il mese di Novembre, Giovanni, viene praticamente rapito e portato in una clinica psichiatrica a Modena da cui fu trasferito a Verona dove è stato sottoposto a shock insulinici ed un gran numero di elettroshock prima di venir finalmente dimesso dopo quindici mesi d’inferno, con una serie di limitazioni alla sua libertà personale che andavano dal domicilio coatto in casa dei genitori, al divieto di leggere libri che avessero meno di cent’anni.
Nello stesso periodo Aldo Braibanti veniva arrestato il 5 Dicembre del 1967 e veniva condannato a nove anni di detenzione il 14 Luglio 1968 nonostante la testimonianza favorevole di Giovanni Sanfratello L’accusa, infatti, era riuscita a convincere Piercarlo Toscani un giovane che aveva frequentato Torrione Farnese e che con Braibanti aveva avuto una relazione a fare la sguente dichiarazione: «il Braibanti aveva tentato di introdursi nella mia mente con le sue idee politiche, cioè comunismo in nome di una libertà superiore e ateismo, cominciò ad impedirmi le letture di svago a me usuali. Tali impedimenti non erano su basi di una prepotenza esteriore, ma sulla base di una prepotenza interiore, intellettuale, che è molto più forte dell’altra».
Dopo la condanna, l’intero mondo culturale italiano di sinistra: da Pasolini a Moravia, passando per Eco, Musatti ed Elsa Morante si mobilitò per chiedere l’assoluzione di Braianti, ma l’unico risultato che riuscì ad ottenere fu una riduzione della pena durante il processo d’appello: la condanna venne ridotta da nove a quattro anni, di cui due già scontati e due condonati per la sua attività di partigiano. Nel Dicembre del 2009 Aldo Braibanti esce finalmente di prigione anche se, il 21 Ottobre del 1971, la Corte di Cassazione confermerà la condanna stabilita dalla Corte d’Appello.
Perché anche la Corte di Cassazione considerò colpevole Aldo Braibanti?
La parola plagio è usata in Italia come sinonimo di “lavaggio del cervello”: quest’uso dell’espressione è dovuta alla scelta di inserire nel codice Rocco un articolo (il 603) che, sotto la voce di ‘plagio’, puniva con una reclusione che poteva andare dai cinque ai quindici anni, chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione. Il realtà la stessa parola compariva già nel codice Zanardelli che, senza parlare di “lavaggio del cervello”, puniva con una pena compresa tra i 10 e i 12 anni di reclusione, «chiunque riduce una persona in schiavitù o in un’altra condizione analoga» (art. 145). Le due diverse formulazioni sono importanti perché mentre Zanardelli rimane legato al concetto storico di plagio (legato alla schiavitù fisica), Rocco introduce l’idea che ci possa essere ‘plagio’ attraverso un “lavaggio del cervello”.
Quando la Corte Costituzionale, con la sentenza Grasso dell’8 giugno del 1981, depenalizzerà il reato di plagio, tra le altre cose osserva come questa definizione sia «lacunosa e scarsamente motivata» perchè «usa il termine plagio in un significato del tutto nuovo, diverso da quello dei precedenti codici e in particolare da quello del 1889 e diverso anche da quello originario antico» (stralcio della sentenza della Corte Costituzionale dell’8 giugno 1981).
Nessun’altro era mai stato condannato per plagio: c’erano stati alcuni processi, come quello di un maestro elementare che era stato accusato di aver segregato in casa una ragazzina, ma nel suo caso la Corte di Cassazione ribaltò i giudizi precedenti scagionando l’imputato.
Il fatto è che, dagli atti del processo, emerge chiaramente la natura politica della condanna: si voleva bloccare quella che si credeva un’ondata di ribellione e distruzione delle istituzioni, Il processo Bribanti non era altro che un tentativo di reagire al processo di modernizzazione e di laicizzazione che erano in corso nella società italiana: non ci si deve dimenticare che, proprio in quegli anni era in corso il dibattito legato all’introduzione della legge sul divorzio.
Braibanti è stato dunque un capro espiatorio di chi voleva contrastare le idee che erano emerse durante il movimento del sessantotto. E per chi si riconosceva nella reazione era il capro espiatorio ideale: perché ex comunista ed ex partigiano, perché uomo libero a tal punto da non chiedere aiuto a nessuno né prima né durante né dopo il processo.
Ma, a pensarci bene, c’è anche un altro motivazione che non diede scampo a Braibanti: lui era omosessuale e la sua omosessualità, molto probabilmente, condizionò la vicenda giudiziaria legata all’accusa di plagio. Alcuni sostengono che il suo caso avrebbe portato, l’8 giugno del 1981 alla sentenza con cui la Corte Costituzionale ha abolito il reato di plagio, ma i fatti dimostrano che questa ipotesi non è vera. Sull’argomento, infatti, la corte era intervenuta due volte nel 1978: nel caso di don Emilio Grasso, accusato di aver allontanato parecchi giovani dalle loro famiglie e di aver alimentato un culto esasperato della propria persona; nel caso di Eugenio Siragusa, fondatore del culto ufologico Fratellanza Cosmica.
Sul caso Braibanti non si è mai pronunciata e il 18 dicembre del 1981 viene inoltrata istanza di revisione della sentenza di condanna in seguito alla cancellazione dell’articolo 603 del codice Rocco, la Corte rigetta l’istanza considerandola molto più vicina, rispetto ai casi di don Grasso e di Siragusa, alle ipotesi di plagio prevista dalle norme precedenti al 1930. Per farla semplice, i giudici hanno detto a Braibanti che, anche se non fosse mai esistito l’articolo 603 del codice Rocco, lui sarebbe stato comunque condannato, perché il tipo di plagio di cui era accusato era la forma più vicina alla riduzione in schiavitù di una persona.
Non si può dunque non concludere che Aldo Braibanti non solo è stato vittima della reazione ideologica di una elite intrisa ancora pesantemente di fascismo alle istanze di rinnovamento provenienti dalla società, ma che è stato condannato (ed è morto senza avere la soddisfazione di vedersi riabilitato) per via del suo modo di vivere l’amore, considerata dai giudici un’apologia di quell’omosessualità che, anche nell’Italia che si era finalmente sbarazzata del reato di plagio, creava ancora imbarazzi e veniva ancora vista come qualcosa di scandaloso.
Per saperne di più sul caso Braibanti:
Braibanti Aldo, Le prigioni di stato, Feltrinelli, Milano, 1969
Eco Umberto, Il costume di casa, Bompiani, Milano, 2012 (prima edizione 1973)
Ferluga Gabriele, Il processo Braibanti, Silvio Zamorani Editore, Torino, 2003
Introvigne Massimo, Il lavaggio del cervello, LDC Editore, Torino, 2002
Pini Andrea, Quando eravamo froci, Il Saggiatore, Milano, 2011
Raffo Silvio – Braibanti Aldo, Emergenze, Vicolo del Pavone, Piacenza, 2003
«Felix Cossolo, intervista ad Aldo Braibanti», Lambda IV, n° 20, Gennaio Febbraio, 1979
Rossi Barilli Gianni, Storia del movimento gay italiano, Feltrinelli, Milano, 1999