Gli anni settanta: la nascita del movimento gay in Italia e il cinema
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Scheda di Luciano Ragusa con cui abbiamo parlato della rappresentazione delle persone omosessuali nel cinema italiano degli anni settanta il 13 Marzo del 2016,
“I froci hanno peso quel loro sguardo ferito” (Allen Ginsberg). Il 1968 e il 1969 sono stati, per tutto il mondo occidentale, l’occasione per mettere definitivamente in discussione gli assetti politici, sociali, famigliari, di un mondo che sembrava non essere più in grado di rispondere alle nuove istanze che, soprattutto il cosmo giovanile, ma anche l’universo operaio, prospettavano come futuro possibile.
Le lotte studentesche e operaie, attraverso l’occupazione delle università, gli scioperi e le manifestazioni di piazza, proponevano nuove architetture culturali, lontane dal baronato universitario e distanti dai mezzi di produzione classici del capitalismo. Le nuove domande di libertà colpivano in particolare la sfera della sessualità, ribaltando l’intero sistema di rapporti e relazioni che avevano caratterizzato le vite degli individui: fu soprattutto il movimento femminista a mettere in discussione gli antichi codici di comportamento, aprendo di fatto uno spiraglio percorribile anche per le rivendicazioni LGBT.
Il casus belli si ebbe la notte tra il 27 e il 28 Giugno del 1969, quando un gruppo di poliziotti, guidati da Seymour Pine, fecero irruzione allo Stonewall Inn, un bar gay della Christopher street, con l’intenzione di malmenare, insultare e punire, i frequentatori del locale. Spedizioni punitive di questo genere erano piuttosto frequenti anche perché l’eccesso di machismo nei confronti di omosessuali lesbiche e transessuali, pareva essere la base su cui costruire la carriera di un buon poliziotto.
Questa volta però, quelle che fino ad allora erano state solo delle vittime mansuete, decisero di ribellarsi all’ennesimo sopruso: fuori dal locale accorse una nutrita folla di ‘diversi’ che, stanchi per i continui soprusi della polizia, diedero vita ad una vera e propria notte di guerriglia urbana, costringendo i poliziotti, prima a chiamare rinforzi, e po a ritirarsi dopo ore di battaglia. Sconcertati per l’accaduto, i poliziotti tornarono la notte successiva nel tentativo di impartire una punizione esemplare, ma la comunità LGBT aveva deciso di rispondere a quella sfida difendendosi ostinatamente per due notti consecutive.
Nel frattempo la stampa americana aveva battezzato l’evento come la rivolta di Stonewall e, nella battaglia iniziarono a sostenere gli omosessuali anche alcuni gruppi vicini alla sinistra alternativa. Ad essi si unì la voce del poeta Allen Ginsberg che celebrò l’accaduto con la famosa frase: «I froci hanno perso quel loro sguardo ferito» che ancora oggi viene usata per raccontare in sintesi quello che è successo.
Gli scontri insegnarono che gli omosessuali non erano più disposti a fare da capro espiatorio per nessun tipo di violenza gratuita e che, anzi, proprio grazie a quelle lotte, avevano maturato una nuova consapevolezza che li spingeva a organizzarsi per difendere la propria dignità di individui, scrollandosi di dosso secoli di discriminazione e di vergogna e mettendo da parte definitivamente quell’atteggiamento di falsa umiltà dietro al quale ogni diverso avrebbe dovuto nascondersi secondo la ‘norma’ eterosessuale.
Dal 1970 in avanti, prima nelle città americane e successivamente anche nel continente europeo, il 28 giugno è diventato La giornata dell’orgoglio omosessuale in cui ricordare al mondo la vittoria di omosessuali e transessuali contro la polizia che aveva vestito i panni di simbolo della eteronormatività. Con il passare del tempo la parata del Gay Pride ha iniziato a diventare una manifestazione in cui dare voce alle rivendicazioni che, di volta in volta, la comunità LGBT aveva deciso di portare avanti per migliorare la vita di ciascun dei suoi membri.
Gli anni settanta si aprono quindi con la nascita dei movimenti di liberazione come il Gay Liberation Front negli Stati Uniti d’America, o il GLF inglese, il Front homosexuelle d’action rèvolutionnaire (Fhar) in Francia, il Mouvement homosexuelle d’action rèvolutionnaire (Mhar) in Belgio e il Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano (Fuori!) in Italia.
L’idea di fondo di questi movimenti era quella di mettere la “questione omosessuale” di fianco alle rivendicazioni che venivano portate avanti dalla sinistra radicale: quelle degli studenti, quelle degli operai, quelle delle donne e, negli Stati Uniti, quelle delle minoranze etniche e delle persone di colore.
Microstoria dei primi anni del movimento gay italiano
Se in paesi come la Francia e il Regno Unito erano nati, negli anni cinquanta e negli anni sessanta, dei movimenti omofili che avevano come obiettivo l’integrazione nella società delle persone omosessuali, in Italia, questo precedente, non si era mai concretizzato. Questo comportò una maggiore difficoltà nella nascita di un movimento omosessuale propriamente detto: mancavano infatti quelle esperienze di raccolta fondi o di gestione di testate giornalistiche come Arcadie, pubblicata in Francia tra il 1959 e il 1981.
Tutto nacque nel maggio del 1971, nella casa che Fernanda Pivano aveva in Via Manzoni a Milano. La scrittrice era appena tornata dagli Stati Uniti dove aveva visto come si stessero organizzando i collettivi omosessuali americani e voleva condividere questa sua esperienza con alcuni amici che erano interessati al tema come Angelo Pezzana e Alfredo Cohen, per dare loro alcuni consigli utili su come dare vita a un primo nucleo di attivisti.
Il mese prima, sul quotidiano La Stampa di Torino, era stato pubblicato un articolo intitolato: L’infelice che ama la propria immagine in cui il professor Andrea Romero, primario neurologo dell’ospedale Mauriziano di Torino, recensiva un libro appena pubblicato da Feltrinelli e intitolato Diario di un omosessuale.
L’ autore era Giacomo Dacquino, uno psicanalista cattolico che di nascosto aveva trascritto le sedute di un noto personaggio torinese, omosessuale, che, a detta dell’autore, era stato ‘redento’ all’eterosessualità grazie alle sue cure.
Spinti dalla sfrontatezza con cui D’Aquino sosteneva di aver ‘guarito’ un paziente che, invece, era ancora omosessuale, il gruppetto di omosessuali che si stava incontrando in casa di Fernanda Pivano, aveva deciso di scrivere una lettera al quotidiano torinese per chiarire alcune assurdità del libro di D’Aquino che il professor Romero aveva avvallato.
La lettera, però, non venne pubblicata e Pezzana (che aveva fatto da portavoce al gruppo) si vide recapitare una risposta della redazione in cui si affermava che: «Di certi argomenti si era parlato fin troppo».
Di qui la decisione di far nascere un proprio giornale in cui dare voce ai punti di vista delle persone che stavano sull’altra sponda rispetto ai professori che pretendevano di parlare in loro nome dicendo delle cose false sul loro conto. Si trattava in sostanza di dare vita a un organo che riportasse i punti di vista di lesbiche e gay che nessun mezzo di informazione si sarebbe mai sognato, in quel momento storico, di pubblicare.
Il nome scelto per la nuova rivista fu Fuori! (traduzione in italiano del titolo di una rivista simile, pubblicata negli Stati Uniti con il titolo Come Out!) e quando, in seguito, si decise di dare vita a un movimento, fu una scelta scontata quello di chiamarlo Fuori! e di mutuare dal nome del movimento omosessuale francese decise di assegnare sia al neonato movimento che alla rivista corrispondente, sulla falsa riga del gruppo francese (Front homosexuelle d’action rèvolutionnaire) le parole di cui Fuori! sarebbe diventato l’acronimo: Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano.
Il numero 0 della rivista uscì nel mese di Dicembre del 1971 e venne stampato in quindicimila esemplari che vennero distribuite tutte a mano, non solo per far conoscere il progetto, ma anche per trovare persone disposte a lavorare all’uscita del numero 1 della rivista che uscì nel Giugno dell’anno successivo.
Ma chi erano i ragazzi del Fuori? Al di là dei nomi più o meno noti, tra i quali oltre ai già citati Alfredo Cohen e Angelo Pezzana, si possono ricordare Gianni Vattimo, Myriam Cristallo e Maria Silvia Spolato, quello che si può dire è che avevano tutte le caratteristiche di un collettivo vicino alla sinistra extraparlamentare ed è nella sinistra rivoluzionaria che il gruppo cerca il proprio spazio, affiancando la propria lotta per la liberazione dalla repressione sessuale a tutte le altre istanze di liberazione dalla morale borghese e dall’oppressione prodotta dal capitale.
Questo nuovo soggetto, mutuando molti metodi di analisi dalla lotta femminista, partiva dall’idea che l’unico modo per arrivare a una vera liberazione fosse la pratica rivoluzionaria. Basta dunque con gli incontri clandestini nei parchi, nei cessi, nei cinema o nei bar seminascosti, veri e propri ghetti in cui le “sovrastrutture del potere dominante” costringevano gli omosessuali a vivere clandestinamente la loro diversità. Via anche le distinzioni di genere e di orientamento sessuale, frutto di una castrazione che inizia dalla nascita e che ha come obiettivo quella di mantenere rapporti di potere caratterizzati dall’ingiustizia e dall’oppressione.
Era logico che posizioni così decise alimentassero fin da subito, delle scissioni tra cui la più importante fu senz’altro quella di Elio Modugno, autore de La mistificazione eterosessuale (1978) che, nel 1972, insieme a Gino Olivari, diede vita all’AIRDO (Associazione italiana per il riconoscimento dei diritti degli omofili) che si presentava con un messaggio politico più moderato.
Anche Fernanda Pivano, che nel frattempo aveva collaborato scrivendo parecchi articoli per la rivista Fuori!, nel 1973, si smarcò dal collettivo perché poco convinta dell’eccessiva politicizzazione del gruppo che, intanto, andava incontro a una profonda crisi, legata alle incomprensioni che erano emerse con i gruppi di femministe lesbiche e che portò il collettivo torinese a federarsi con il Partito Radicale (impostando il discorso su una via decisamente più riformista), mentre i collettivi milanesi, influenzati da Mario Mieli, iniziarono ad usare il travestitismo come arma di rivendicazione politica.
Negli anni successivi nacquero diverse altre sigle legate al mondo omosessuale: a Roma, nel 1975, Massimo Consoli creava il Movimento politico degli omosessuali (MPO) mentre a Milano, nel 1976, dalle ceneri del Fuori presero vita i Collettivi omosessuali milanesi (COM). Sempre in quell’anno, su iniziativa del Fuori di Torino nasceva la rivista Lambda (il nome deriva dalla lettera iniziale del verbo greco lùein che significa ‘sciogliere’, ‘liberare’) ma la pubblicazione di una falsa intervista a Marco Pannella in cui si fingeva che il politico radicale avesse fatto coming out portò a uno scontro politico tra Angelo Pezzana, che si dimise dall’incarico di direttore responsabile e Felix Cossolo, a cui era stata affidata la direzione e sancì, di fatto, la fine del sodalizio tra la rivista e il movimento che era nato nel settantuno in casa di Fernanda Pivano.
Al di là delle alterne vicende e delle difficoltà che il Fuori incontro durante la sua esistenza (difficoltà che, a pensarci bene, sussistono anche oggi in un panorama culturale e politico molto più favorevole) è utile raccontare quello che è stato senz’altro il più grande successo che questo movimento ha raggiunto nei primi anni della sua vita e per farlo, ci spostiamo a Sanremo, nella primavera del 1972 dove, il 5 aprile il Centro italiano di sessuologia, un organismo di ispirazione clericale, aveva organizzato un congresso internazionale sulle “devianze sessuali”.
Nel programma erano previsti molti interventi di sedicenti specialisti che intendevano parlare delle cause e delle cure di una malattia chiamata ‘omosessualità’. Alcuni contributi suggerivano delle vere e proprie sevizie, come la “terapia d’avversione”, illustrata dallo psichiatra inglese Philip Feldman, che intendeva curare l’omosessualità delle persone sottoponendo i ‘pazienti’ a scariche provocate da alcuni elettrodi applicati sui polpastrelli, che venivano innescate ogni qualvolta il soggetto che si intendeva curare indugiava più di otto secondi su immagini erotiche che rappresentavano dei maschi (per contro, per provocare un ‘rinforzo’ positivo, non si puniva con alcuna scarica il paziente che, invece, indugiava su immagini erotiche che raffiguravano donne).
O quella di ricorrere all’ipnosi per modificare l’orientamento sessuale, proposta da Jefferson Gonzaga dell’università di San Paolo, che, però, bontà sua, diceva che i tempi di guarigione erano estremamente lunghi, visto che alzuni pazienti che lui curava da dieci anni non erano ancora ‘guariti’. Decisamente più radicali la cosiddetta tecnica di Reder che consisteva nel produrre una lesione in quella zona del cervello che i neurologi chiamano “nucleo ventricolare mediale”.
I militanti del Fuori decisero che era venuto il momento di dire pubblicamente no a questa strumentalizzazione della sofferenza delle persone omosessuali e la mattina del 5 aprile, in occasione dell’apertura del lavori, una nutrita compagine di militanti, accolse i partecipanti a suon di slogan (con gente che ripeteva: «Normali! Normali!» e di cartelli (tra cui va segnalato quello davvero indovinato su cui campeggiava la scritta: «Psichiatri siamo venuti a curarvi!»), inaugurando così la lunga lotta contro l’omofobia che continua anche oggi.
Gli organizzatori del convegno fecero intervenire la polizia che, naturalmente sequestrò il materiale della contestazione e schedò i partecipanti.
Ciò che gli organizzatori non sapevano è che tra le persone che si erano iscritte regolarmente al congresso, c’erano anche dei militanti gay, come Angelo Pezzana, che, quando venne il turno del suo intervento, esordì dicendo una frase che sarebbe rimasta nella storia: «Sono un omosessuale e sono felice di esserlo!». La tre giorni organizzata per far passare l’idea che l’omosessualità fosse una perversione che, per il ben della società, andava vietata e curata, si risolse in una vittoria del movimento omosessuale italiano che dalle cronache di quei giorni ebbe tutta quella visibilità che, fino ad allora, i media italiani, si erano rifiutati di dare.
Forse, a buon diritto, possiamo considerare il congresso del 5 aprile 1972, la vera Stonewall italiana, se non altro perché lasciò intendere, a tutti coloro che si occupavano di omosessualità, che esisteva un interlocutore nuovo e interessato con cui fare i conti: un movimento che aiutava gli omosessuali stessi a vedere con occhi nuovi la loro condizione.
Il versante cinematografico
Le rivendicazioni sociali formalmente aperte dal movimento femminista e dal neonato movimento omosessuale, la lotta degli studenti e degli operai, da un punto di vista cinematografico, fecero degli anni settanta uno dei decenni più fecondi dell’intera storia del cinema italiano, sia in termini di generi che di contenuti.
La possibilità di affrontare argomenti mai trattati prima grazie alla maggior libertà che c’era anche a livello sessuale, stimola registi e sceneggiatori a esplorare situazioni che costituivano un tabù: basti pensare al film Ultimo tango a Parigi (1972) che costò a Bernardo Bertolucci la perdita dei diritti civili per qualche anno. Questa maggiore spregiudicatezza non riguardò soltanto il cinema d’autore, negli anni settanta, infatti, si imposero tantissimi film a basso costo (i cosiddetti B movies) considerati di scarsa fascia qualitativa che fon l’ambiguità del loro linguaggio e con l’ambiguità dei temi che affrontavano, ebbero un ruolo cruciale nel modificare il tessuto connettivo del paese.
Per quanto riguarda i personaggi omosessuali presenti nel cinema di quegli anni, anche se ci sono da registrare alcune significative novità, nella maggior parte delle pellicole, la loro rappresentazione ricalca i luoghi comuni e i cliché del decennio precedente anche se, negli anni sessanta, tutti questi luoghi comuni dovevano fare i conti con la presenza, sul territorio italiano, di un movimento omosessuale che non aveva più paura di esprimere i suoi giudizi. In questa direzione, infatti, è interessante valutare le infinite polemiche che nacquero, nella seconda metà degli anni settanta, tra le Lambda e Fuori!, che partivano da un atteggiamento di fondo molto differente.
C’era infatti chi riteneva la presenza di personaggi gay sul grande schermo comunque positiva, perché utile a far prendere coscienza alla popolazione italiana, dell’effettiva esistenza delle persone omosessuali. Per contro c’era invece chi sosteneva che la rappresentazione cinematografica degli omosessuali e delle lesbiche dovesse essere il frutto di una visione nuova e più corretta dell’omosessualità, depurata da quella tara negativa che costantemente infangava le loro vite.
In pratica non ci fu film che riuscisse a sottrarsi a questa querelle che, con il passare del tempo,, però, diventava sempre più sterile e ripetitiva, perché è un dato di fatto che un film può essere un bellissimo film anche quando propone dei personaggi LGBT che sembrano delle macchiette e che, al contrario, ci siano stati film capaci di dare un’idea non stereotipata del vissuto delle persone omosessuali che, però, avevano debolezze di altro tipo. Il fatto è che l’estrema politicizzazione che aveva assunto il dibattito aveva messo in secondo piano la valutazione l’effettivo valore artistico di un film il cui regista sceglieva di parlare anche di personaggi omosessuali.
Venendo ai film non possiamo che partire dai due registi che, meglio di ogni altro, hanno saputo trasmettere nelle loro opere le loro fantasie omoerotiche. Si tratta di Luchino Visconti e di Pier Paolo Pasolini. Del primo vanno ricordati: Morte a Venezia del 1971 (trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo breve di Thomas Mann); Ludwig del 1973 (in cui vengono narrate le vicende esistenziali del re Ludovico II di Baviera) e Gruppo di famiglia in un interno del 1974 (dove il rapporto tra un anziano professore e un inquilino ha un sapore vagamente omosessuale); Del secondo va certamente ricordata l’intera trilogia della vita: Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972), Il fiore delle mille e una notte che è invece del 1974 (si veda la scheda dell’opera che abbiamo proiettato durante la rassegna che il nostro cineforum ha dedicato a Pier Paolo Pasolini). A queste opere si aggiunge Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) che, con un clima radicalmente diverso, propone diversi intrecci omosessuali.
Per il resto, a fare la parte del leone è sempre la commedia all’italiana, come Sessomatto di Dino Risi (1973) dove in un episodio si narra la vicenda di Cosimo, emigrato dalla Puglia a Milano, che si innamorerà di un travestito che scopre poi essere il fratello Nino, che aveva lasciato il Sud prima di lui; o come La patata bollente. girato nel 1979 da Steno, che, con indubbio coraggio, affronta apertamente la questione omosessuale nel Partito Comunista, proponendo, tra l’altro, personaggi omosessuali che vanno oltre ai luoghi comuni che resistevano ancora in quegli anni.
Bionda fragola (1980), diretto da Mino Bellei è importante, perché senza rinunciare al climax della commedia all’italiana descrive la vita di una coppia dello stesso sesso che vive insieme e che condivide lo stesso appartamento.
Il film che si segnala come il tentativo meglio riuscito di portare dei personaggi omosessuali al centro di una narrazione cinematografica è però Dimenticare Venezia di Franco Brusati (1979) che, con tono decadente e sofisticato, racconta le storie intrecciate di due coppie omosessuali: una formata da due uomini e una formata da due donne. Il fatto che il film sia stato candidato all’Oscar come miglior film straniero è una conseguenza del suo oggettivo valore.
A questi film vanno poi aggiunti: Marcia trionfale di Marco Bellocchio (1976) dove, tra atti d’accusa al mondo militare all’atteggiamento violento nei confronti delle donne trova spazio il racconto di una storia d’amore tra un capitano (Franco Nero) e una recluta (Michele Placido); Ernesto (1979), trasposizione riveduta e corretta nel finale, del romanzo di Saba, diretto da Salvatore Samperi; Al di la del bene e del male (1977) di Liliana Cavani, in cui si dimostra, rievocando il triangolo amoroso tra Nietzsche, Reè e Salomè, come non ci sia posto per l’omosessualità nemmeno in una morale che va “al di là del bene e del male”; Una giornata particolare (1977) diretto da Ettore Scola, dove Mastroianni e la Loren danno vita ad una delle più belle pellicole del cinema italiano, raccontando l’incontro tra un omosessuale e una donna che condividono l’emarginazione.
Non possono infine mancare dal nostro elenco due classici degli anni settanta come Il vizietto (1978), diretto da Edouard Molinaro (apprezzato da molti per la carica di simpatia suscitata dalla coppia composta da Ugo Tognazzi e Michel Serrault e criticato da altri per la presenza di tanti luoghi comuni da avanspettacolo che caratterizzano la vita dei due protagonisti ne caratterizzano la vita) e Splendori e miserie di Madame Royale (1970) di Vittorio Caprioli, con un Tognazzi spesso en travesti che accetta di fare da delatore alla polizia e, una volta scoperto, paga le conseguenze del suo doppio gioco.
Per saperne di più
Giovannini Fabio, Comunisti e diversi. Il PC e la questione omosessuale, Dedalo libri, Bari, 1980.
Mieli Mario, Elementi di critica omosessuale, Feltrinelli, Milano, 2003.
Modugno Elio, La mistificazione eterosessuale, Kaos, Milano, 1991
Rossi Barilli Gianni, Il movimento gay in Italia, Feltrinelli, Milano, !999.
Russo Vito, Lo schermo velato, Baldini & Castoldi, Milano, 1999.