Chi sono gli omosessuali cattolici? Hanno un nome, un volto, una storia?
Riflessioni di Giuliana Arnone* tratte dalla sua tesi di laurea su “Il difficile equilibrio tra azione e contemplazione Strategie di riconoscimento di un gruppo di omosessuali credenti”, Università Ca’ Foscari di Venezia, Corso di Laurea magistrale in Antropologia culturale, etnologia, etnolinguistica, ottobre 2013, pp.10-25
Ho sempre avuto un atteggiamento molto intimorito nei confronti della ricerca sul campo. Forse, in triennale (universitaria), era cresciuto in me un senso di colpa nei confronti del lavoro che mi prefiggevo di fare e che non avevo saputo elaborare. Imprigionata in un ideale antropologico auto-referenziale, nella critica che l’antropologia ha rivolto a se stessa (Clifford, 1993; Clifford, Marcus, 1986: Said,1978; solo per citarne alcuni) in questo incessante ‘mea culpa’ storico, avevo deciso che per nulla al mondo avrei sfidato me stessa, cimentandomi in una ricerca di campo. Nel giugno 2012, tuttavia, mi ritrovai a partecipare al Gay Pride a Madrid e ciò mi portò a cambiare idea., infatti, si conclude, prima della grande festa finale, in una presentazione di tutte le associazioni gay, lesbiche, bisessuali e transessuali presenti sul territorio, che lottano attivamente per dare la dovuta visibilità, soprattutto giuridica, ai propri adepti. Una in particolare, tra tutte queste innumerevoli associazioni, colpì la mia attenzione. La sfilata dell’associazione CRSIMHOM la ‘Asociación de Cristianos y Cristianas Homosexuales de Madrid‘.
Fino ad allora non avevo mai pensato potessero esistere gruppi che si dichiarassero al contempo omosessuali e cattolici. Non avevo mai neanche pensato che due aggettivi come ‘omosessuale’ e ‘cattolico’ potessero abitare una stessa preposizione. La costruzione di un’identità omosessuale e cattolica, la convivenza di due parti della propria identità in apparenza così in contraddizione tra loro mi sembrava un tema che ben rappresentava la varietà e l’eterogeneità di una realtà sociale e culturale che si vorrebbe chiaramente definita. La rivendicazione di queste persone da sempre allontanate, criticate dalla Chiesa, considerate dalla stessa come ‘fratelli minori’, persone per le quali avere compassione, che si ritrovano assieme per tentare di trovare un loro posto nel mondo, una loro visibilità, un riconoscimento sociale.
L’associazione che stava sfilando mi ricordava che non esiste l’omosessualità come categoria che pretende di cristallizzare la varietà e la dinamicità della realtà. Forse le categorie concettuali dovrebbero essere usate con cautela, tenendo conto che esse cercano di imprigionare un’ eterogeneità libera da schemi troppo rigidi. Come afferma Remotti “i concetti dai confini così sfumati […] hanno il pregio di farci capire meglio la complessità del reale per un verso e, per l’altro, la convenzionalità e l’arbitrarietà delle decisioni che assumiamo in merito ai confini” (Remotti, 2008: 106).
Tornata a casa, così, ho avuto modo di educare le domande che, in maniera confusionaria, avevano accompagnato la mia partecipazione al gay pride di Madrid. Non potevo fare a meno di chiedermi: chi sono, quindi, questi omosessuali cattolici? Non hanno un nome, un volto, una storia?
Ho scoperto che anche in Italia esistono gruppi di omosessuali cristiani e che la loro storia inizia trent’anni fa. Che, pur nella diversità dei contesti sociali nei quali sono immersi, hanno tentato di creare, condividere e rielaborare legami di appartenenza e relazioni di sostegno attraverso una lunga negoziazione che ha visto dialogare orientamento sessuale e credenze religiose. Una rete sociale attraverso cui i piccoli gruppi producono materiali culturali e mettono in atto strategie di mobilitazione che rafforzano la loro identità e la loro presenza.
“Una parola ha detto Dio, due ne ho udite” (Salmo 62-12 )
(…) Il motivo per cui ho deciso di scrivere questa tesi e di cimentarmi in questo lavoro è dipeso dalla volontà di indagare le modalità attraverso cui le persone scelgono di rimanere all’interno del mondo cristiano pur essendo omosessuali (O’Brien, 2004). Durante il campo ho cercato così di indagare il rapporto del gruppo (di cristiani omosessuali) con la parrocchia d’appartenenza e con la Chiesa Cristiana e di ricercare le modalità attraverso cui i membri del gruppo Emmanuele (ndr cristiani omosessuali di padova) rivestono di un senso culturalmente rilevante la presunta discontinuità della loro identità cristiana e omosessuale. La domanda che mi ponevo all’inizio, per quanto confusa e poco analitica, si concentrava sul cercare di indagare le strategie culturali – ammesso che ne avessero – che permettessero loro – in quanto gruppo di persone omosessuali cattoliche aventi uno spazio proprio in parrocchia – di negoziare spazi di visibilità e riconoscimento sociale.
Ciò che non potevo fare a meno di chiedermi era: “perché queste persone dovrebbero voler performare il loro status alle parate? Perché dovrebbero sbandierare ai quattro venti la loro identità, anche davanti al resto del mondo queer, andando consapevolmente incontro a forme di rifiuto o esclusione sociale?” (O’Brien, 2004:181, traduzione mia).
Ciò che questo lavoro si propone di analizzare è quindi il rapporto dei gruppi omosessuali cattolici con il contesto sociale di appartenenza, le loro strategie di mobilitazione, la creazione e negoziazione della loro identità alla luce del loro rapporto con il Vaticano e con le parrocchie di appartenenza e la logica del riconoscimento che le sottintende. (…)
Una delle prime idee che vengono in mente quando si pensa agli omosessuali credenti è che queste persone siano soggette a ciò che O’Brien ha definito un ‘doppio stigma’ (O’Brien, 2004:181). Presto la studiosa si rese conto che, nel domandare come vivessero questa forma di doppio stigma, i suoi interlocutori rimanevano turbati. O’Brien scrive: “il primo giro di intervistati mi guardarono confusi. Sì, certo, avevano capito la domanda. Sì, capivano anche che gli altri potessero vedere la cosa in quel modo. Ma semplicemente questo per loro non era ragionevole: ‘La questione non riguarda lo stigma, riguarda il vivere una contraddizione che definisce chi sono” (ibidem:181, traduzione mia)
La studiosa ha sviluppato la tesi secondo cui la contraddizione tra cristianità e omosessualità è una tensione che porta alla formulazione di specifiche espressioni storiche di religiosità queer. Queste espressioni sono manifestate nelle identità individuali e nelle pratiche (come, ad esempio, nelle congregazioni cristiane di omosessuali credenti) e nei discorsi ideologici, teologici e dottrinali (ibidem:182). Si tratta dunque di capire come le personalità dissidenti affrontino l’esclusione sociale (Yip, 2005). Essi non solo tentano di difendersi dagli attacchi della chiesa, ma sono anche impegnati a costruire uno spazio di rafforzamento della loro identità.
Dillon (1999) sostiene che nonostante la condanna della chiesa le persone omosessuali credenti continuano a voler rimanere all’interno dell’istituzione e manipolano e reinterpretano dottrine e pratiche cristiane per poter essere inseriti. Essi mettono in moto delle strategie attraverso cui allontanare il cattolicesimo dalla autorità della gerarchia ecclesiale. Usano quindi la loro autonomia interpretativa per appropriarsi delle risorse simboliche del cattolicesimo e riformularle in modo da affermare la validità del cattolicesimo gay (ibidem :115).
Johnson, a questo proposito, scrive: “[gli omosessuali credenti] vogliono essere inseriti nell’album di famiglia della fede’ (Johnson, inYip, 2005:166). Essi quindi lottano per dare riconoscimento alla loro omosessualità e al loro cattolicesimo. Nonostante avvertano il loro essere omosessuali e cattolici come qualcosa di naturale (ossia come non scelto), scelgono di cercare una strada che possa integrare entrambe le identità e che possa finalmente emanciparli” (Dillon,1999: 130).
(…) ‘Una parola ha detto Dio, due ne ho udite’, è una frase del Salmo 62 molto significativa, che sentii dire alla pastora valdese Lidia Maggi durante un convegno al quale partecipai nel maggio 2013. Siamo abituati a un linguaggio che definisce, incasella, naturalizza una realtà di cui non cogliamo la dinamicità.
La voce della Bibbia, come ci disse la pastora, invece, è al plurale, lo sguardo è lontano dall’essere monolitico. Il linguaggio della Bibbia è poetico. Allude, evoca, ‘allarga’. Bisognerebbe allargare il proprio campo sintattico, lasciare che esso si apra a nuove possibilità. È stata la necessità di saper ascoltare una parola plurale a guidare, quindi, questa ricerca.
* Giuliana Arnone si è laureata all’Università Cà Foscari di Venezia in Antropologia culturale con una tesi dal titolo “Il difficile equilibrio tra azione e contemplazione Strategie di riconoscimento di un gruppo di omosessuali credenti” (ottobre 2013) ed ha conseguito il dottorato in Studi Storici Geografici e Antropologici all’Università di Padova con una ricerca etnografica riguardante la realtà di LGBT cristiani in Italia intitolata “Tutta una questione di riconciliazione: uno sguardo etnografico sui percorsi di riconoscimento del movimento LGBT cristiano in Italia” (2016). Ha curato per il Forum Italiano dei cristiani LGBT la ricerca “Rapporto 2016 sui cristiani Lgbt in Italia” (settembre 2016) ed ha scritto con Paola Coppi e Pasquale Quaranta il capitolo intitolato “Una testimonianza: gruppi LGBT e Chiese nell’Italia contemporanea” contenuto nel volume “Tribadi, sodomiti, invertite e invertiti, pederasti, femminelle, ermafroditi… Per una storia dell’omosessualità, della bisessualità e delle trasgressioni di genere in Italia” a cura di Umberto Grassi, Vincenzo Lagioia, Gian Paolo Romagnani, Edizioni ETS, Pisa, 2017.