Harriet Tubman, il Pride e le tensioni razziali. Dove siamo arrivati, quanta strada c’è ancora da fare
Riflessioni di padre Bryan Massingale* pubblicate sul sito dell’associazione LGBT cattolica New Ways Ministry (Stati Uniti) il 14 giugno 2020, liberamente tradotte da Silvia Lanzi
Si racconta una storia su Harriet Tubman, la famosa schiava fuggitiva nera diventata “conduttore” della Underground Railroad (Ferrovia Sotterranea) che aiutò centinaia di schiavi fuggiaschi a trovare la libertà.
La storia racconta perché portasse una pistola durante le sue missioni. Quando ormai stava per morire, qualcuno le chiese quanto spesso l’avesse usata per difendersi da chi cercava di riportare gli schiavi ai padroni e dai cacciatori di taglie. Si dice che avesse risposto, con un luccichio negli occhi, che la pistola non fosse per i cacciatori di taglie, ma per i fuggitivi.
Aveva spiegato che il viaggio verso la libertà era lungo, pieno di difficoltà e di pericoli, di incertezze e paure. E a volte accadeva che qualcuno volesse arrendersi e ritornate al luogo famigliare che aveva lasciato, ma facendo ciò avrebbe messo qualcun altro in pericolo, compromettendone il cammino verso la libertà.
Era a quel punto che Harriet spianava la sua pistola dicendo “Vivrai libero o morirai!” e lo costringeva a proseguire anche se era terrorizzato. Una volta intrapreso il cammino verso la libertà, non avrebbe mai permesso loro di tornare indietro.
Nella prima lettura della liturgia di oggi vediamo gli Israeliti dopo la loro liberazione dalla schiavitù e la traversata del Mar Rosso. Ma tra l’Egitto (schiavitù) e la terra promessa (compimento) c’era “il deserto”: un luogo di vulnerabilità, paura e incertezza. Ed essi vagavano ansiosi, insicuri di quando o dove il viaggio sarebbe finito.
Più e più volte borbottarono e si lamentarono: “Vogliamo tornare indietro. Era più facile in Egitto. Sapevamo cosa aspettarci. La vita era più semplice. Qui potremmo morire”.
Più e più volte Dio li spronò. Non con una pistola, ma con il cibo: la manna, un pane misterioso che li sosteneva giorno per giorno. Ogni giorno ne mandava la “giusta porzione”, abbastanza per mantenerli saldi sulla via della libertà e del compimento della promessa. Questa “giusta porzione” giornaliera assicurava loro che, anche in quelle terre desolate, Dio era vicino. Era il suo modo di dire che, una volta sulla strada della libertà, non si poteva più tornare indietro.
Penso a queste storie sacre mentre celebriamo il Corpus Domini, la festa del Corpo e del Sangue di Cristo durante questo mese del Pride. È un tempo di celebrazione, gioia e riflessione sulle vittorie a caro prezzo. E c’è così tanto di cui essere grati. Personalmente, appartengo ad una generazione che non avrebbe mai immaginato di vivere in tempi come questi:
• un tempo in cui i nostri legami sentimentali sono riconosciuti e protetti dalla legge;
• un tempo in cui possiamo servire apertamente ed orgogliosamente nelle forze armate;
• un tempo in cui la nostra storia può essere insegnata e studiata nelle scuole e nelle università;
• un tempo in cui possiamo correre per la presidenza con al fianco il nostro coniuge gay.
I tempi in cui viviamo sono veramente sbalorditivi. Abbiamo molto di cui essere orgogliosi e rendere grazie. Ma, per molti versi, siamo ancora come un popolo nel deserto, che viaggia ancora tra pericoli e incertezze:
• in troppi Stati non siamo ancora legalmente protetti dalla discriminazione sul lavoro o nella ricerca di una casa;
• siamo ancora licenziati dal posto di lavoro in strutture ecclesiastiche, nonostante anni di comportamento esemplare e di generoso servizio;
• il nostro amore è ancora pubblicamente denigrato da troppi preti e vescovi, che lo usano come pretesto per evitare di accompagnarci spiritualmente nella sofferenza;
• molti preti, seminaristi e religiosi regolari vivono vite velate, temendo di essere conosciuti pubblicamente per come Dio li ha fatti;
• moltissimi giovani vivono di nascosto dalle proprie famiglie, o per la strada, perché i genitori ne rifiutano la sessualità e l’identità di genere;
• per troppi adolescenti queer la scuola è ancora un ambiente pericoloso, che mette a dura prova il loro sviluppo intellettuale e dove temono per la propria incolumità;
• e anche adesso, troppe persone queer vivono con la paura degli abusi e il terrore della morte, specialmente chi è nero, di colore, donna trans o tutte queste cose insieme.
Siamo ancora in una terra desolata; non siamo ancora giunti alla liberazione. Ad essere onesto, come i miei antenati neri e credenti, a volte siamo tentati di tornare in “Egitto”, ad una vita nascosta, a rifugiarci nelle certezze protettive che offre, ad ammutolire le nostre voci e ridimensionare la nostra “favolosità” per essere approvati e accettati. A “starci dentro comodi”. A essere come tutti gli altri.
(Lo ammetto. La vita era più semplice prima che sapessero che ero un prete gay. Non mi è stato mai revocato un invito per una conferenza, non sono stato mai chiamato prete “neg*o – o “f*ocio” – dai difensori della fede fai-da-te – che sembrano dimenticare che i comandamenti i più importanti sono quelli sull’amore. Ci sono periodi in cui l’“Egitto” appare molto confortevole.)
Adesso potreste aspettarvi che, con una bella virata, parli dell’Eucarestia come della nostra “manna,” la nostra forza per continuare il nostro cammino di liberazione attraverso il deserto. Ma questo è il mese del Pride e siamo in tempo di pandemia, dove pochi di noi, troppo pochi, possono accostarsi all’Eucarestia.
Abbiamo bisogno allora dell’intuizione di Paolo della seconda lettura della liturgia di oggi: NOI siamo il Corpo di Cristo! Siamo NOI ad essere chiamati ad essere la “giusta” porzione di nutrimento per sostenerci, aiutarci ed amarci sulla strada verso la libertà.
“Noi, sebbene molti, formiamo un solo corpo” scrive Paolo. Nella nostra cura e nel nostro amore reciproco diventiamo manna vivificante – la presenza di Cristo, la sua incarnazione – che ci mantiene saldi nel nostro viaggio verso la libertà. Ci aiutiamo l’un l’altro ad essere testimoni di autenticità personale e agenti di giustizia sociale. Diventiamo segni della presenza di Dio tra noi.
La metto sul personale. Le ultime due settimane sono state molto difficili: ho dovuto fare i conti con le mie emozioni traboccanti per i recenti linciaggi di persone nere: avrei potuto essere io. Avevo a che fare con tutto questo mentre ero sotto i riflettori e dovevo rimanere “professionale”, come ho già detto. Perché una cosa del genere non dovrebbe sorprendere in una nazione ligia ai privilegi e ai vantaggi dei bianchi.
Domenica scorsa, dopo la celebrazione privata dell’Eucarestia, ero esausto. L’omelia era ripresa da quella di un giovane prete episcopale apertamente gay, che ha concluso la sua riflessione con le parole “Black lives matter” (“le vite nere contano”).
Per la mia anima è stato come “un balsamo di Gilead”, questo atto di solidarietà da parte di un uomo gay e bianco, il quale riconosce apertamente che anche le vite dei neri sono vite gay. E che le vite nere sono sacre. Le sue parole sono state la mia manna, quell’“abbastanza” per sostenermi nel percorso verso la liberazione, la giustizia ed uno sviluppo armonioso per tutti.
Siamo chiamati ad essere manna – il Pane della Vita – l’uno per l’altro. Ci aiutiamo vicendevolmente a credere nella sacralità dei nostri corpi e del nostro amore, e così diventiamo il corpo arcobaleno di Cristo, il Corpus Domini, sostentamento anche nel deserto. Ecco come celebriamo il Pride mentre siamo ancora sulla strada verso la libertà.
* Il post di oggi è scritto da padre Bryan Massingale, professore di teologia e titolare della cattedra James and Nancy Buckman di etica cristiana applicata alla Fordham University di New York. Sacerdote apertamente gay, Massingale ha scritto e predicato estesamente sulla giustizia razziale e anche su argomenti LGBTQ. Nelle ultime settimane è stato una delle principali voci cattoliche che hanno risposto alla serie di uccisioni di cittadini afroamericani che hanno mobilizzato il movimento Black Lives Matter.
Testo originale: Harriet Tubman, Pride, and Black Lives Matter: How Far We’ve Come, How Far We Have to Go