I fatti di Caivano e la Chiesa: urge riconciliazione
Riflessioni di Massimo Battaglio
Torniamo sui fatti di Caivano. Una ragazza, Maria Paola Gaglione, è stata uccisa dal fratello che non digeriva la sua relazione con Ciro, un ragazzo trans. La notizia sta giustamente galvanizzando l’opinione pubblica. Anche il parroco del problematico quartiere è stato tirato in ballo e anche la sua opinione sta facendo discutere. Gli ho scritto così:
<< Caro don Maurizio Patriciello, Sei conosciuto come un prete di frontiera, sempre dalla parte del suo popolo che è un popolo di poveri che tentano faticosamente di levare la testa. Le tue azioni a Caivano ci hanno riportato spesso a riflettere su quanto sia necessario lavorare per l’uguaglianza, fare giustizia, praticare il Vangelo.
Quando ti sei espresso a proposito dell’omicidio di Maria Paola, avevi, sicuramente, come sempre, queste preoccupazioni. Di fronte a quelli che il Paese sta ormai derubricando come “i fatti di Caivano”, tu hai invitato a pensare innanzitutto ai protagonisti. Ci sono due famiglie, genitori e figli, già segnate da esistenze non facili. C’è un ragazzo che sta lottando con la consapevolezza di essere diventato improvvisamente un assassino, anzi, un fratricida. E c’è una madre che ha sempre cercato di fare il proprio dovere e che ora si trova a gestire un doppio dolore. Non basta: c’è anche la famiglia di Ciro, che, a quanto so, è sempre stata molto vicina alle vicende non banali del figlio. E c’è Ciro stesso, col suo braccio al collo, che sta cercando di dire il suo pezzo di verità.
Sono persone che occorre innanzitutto rispettare e poi capire prima di giudicare. Come dici tu, l’urgenza, questo è il momento di “rimanere accanto e confortare coloro che soffrono”. Almeno: questo è ciò che ho capito dal tuo intervento su Avvenire. L’ho letto con attenzione, così come ho ascoltato attentamente il video della tua intervista rilasciata all’ANSA.
Vedi però, don Maurizio
C’è una differenza notevole tra le parole pacate che hai scritto sul giornale dei vescovi, e quelle che hai pronunciato di fronte alle telecamere. Comprendo che due mass media erano diversi e che riprendere da un giornalista armato di cinepresa è piuttosto difficile. Ma ne hai dette veramente di ogni tipo!
Andiamo con ordine.
Nell’articolo di Avvenire hai accusato Arcigay di pressapochismo: “Paola di anni non ne ha 22 ma 18”, hai esordito. Ma nel video, di parole facili, ne hai usate parecchie anche tu. Per esempio, per quattro minuti hai continuato a chiamare “Cira” il ragazzo superstite. E’ l’emozione? O anche tu non riesci proprio a digerire che alcune persone sono trans e si identificano nel genere opposto e non possono sopravvivere altrimenti? Succede – anche a Caivano – e dobbiamo fare attenzione.
Hai insistito che Paola e il suo compagno avevano fatto scelte pericolose come quella di andare via di casa ma “non avevano un lavoro e una fonte economica a cui attingere”. Dici che la famiglia era molto preoccupata per questo. Insisti che questo era il motivo per cui il fratello Michele stava cercando di riportare la ragazza a casa.
Ma cosa può aver spinto una ragazza “appena diciottenne” ad andare via di casa senza un progetto preciso nè le risorse per metterlo in atto? Voglia di trasgressione? O piuttosto un clima tutt’altro che accogliente generatosi in seguito alle sue scelte amorose?
Ho sentito anche le parole di Ciro e mi pare di aver capito che le cose siano messe proprio così. D’altra parte, lo stesso Michele ha dichiarato che la sorella era stata “infettata”. Non sono propriamente parole di accoglienza, insomma…
Dici: “se sia omofobia o non omofobia, non lo so”. Ma allora, che cos’è l’omofobia, se non il rifiuto della persona omosessuale e transessuale? Di questo passo, sembra che tu finisca per sostenere che l’omofobia non esiste. E non è un bel sostenere. Significa negare che il male esiste.
Tu dici che i genitori di Paola “non erano preparati”. E in effetti non mi sembra che, intorno a sè, avessero avuto molte occasioni per “prepararsi”. Tu stesso parli dell’omosessualità come un “problema”, di fronte al quale “c’è chi è più intollerante e chi lo è di meno”, come se tutto andasse bene, tutto fosse legittimo. So che non volevi dire quello ma è ciò che si capisce.
Aggiungi che i genitori, “lentamente, si stavano abituando all’idea”. Di nuovo: accogliere ed abituarsi sono due cose diverse, come tu sai molto bene. C’era qualcuno che li stava aiutando in un percorso di accoglienza? Dagli esiti, non si direbbe o sembrerebbe che li stesse aiutando piuttosto male. Almeno: è innegabile che un retaggio patriarcale inaccettabile non fosse ancora stato scalfito.
E’ infatti inaccettabile che un ragazzo di venticinque anni si permetta di distogliere la sorella maggiorenne dalle sue scelte solo perché non le condivide. Ed è mostruoso che, per raggiungere i propri scopi, compia un’azione che sa benissimo poter essere letale come un inseguimento col motorino. Ancora più mostruoso è che, incurante della presenza della sorella morta sulla strada, la sua prima preoccupazione sia di fraccare di botte il suo fidanzato.
Questo è avvenuto, caro don Maurizio. E con tutta la comprensione possibile, con tutta la pietà e con il massimo carico di rispetto che possiamo metterci su, non ci si può stupire se la reazione di tutti è l’indignazione.
In particolare, non ci si può stupire dell’indignazione di Arcigay e in particolare della sua presidente Daniela Lourdes Falanga. E’ coinvolta emotivamente come te, se non di più, dal momento che ha vissuto e vive in prima persona tensioni molto simili, e sta facendo una fatica identica alla tua per svolgere il suo ruolo di vicinanza mantenendo la calma.
Penso che questa vicenda ti insegnerà che è necessaria una riconciliazione su più livelli. Uno, faticosissimo, tra le due famiglie; un altro, enorme, tra Caivano e l’Italia e i temi dell’omosessualità. Un altro ancora sarà il livello di riconciliazione tra te e Arcigay Napoli, che spero possa diventare seme per una riconciliazione più grande, tra la Chiesa tutta e le persone omosessuali e transessuali.
Riconciliarsi non significa far finta di volersi bene. Significa fare di più che pura giustizia, comunque necessaria. Vuol dire demolire pregiudizi, abbattere barriere. Ed è urgente perché il contrario, aAlzare ulteriori muri difensivi oltre i muri già poderosi che ci dividono, è stupido e porta solo ad altro sangue. Per cui, caro don Maurizio, ancora una volta, metticela tutta. Anche se la tua gente di Caivano “non è preparata”. Ci prepareremo insieme, con l’aiuto dello Spirito Santo >>