I femminielli che fecero la Resistenza
Articolo di Luigi Mastrodonato pubblicato su L’Espresso il 27 Settembre 2018.
“Quando scoppiarono le insurrezioni, i femminielli scesero in strada sparando al fianco di noialtri. Si trattava di maschi omosessuali travestiti da donna, presenti a decine nel quartiere dove erano soliti riunirsi in un terreno nella zona di Piazza Carlo III”.
Antonio Amoretti è probabilmente l’ultimo partigiano ancora in vita ad aver combattuto durante le Quattro Giornate di Napoli. Quel lontano 27 settembre del 1943 scoppiò una delle insurrezioni più dure e gloriose della storia recente della città, che andò avanti per quattro lunghi giorni e portò alla liberazione di Napoli dai nazifascisti un giorno prima dell’arrivo degli Alleati. Il campo d’azione di Amoretti era proprio l’area di Piazza Carlo III, nel quartiere San Giovanniello, oggi un susseguirsi di maestosi ed eleganti palazzi dove spiccano bar, alberghi e negozietti. La strada è quella che dall’Aeroporto di Capodichino conduce al centro città, il che rende il quartiere un punto di transito per migliaia di pullmann, taxi e auto. Quello che oggi è un crocevia nevralgico nella viabilità cittadina nel 1943 è stato però un luogo simbolo per la sopravvivenza della Napoli come la conosciamo ora.
La rivolta fu l’ultimo capitolo di settimane di esasperazione per le esecuzioni, i saccheggi e i rastrellamenti portati avanti dagli occupanti nazisti. Una misura straordinaria del Prefetto intimava la chiamata al servizio di lavoro obbligatorio per tutti i maschi di età compresa fra i 18 e i 33 anni. Su 30mila napoletani rispondenti ai criteri stabiliti, si presentarono solo in 150 e le forze tedesche iniziarono i rastrellamenti per scovare gli ammutinati. Madri e mogli scesero in strada fronteggiando gli occupanti così da ostacolare i nazifascisti e proteggere i loro figli, mariti e amanti. Ci furono però altri protagonisti nelle barricate di alcuni rioni, San Giovanniello in particolare. I femminielli, figure tradizionali della cultura urbana napoletana e in qualche modo gli ‘antenati’ del futuro movimento LGBT.
Una definizione esaustiva di femminiello viene data nel 1983 da Pino Simonelli e Giorgio Carrano in Masques, Revue des Homosexualités. “I femminielli sono uomini che vivono e sentono da donna: abbigliati e truccati da donna. Spesso prostitute ma non necessariamente: ogni vicolo ha il suo femminiello accettato dalla comunità”. Definiti gli antenati dei transgender, i femminielli erano una comunità che non rispondeva alle logiche della moderna transessualità, che non faceva uso di ormoni e chirurgia estetica e non rivendicava particolari diritti politici e civili, e che possedeva un’identità di genere che si discostava dalle aspettative sociali dettate dal genere maschile.
“Ricordo molto bene questo gruppo di persone che si distinse al nostro fianco nella lotta per liberare Napoli dal nazifascismo” mi spiega Antonio Amoretti, oggi Presidente dell’Anpi di Napoli. L’associazione è da alcuni anni impegnata nel lavoro di ricostruzione storica del ruolo dei femminielli nei combattimenti di quei giorni.
Accanto a lei, l’Arcigay di Napoli, attraverso il Presidente Antonello Sannino: “Quando ci fu la barricata a San Giovanniello i femminielli erano in prima linea, secondo la logica che non avevano niente da perdere: non avevano figli, la famiglia li aveva ripudiati e la società li rispettava culturalmente ma comunque entro certi limiti” mi spiega. “Abituati a fronteggiare la polizia e il potere, i femminielli non si tirarono indietro davanti all’occupazione nazista”.
Il coraggio dei femminielli è ben rappresentato dalla storia di Vincenzo. Ai tempi quarantenne, vendeva sigarette, cibo e fazzoletti mentre la sera si prostituiva in strada. “Lo chiamavano Vincenzo ‘o femminiello ed era un vero e proprio boss del rione San Giovanniello, nel senso buono del termine” mi racconta Rosa Rubino, transessuale oggi ultrasettantenne molto amica di Vincenzo e cresciuta sotto la sua ala protettiva.
“Ci ha raccontato più volte della sua partecipazione alle Quattro Giornate, del suo contributo nell’ergere le barricate per non far entrare i tedeschi nel quartiere”. Rubino ricollega il protagonismo del suo amico nell’insurrezione al ruolo che Vincenzo aveva nel quartiere. “Era una presenza fissa in strada, un punto di riferimento e questo spiega perché durante un momento così forte come le Quattro Giornate fosse in prima linea nei combattimenti”. Vincenzo fu anche tra i protagonisti, 40 anni dopo, delle proteste rionali contro l’abusivismo edilizio post-terremoto dell’Irpinia.
Questa presenza costante dei femminielli nelle dinamiche storiche urbane napoletane li ha resi tra i protagonisti della realtà antropologica locale. A confermarlo è Paolo Valerio, professore di Psicologia Clinica all’Università Federico II di Napoli, Presidente della Fondazione Genere Identità Cultura e studioso dei femminielli. “Il fatto che nella lingua napoletana sia stato inventato un termine, femminiello, che altrove non esiste è sintomatico dell’importanza di questa figura nella cultura urbana e nell’antropologia locale” mi spiega. “E’ un po’ il corrispettivo dei Ladyboys in Thailandia o dei Muxè del Messico. Napoli si è contraddistinta come una città che ha consentito a queste persone di potersi manifestare più liberamente e di ritagliarsi persino un ruolo sociale – curare anziani e bambini oltre alla più classica prostituzione”.
Durante le Quattro Giornate, la presenza di decine di femminielli nelle strade impegnati a combattere gli occupanti nazisti va ricondotta a diverse cause, tra cui la prostituzione. Molti femminielli intrattenevano relazioni clandestine con gli uomini dei rispettivi rioni, dunque il loro interventismo va letto in parte nella stessa accezione delle donne che scesero in piazza per ostacolare le deportazioni forzate dei loro mariti nei campi di lavoro tedeschi.
Il protagonismo dei femminielli viaggiava poi di pari passo con il mero spirito di sopravvivenza. “Rifiutati dalla famiglia, difendevano sè stessi e il loro terraneo” continua Sannino, che sottolinea come l’occupazione nazista della città, con i coprifuochi che ne derivavano, si scontrava con la quotidianità rionale dei femminielli, soffocandone abitudini e costumi e dunque l’esistenza stessa.
Il contributo in termini numerici che i femminielli diedero in quelle quattro giornate di insurrezione urbana fu modesto, ma non irrisorio. “Erano qualche decina quelli che hanno combattuto con noi nel quartiere” ricorda ancora Amoretti. “Certo, a riunirsi nel loro terraneo di fronte all’ex cinema Gloria erano molti di più, ma comunque c’era una buona rappresentanza della loro comunità a combattere al nostro fianco”.
Tutti questi elementi sono rimasti nascosti per lungo tempo. Il protagonismo dei femminielli nelle Quattro Giornate sta però emergendo oggi tanto attraverso i racconti orali delle persone più anziane, comprese quelle appartenenti alla comunità LGBT napoletana del dopoguerra, quanto attraverso le fonti scritte provenienti dai diversi archivi nazionali e locali – l’archivio dell’associazione nazionale partigiani e quello dell’istituto campano della resistenza in particolare. Gli esponenti della comunità femminiella napoletana di quei tempi sono peraltro tutti deceduti oggi, il che complica il lavoro di ricerca. “E’ rimasta solo una persona” mi spiega Sannino, “nel 1943 aveva una decina di anni, ma fino a ora è stato impossibile parlare con lui”. Andrea – nome di fantasia – crebbe nel rione San Giovanniello e fin da piccolo frequentò la comunità omosessuale divenendo poi lui stesso un femminiello. Oggi, ormai ultraottantenne, percepisce ancora quello stato di assedio frutto di decenni di discriminazioni e non vuole condividere i suoi ricordi sul ruolo che la sua comunità ebbe in quei quattro giorni di insurrezione popolare.
Il contributo dei femminielli alla liberazione della città non venne minimamente celebrato, nemmeno a guerra finita. Solo l’anno scorso l’ex assessora per le pari opportunità di Napoli, Simona Marino, ha citato tra i protagonisti della rivolta “donne, omosessuali e femminielli” – in una lettera inviata al Presidente della Repubblica per l’anniversario dell’insurrezione.
L’attivismo bellico dei femminielli contribuì comunque ad affermarli ancor di più come protagonisti antropologici di certi quartieri napoletani. “Dopo l’insurrezione i femminielli continuarono a essere presenti nel rione San Giovanniello, come e più di prima, con le loro cerimonie nel terraneo” mi racconta Amoretti. Con le loro usanze, i loro costumi e i loro punti d’incontro, il ruolo dei femminielli nella quotidianità rionale napoletana è rimasta forte fino agli anni ’70-’80. Poi le trasformazioni urbanistiche e sociali, le conseguenze micro-locali della globalizzazione e lo sviluppo di nuove forme espressive e culturali legate al mondo LGBT hanno messo in ombra un gruppo protagonista della realtà sociale napoletana. Questo non ha però intaccato l’eredità che i femminielli hanno lasciato alla città.
Oggi sono circa 3mila i transessuali che abitano a Napoli, e sebbene si ripetano episodi di transfobia e discriminazione, la predisposizione di servizi sociali ad hoc come consultori, punti di ascolto e case di accoglienza, così come l’attivismo politico di alcuni di loro, raccontano bene quella che è una città che ha imparato nel corso dei secoli a essere più open-minded. La rivolta contro i nazisti del 1943, con eterosessuali e femminielli che combatterono fianco a fianco, fu in effetti una delle principali lezioni di integrazione nella storia contemporanea italiana. Questo, peraltro, in un momento storico caratterizzato da confino, violenze e eccidi contro omosessuali e transessuali.
“Il fatto che oggi Napoli abbia una delle più ampie comunità transessuali d’Europa e sia una delle città più gay friendly d’Italia è soprattutto il frutto della storia dei femminielli” spiega orgoglioso Sannino. L’eredità femminella lasciata alla storia della città non si ferma però qui e il Presidente dell’Arcigay Napoli ci tiene a sottolinearlo: “Senza il contributo delle donne e dei femminielli, alcune zone di Napoli come le conosciamo oggi non ci sarebbero più” conclude. “Sarebbero state rase al suolo nel 1943”.