“I figli di nessuno” vittime dell’omotransfobia
Riflessioni di Fabio Trimigno del Gruppo Zaccheo, cristiani LGBT e i loro familiari di Puglia
Mi chiedo se in questo periodo di quarantena non vi è mai passata per la testa l’immagine di un Gesù che spezza il pane davanti ad un PC per un’ultima cena organizzata online; o una Lavanda dei piedi con una videochiamata su WhatsApp con otto partecipanti, perché di più non si può; o la buona novella della Resurrezione lanciata su Instagram da alcune donne amiche; o una video escursione di gruppo sulla strada di Emmaus postata su Facebook, con debita distanza l’uno dall’altro, mascherine sul volto e autocertificazioni compilate e piegate in tasca.
E’ tutto così strano, ma in verità è un’iperbole di quello che è realmente accaduto nelle nostre vite: si sta sfiorando la follia in questi mesi. Perché accettiamo che questa follia da quarantena sia possibile e facciamo fatica ad accettare l’amore folle di Dio per noi?
Gesù porta con sé un non so che di potente, affascinante ed irresistibile, un qualcosa che ci fa sentire ancora più uniti nonostante le distanze e le follie da pandemia: sono le ore 11.00 e noi del Gruppo Zaccheo Puglia siamo quasi tutti online. Ci si riunisce ormai da tre mesi tutte le domeniche per meditare sul Vangelo, e questa volta con noi c’è anche padre Alfredo dei Camilliani.
In questo giorno in cui le nostre preghiere sono rivolte alle vittime dell’omotransfobia, in cui non ci stanchiamo a denunciare ogni tipo di discriminazione, proprio in questo giorno l’evangelista ci ricorda: “Non vi lascerò orfani: verrò da voi” (Gv 14,18). Noi che spesso siamo orfani delle proprie famiglie, orfani di madri e padri, orfani di una comunità parrocchiale, orfani a scuola, orfani a lavoro, orfani a tavola tra un primo e un secondo, orfani la sera a letto, orfani al mattino, orfani nel cuore, noi che spesso ancora ci sentiamo figli di nessuno, proprio a noi oggi Gesù ci dice che non ci lascerà mai più soli: così che la VI Domenica di Pasqua diventa la Domenica della Promessa, una promessa che trasuda della paternità di Dio.
“Ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga in voi per sempre, lo Spirito della verità” (Gv 14,16-17).
Ci viene consegnato un farmaco, anzi un medico, una persona viva che ci cura: lo Spirito Santo, il primo medico che guarisce il cuore umano.
Il Paraclito, l’avvocato, il difensore che scende sugli orfani e sui dispersi, sugli smarriti e sugli oppressi, sui convulsi di spirito e i paralizzati dell’anima, sugli ultimi e sui figli di nessuno, “Infatti uscivano spiriti impuri e molti paralitici e storpi furono guariti” (At 8, 7).
La parola di Dio viene a dare pace ai nostri spiriti impuri, alle nostre frenesie, alle nostre agitazioni, alle nostre convulsioni personali e allo stesso tempo viene a sbloccare tutto ciò che è paralitico e storpio in noi, viene a liberarci dalle nostre apatie, da tutto ciò che è infermo e depresso in noi.
Non può che venirci in mente l’Unione Europea che nel 2007, a seguito ad alcune dichiarazioni di autorità polacche contro la comunità Lgbt, istituì la giornata contro l’omofobia in cui il Parlamento Europeo ribadiva e approvava la condanna agli atti discriminatori chiedendo “alle gerarchie di condannarli” (art.10) e “di garantire libertà di circolazione per tutte le persone nell’Unione europea senza discriminazioni” (art.8)
Mi viene da sorridere se si pensa che solo dopo 2000 anni ci siamo resi conto che questi principi il Vangelo li aveva già approvati, “se mi amate, osserverete i miei comandamenti” (Gv 14,15).
E il comandamento più grande è proprio quello che si basa sull’uguaglianza “che vi amate gli uni gli altri come io ho amato voi”, tanto da poter sognare di circolare liberamente così come si è, tanto da poter vivere in libertà sotto quell’azione del Paraclito che ci rende membra dello stesso corpo, di un solo corpo, pur lasciando intatta la nostra unicità e diversità.
Volgiamo il nostro sguardo ai comandamenti di cui parla Gesù e ci rendiamo conto che non sono imposizioni ma insegnamenti. Nel comandamento solitamente c’è un “io” imperativo e un “tu” passivo che negano ogni possibilità di un rapporto dialogico. In un insegnamento invece c’è un maestro ed un discepolo, c’è un padre che si mette in ascolto del figlio, c’è una madre che porge il seno al suo bambino, c’è un “io” che non pretende ma protende ad un “tu” che si sforza di imparare con i propri tempi, con le proprie fragilità, con i propri carismi, con la propria storia di uomo e di donna, senza avere il timore di sbagliare, e che se anche sbagliasse ritroverebbe davanti a sè un maestro paziente, misericordioso ed incoraggiante.
Gesù può anche non esserci nel nostro oggi, possiamo anche far fatica ad incontrarlo e a vedere il suo volto nelle nostre vicende quotidiane, ma abbiamo la certezza della sua presenza nei suoi insegnamenti.
La sua parola diventa accessibile a tutti, anche a chi non ha fede. La sua parola diventa missione proprio come per gli Apostoli.
E proprio il racconto degli Apostoli risulta essere una narrativa accattivante e piena di episodi, una letteratura missionaria: i primi tentativi di vita di una Chiesa primitiva che ha provato lo stigma della discriminazione e della persecuzione. I discepoli lasciano Gerusalemme per raggiungere terre lontane, conoscere nuovi dialetti, scorgere nuovi volti, entrare a contatto con popoli sconosciuti, conoscere nuove culture e tradizioni: gli Atti degli Apostoli raccontano il raggiungimento delle diversità. Pertanto la persecuzione, la discriminazione e il senso del rifiuto diventano per noi cristiani lgbt la ragione della speranza che deve abitare dentro ognuno di noi.
Una scrittrice trasgender, Giovanna Vivinetto, scrive in un suo libro “Si dice che le anime orfane vaghino di notte in cerca delle anime madri”. Questa giornata non può costituire un impegno fermo e costante solo per le istituzioni, ma deve diventare un impegno per tutta la società, per tutta la comunità cristiana, e per la nostra Chiesa, anima madre.
Se il mondo oggi ricorda questo è bene allora che lo si porti davanti a Dio, nelle veglie, nelle preghiere, perché la prima maniera per evangelizzare è pregare.
La preghiera è sempre uno slancio nobile verso l’alto, è sempre un uscire da sé per andare verso l’altro. Restiamo uniti in Cristo perché possiamo ogni giorno non sentirci figli di nessuno e anime orfane, ma figli di Dio, figli di un’anima padre.