I Gruppi di credenti omosessuali. Incontrare gli altri per trovare se stessi
Riflessione di Domenico Pezzini tratta da Acqua di fonte, n.23 del Febbraio 1997
E’ dall’inizio degli anni ottanta che in Italia dei cristiani omosessuali si sono riuniti in gruppi che sono stati e sono luoghi di accoglienza, di confronto, di elaborazione di un’etica del comportamento per la quale dai catechismi e dai professori di morale non è venuto mai un grande aiuto.
Da quando la loro esistenza è venuta in vario modo alla luce, tali gruppi sono stati spesso oggetto di varie accuse nel mondo cattolico e sulla stampa che lo rappresenta.
Si è detto che non giovano agli stessi omosessuali, perché funzionerebbero in modo perverso confermando nel soggetto una tendenza che invece andrebbe sradicata: chi ragiona così evidentemente sopravvaluta il peso del gruppo e sottovaluta l’autonomia del soggetto, per non parlare della discutibilità del progettato “sradicamento” della tendenza.
Si è detto anche che di fatto non aiutano l’omosessuale ad avere un rapporto equilibrato con gli altri, perché lo chiudono in un ghetto, e se mai, alimentano un comportamento schizofrenico. Per l’esperienza che ne ho posso tranquillamente smentire tali paure, soprattutto la terza, che è l’unica che meriti veramente di essere presa sul serio. Quello che avviene, infatti, è esattamente il contrario.
L’omosessuale isolato, che vive nella paura e nella clandestinità, arriva facilmente a cadere nell’equivoco che tutto quello che non funziona nella sua vita di relazione sia imputabile alla sua omosessualità e al rifiuto degli altri: da qui il rischio di un sistematico atteggiamento di “vittimismo” da una parte, o al contrario di “esibizionismo” provocatorio, il che davvero può creare un circolo perverso che non gli permette di costruire relazioni sane e autentiche.
In questi casi l’omosessualità funziona da alibi, da ombrello che copre carenze relazionali, difetti di carattere, umoralità mal controllata, e tutta una serie di difetti che creano infelicità. Quando stando in mezzo ad altri omosessuali, in un ambiente di confronto dove la persona emerge per quello che è e per quello che ha da dare, l’omosessuale si accorge che i suoi difetti e i suoi disagi rimangono, comincia a pensare che il guaio non sia l’omosessualità, ma che il problema sta in lui e che tocca a lui risolverlo, senza colpevolizzare la “società”, e senza delegare ad altri l’uscita o meno dal tunnel.
Per fare questa operazione di lucidità su se stessi serve dunque un ambiente accogliente, che è cosa ben diversa dall’ambiente corrivo o complice. Alla Fonte (n.d.r. il gruppo di credenti omosessuali fondato a Milano da Don Pezzini) non si parla sempre e comunque di omosessualità, anzi! Noi mettiamo al centro la persona nella sua verità, che comprende ricchezze e difetti, meraviglie e miserie.
Il condividere una condizione psico-affettiva non significa che si sia tutti uguali: se mai qualcuno arriva con simile illusione, la perde in fretta. L’essere un gruppo di omosessuali permette certo di dare per note e condivise alcune cose, ma questo non elimina niente di ciò che fa di ogni persona una realtà unica e originale.
Si è detto più volte che il gruppo funziona come “scuola di relazioni”, esattamente come una famiglia, dove le diversità devono imparare a convivere e ad apprezzarsi reciprocamente. “Nel gruppo ho imparato a diventare tollerante”, disse una volta uno di quelli della prima ora.
E in effetti la forza e il valore del gruppo si misurano proprio, come in ogni buona relazione, nella capacità che ha il gruppo, attraverso quelli che lo compongono, di gestire e superare gli inevitabili conflitti che sorgono tra persone magari anche un po’ più suscettibili di altre.
L’accoglienza non è necessariamente compito solo di un gruppo di cristiani omosessuali, luogo per altro di grande efficacia, se funziona.
Al di là del gruppo, che non può e non deve diventare mai l’unica realtà in cui la persona omosessuale sta bene, penso principalmente ad altri due ambienti più naturali e più diffusi dove si deve fare pratica di accoglienza: la famiglia e la parrocchia, forse più la seconda della prima, per il fatto che l’ambiente qui è, o dovrebbe essere, più largo e articolato, senza quei condizionamenti emotivi che a volte rendono molto difficile il discorso in famiglia.
Questo comporta, per esempio, che al catechismo, a partire da quando si affronta il discorso sulla sessualità, ci sia spazio anche per un discorso sull’omosessualità, non, come a volte si dice, come una “semplice variabile” della sessualità, quasi che fosse una civetteria facoltativa, ma semplicemente perché è una condizione che esiste, che ha una sua dignità, un suo percorso vocazionale, e perché è del tutto probabile che tra i ragazzi e le ragazze dell’oratorio ci sia qualcuno che è omosessuale, e che non deve essere costretto ad andar via per l’ottusità del prete o per le barzellette idiote dei compagni.
Sulla famiglia c’è pure un lavoro importante da fare. Le reazioni più normali davanti a un ragazzo o una ragazza che dichiara in casa la propria omosessualità (e accade sempre più spesso) sono il panico e il rifiuto, il senso di colpa davanti a quello che si tende a leggere come fallimento educativo, e il corrispondente tentativo di correre ai ripari, chiamando lo psicologo o il prete, o chiudendo al ragazzo tutte le uscite.
Per l’esperienza che ho, penso di dover dire che c’è ancora un gran lavoro di “illuminazione” da fare. Sembrerà impossibile, ma c’è ancora chi pensa che tutti gli omosessuali siano vistosamente effeminati, chi confonde omosessuale con transessuale, chi collega l’omosessualità con la prostituzione e l’AIDS, o semplicemente con la pedofilia.
Occorre anzitutto tranquillizzare, lasciando perdere la ricerca del “dove ho sbagliato”, o l’atteggiamento di chi fa finta di non vedere. Penso che quando un giovane arriva a dire ai suoi che è omosessuale di solito ha già fatto un percorso di autoaccettazione, normalmente non indolore, e che va almeno preso sul serio, nel senso che quello che si può fare è un cammino di comprensione reciproca, nel desiderio, onesto da ambedue le parti, di far chiaro e di capire. Ogni altra reazione è sterile.
Conoscersi e parlarsi, nella franchezza e nella semplicità: questo resta il nostro progetto. Il “ghetto” non è proprio il nostro ideale: ce ne sono già troppi nella nostra società! Ci pare necessario un momento in cui, tra “uguali”, prendere coscienza della propria identità e aiutarsi a farla maturare in modo positivo. Ma questa resta una fase tra le altre nel cammino di crescita che ognuno deve percorrere.
Più in là – speriamo presto, ma abbiamo già cominciato – noi vorremmo trovarci con amici e famigliari per raccontarci e cercare insieme come diventare “persone” capaci di relazioni sane e feconde. Sarebbe comico, o patetico, pensare di realizzare tale ideale chiudendosi a riccio solo tra uguali, o presunti tali.