I matrimoni gay nell’ottocento prima del matrimonio gay
Articolo dello storico Jim Down* pubblicato sul sito del mensile The New Yorker (Stati Uniti) il 2 luglio 2020, liberamente tradotto da Innocenzo Pontillo
Nel 1842, un tribunale di Lancaster, in Inghilterra, condanò un giovane avvocato, George Baxter Grundy, per aver falsificato un pagamento e lo inviò prontamente a scontare una condanna a quindici anni “oltremare”, alle Bermuda.
L’Impero britannico si stava espandendo rapidamente ed aveva un disperato bisogno di manodopera; quando Grundy arrivò lì, migliaia di prigionieri erano già stati inviati sull’isola per fortificare le difese britanniche in Nord America, trasportando e tagliando pietre per realizzare le fortificazioni militari. Era un sistema in cui gli uomini, molti dei quali sudditi irlandesi, venivano strappati dalle loro case, spediti a migliaia di chilometri di distanza e consegnati ad anni di lavori forzati in una terra straniera, il tutto per sostenere la costruzione dell’impero. (In un certo senso, gli uomini alle Bermuda avrebbero potuto considerarsi fortunati infatti se fossero stati mandati nella colonia penale della Tasmania, avrebbero avuto poche speranze di tornare a casa).
I detenuti vivevano su una manciata di navi, chiamate “hulk”, che erano permanentemente ormeggiate nel porto. Ogni nave ospitava centinaia di uomini; il giovane avvocato Grundy, come gli altri detenuti, viveva con altre cinquanta persone in una cella affollata. Il lavoro era straziante e le condizioni di vita brutali. Poco dopo il suo arrivo il suo arrivo, la febbre gialla travolse l’isola, così vide morire oltre cento prigionieri.
Grundy trascorse sei anni e mezzo alle Bermuda; quando tornò a casa, a Londra, descrisse la sua esperienza in una lettera di denuncia che inviò all’Ufficio Coloniale, in cui definì questa esperienza come “distruttiva per l’anima e la più infernale, tra quelle concepite dall’uomo”.
Nella sua lettera, Grundy accusò anche l’amministrazione penitenziaria di: comminare pene gravi e disumane; che i responsabili e le guardie erano spesso “colpevoli di ubriachezza, dissolutezza, bestemmia e furto” e dell’assenza di un’assistenza religiosa e morale per i detenuti. Affermò che il chirurgo non si prendeva cura dei malati affidatigli e che le guardie permettevano ai detenuti di lavorare illegalmente anche in aziende private.
Ma tutta la forza del suo disprezzo la riservò ai suoi compagni di prigionia. A metà del suo racconto, si scusò per quello che stava per rivelare così raccontò come, sulle navi prigione, il sesso tra uomini non solo fosse tollerato, ma vissuto in bella vista.
Scrisse “Sono pronto a dimostrare che crimini innaturali e azioni bestiali vengono commessi quotidianamente a bordo delle navi prigione”.
Grundy raccontò di come, poco dopo essere arrivato alle Bermuda, vide due uomini impegnati in “azioni indecenti” nel bel mezzo del giorno. Li aveva immediatamente segnalati agli ufficiali. I due uomini – Samuel Jones e Burnell Milford – furono accusati di “essere stati trovati in una posizione “che offendeva le leggi di Dio”. “Gli furono date ventiquattro scudisciate ciascuno e gli fu sospesa la paga”. “Essendo all’epoca un nuovo carcerato, ho pensato che avrei dovuto essere sostenuto”, scrisse Grundy. “Ma così non fu”. I detenuti si vendicarono con lui. Lo ostracizzarono e minacciarono di metterlo “a dormire” (ndr di ucciderlo). Si sentiva anche non protetto dalle guardie carcerarie a cui, sosteneva, non piaceva che avesse esposto ad uno scandalo la gestione della nave prigione”.
Quello che era successo tra Jones e Milford, imparò Grundy, non era stato un incidente isolato: “l’abominevole peccato” era praticato “a tal punto”, scrisse, che molti dei detenuti “se ne vantano”. Sottolineava che non si trattava solo di sesso: gli uomini si riferivano alle loro relazioni come a dei matrimoni. La pratica era così comune, secondo il suo racconto, che il “matrimonio” era la regola piuttosto che l’eccezione: “se non sono ‘sposati’ è fuori moda”. Nel suo racconto, almeno un centinaio di uomini a bordo delle navi prigione alle Bermuda avevano partner dello stesso sesso che consideravano coniugi.
Oggi, l’istituzione ufficiale del matrimonio omosessuale è ancora agli inizi: negli Stati Uniti giugno (2020) ha segnato il quinto anniversario della sentenza della Corte Suprema che ha fornito alle coppie omosessuali il diritto legale di sposarsi. Quella decisione, che ha fatto seguito alla legalizzazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso nel Regno Unito, nel 2014, è stata una vittoria mozzafiato: il riconoscimento di un popolo e di una cultura a lungo non riconosciuti dalla legge. Ma faremmo bene a ricordare anche che le persone queer si consideravano sposate, molto prima che lo Stato approvasse i matrimoni tra persone dello stesso sesso.
I detenuti sulla nave-prigione di Grundy, privati dei loro diritti fondamentali, esiliati dalla loro patria, abusati dai funzionari e dalle guardie dell’amministrazione carceraria adottarono la lingua del matrimonio, in un tempo in cui anche la sola attrazione sessuale (tra due uomini) poteva causare una punizione brutale.
Storicamente, i documenti giudiziari riguardanti le indagini penali sulla sodomia, offrono la prova più dettagliata dell’esistenza delle persone queer. Ma, come ha sostenuto lo storico Charles Upchurch, in “Before Wilde: Sex Between Men in Britain’s Age of Reform“, questi documenti forniscono prove limitate.
Durante l’era vittoriana infatti la punizione più grave per chi praticava l’omosessualità sarebbe avvenuta in famiglia, non nei tribunali, poiché una relazione (omosessuale) pubblica avrebbe rischiato di rovinare la reputazione della famiglia e l’avere un figlio o un fratello in prigione avrebbe intaccato il patrimonio familiare. Il sesso tra uomini non significava automaticamente esilio permanente o impiccagione pubblica, perchè la maggior parte delle famiglie preferiva tacere su queste cose.
L’epica promessa dei voti nuziali
I detenuti delle Bermuda, che vivevano lontano dalle loro famiglie, non erano più legati a queste usanze. Vedevano come i funzionari coloniali approfittavano del fatto di vivere lontano dal controllo sociale e dai codici religiosi; i soldati e i funzionari britannici violentarono e schiavizzarono le donne in tutti i Caraibi, stabilendo una nuova serie di regole non scritte di cui raramente si trova traccia nei registri ufficiali. Nelle colonie, le questioni di sessualità quasi mai erano segnalate dalla burocrazia ufficiale.
La lettera di Grundy, sepolta all’interno di un fitto libro mastro di documenti del Colonial Office custodito negli Archivi Nazionali Britannici, è una rara eccezione. Trovare un documento ufficiale che descriva il sesso queer all’inizio del XIX secolo è molto insolito. (Fu solo alla fine del XIX secolo, quando le parole “omosessuale” ed “eterosessuale” furono inventate come categorie mediche, emersero prove dell’esistenza di ciò che potremmo indicare come una comunità gay.)
Gli storici hanno trovato esempi di persone che usavano i termini “matrimonio”, “marito”, “moglie” e “coniuge” per definire relazioni queer nel XVIII e nel XIX secolo e anche prima. Jen Manion, nel suo libro “Female Husbands: A Trans History“, fornisce alcuni esempi, ma questi erano di solito casi isolati.
A febbraio, un ricercatore di Oxford annunciò di aver scoperto il diario di un contadino del 1810 che descriveva con tolleranza l’attrazione verso le persone dello stesso sesso.
La lettera di Grundy descrive in modo sorprendente una cultura dell’intimità tra persone dello stesso sesso, che coinvolgeva dozzine di uomini, che fiorì per anni.
La coercizione, sorprendentemente, è assente dal racconto di Grundy. Ciò non significa che la violenza sessuale non abbia avuto luogo sulle navi prigione. Senza le testimonianze degli altri prigionieri, è impossibile saperlo definitivamente.
Ma ciò che sembra far infuriare di più Grundy è il mutuo consenso che egli vede. Gli uomini a bordo delle navi prigione crearono un intero insieme di rituali e valori culturali, in cui la parola “matrimonio” non fu solo una parola usata per giustificare il sesso, ma un termine che indicava la devozione che li univa.
Quando ai detenuti più anziani fu offerta l’opportunità di guadagnare soldi extra come calzolai, cuochi e servi, spesso usavano i loro guadagni per fare regali ai loro partner. Gli uomini più anziani avrebbero “fatto ogni sforzo per procurare [ai loro partner], il maggior numero possibile di cose buone di questo mondo”, e sarebbero “incorsi in tutti i tipi di rischi per loro”. Alcuni uomini sono morti di fame in modo che i loro partner avessero “avuto molto di più”. Hanno lavato i vestiti dei loro partner più giovani e hanno gareggiato l’uno con l’altro per dimostrare “chi poteva sostenere e vestire meglio il suo ragazzo”.
La storia dei detenuti riecheggia quella di altre persone che all’inizio nell’Ottocento presero in prestito il linguaggio del matrimonio per descrivere relazioni che il governo non avrebbe riconosciuto ufficialmente.
Le persone di colore schiavizzate negli stati Uniti del Sud si definirono sposate, nonostante fossero escluse dall’istituzione legale del matrimonio. Nel suo libro “Bound in Wedlock: Slave and Free Black Marriage in the Nineteenth Century“, Tera Hunter include un resoconto di Thomas Jones, un uomo precedentemente schiavo in Carolina del Nord che afferma: “L’abbiamo chiamato e lo abbiamo considerato un vero matrimonio, anche se sapevamo bene che il matrimonio non era permesso agli schiavi, se non come un diritto segreto del cuore che ama”.
Le persone queer, specialmente prima della fine del XIX secolo, sono per lo più assenti dai registri ufficiali e le loro vite raramente sono raccontate.
Quando gli investigatori dell’ufficio coloniale visitarono le Bermuda per fare un’indagine ufficiale sulle lamentele di Grundy, non riuscirono a far confermare a nessuno il suo racconto, il che non deve sorprendere, date le gravi punizioni che sarebbero stata inflitte a tutte le persone coinvolte. Le accuse vennero respinte.
Secondo la lettera originale di Grundy, per le autorità osservare il silenzio su quanto accadeva era più conveniente. “Non sembrano sapere nulla su ciò che accade”, scrisse, “Ma la verità è che non vogliono sapere.”
Questo desiderio di non sapere ha reso invisibile agli storici gran parte della storia della sessualità queer. Ma, anche con delle fonti storiche così limitate, non è difficile, leggendo la lettera di Grundy, immaginare come il matrimonio (gay) possa aver conferito un senso di umanità e normalità alla vita dei detenuti, come fosse un modo per dare un senso alla loro fatica infinita e avesse creato un nuovo mondo tra coloro che erano stati banditi dalla società.
Si potrebbe persino immaginare i loro auto-proclamati matrimoni come l’affermazione di un diritto, ovvero di sentirsi inclusi in un’istituzione che non li avrebbe accettatati ancora per quasi due secoli.
* Jim Downs è professore di storia americana ed è l’autore del saggio“Stand by Me: The Forgotten History of Gay Liberation”, editoreUniversity of Georgia Press, 2020, 278 pagine
Testo originale: The Gay Marriages of a Nineteenth-Century Prison Ship