I nuovi cardinali. Pastori pro gay e in dialogo con il mondo
Articolo di Giovanni Panettiere pubblicato sul Blog Pacem in Terris il 10 gennaio 2015
Per la chiesa, che definisce , papa Francesco snobba ancora ‘i medici’ di Curia e continua ad affidarsi a quelli delle periferie. Se l’anno scorso, su sedici nuovi cardinali elettori, scelse solo quattro vescovi di Curia, questa volta Bergoglio, in vista del suo secondo concistoro del 14 febbraio, si è superato. Ha ‘sfornato’ quindici porporati, provenienti da quattordici paesi diversi, con un unico curiale, l’attuale prefetto della Segnatura apostolica, monsignor Dominique Mamberti. Un’investitura quasi forzata data la natura di supremo tribunale della Santa Sede della stessa Segnatura.
Bocciati anche a questo giro i presidenti dei pontifici consigli monsignor Vincenzo Paglia (Famiglia), monsignor Rino Fisichella (Nuova evangelizzazione), monsignor Claudio Celli (Comunicazioni sociali) e monsignor Zygmunt Zimowski (Salute). Dei dodici attuali pontifici consigli si sa che sono oggetto di studio da parte del G9 vaticano e in futuro potrebbero essere accorpati fra loro in due macro aeree: Famiglia-laici e Giustizia-carità. Nel frattempo la riforma spirituale dei palazzi vaticani, per il Papa più urgente di quella strutturale, è lontana dal realizzarsi, Francesco lo sa, ne soffre e, con l’ultima consegna delle berrette rosse, scuote una volta di più la Curia di cui, poco prima di Natale, ha snocciolato a viso aperto i mali. Quindici come i nuovi cardinali.
La prassi ecclesiale ci ha abituati a considerare la porpora come il sigillo di una carriera ecclesiastica approdata al vertice di una delle ‘diocesi che contano’. Di qui la dizione di ‘sedi cardinalizie’ per quelle Chiese locali tradizionalmente rette da vescovi-cardinali.
Convinto che il contrasto al carrierismo nel popolo di Dio passi anche e soprattutto dalle nomine nel Sacro collegio, Bergoglio archivia una logica del passato. Lo aveva lasciato intendere al suo primo concistoro, lo ha esplicitato settimana scorsa. Nell’ottica del Pontefice ‘preso dalla fine del mondo’ il cardinalato non è uno scatto di gradi, ma un servizio in più che si chiede a chi sta dando un taglio pastorale al proprio ministero anche in diocesi cosiddette minori.
Chiedete a monsignor Franco Montenegro (Agrigento), volto simbolo della Chiesa di fronte al dramma di Lampedusa, e a monsignor Edoardo Menichelli (Ancona), fra i discepoli del cardinale Achille Silvestrini, entrambi ammessi in conclave.
Di contro, Francesco ha lasciato ancora una volta a bocca asciutta – anche Benedetto XVI nel suo ultimo concistoro del 2012 passò oltre – le sedi prestigiose di Venezia (patriarca Francesco Moraglia) e Torino (arcivescovo Cesare Nosiglia), abituate nei secoli a vestire rosso porpora.
Le difficoltà dell’episcopato italiano di sposare in toto la sensibilità del Papa sono più che risapute, ma queste due mancate nomine non autorizzano a pensare a una penalizzazione delle diocesi tricolori. Tutt’altro.
Se in Italia tradizionalmente sono nove le sedi cardinalizie (Milano, Torino, Genova, Bologna, Venezia, Firenze, Roma, Napoli e Palermo), al netto delle bocciature in Laguna e sotto la Mole e considerando gli inediti di Perugia (l’arcivescovo Gualtiero Bassetti), Agrigento e Ancona, ora si contano dieci cardinali diocesani elettori. Ovvero uno in più rispetto all’ordinario.
Ma spulciamo un po’ i profili dei quindici porporati scelti dal Pontefice per il suo secondo concistoro. Ben otto pastori arrivano da Chiese che non hanno mai avuto cardinali: oltre ad Ancona e Agrigento, David, Valladolid, Morelia, Tonga, Santiago de Cabo Verde e Yangon. Senza contare il francese di Curia, Mamberti, sono europei i due vescovi italiani, il patriarca di Lisbona, monsignor Manuel Clemente, più moderato del predecessore, il progressista José Policarpo (deceduto), e monsignor Ricardo Blázquez Perez (Valladolid), vicino ai neocatecumenali, tornato alla guida dell’episcopato spagnolo dopo ‘il regno’ del conservatore Antonio María Rouco Varela.
Solo un paio gli africani che entreranno in Cappella sistina. E c’è già chi ricorda la forte opposizione al sinodo sulla famiglia dei vescovi del Continente nero su divorziati risposati e omosessuali, due temi sui quali Francesco sembra caldeggiare un approccio più misericordioso.
I neo cardinali sono l’arcieparca di Adis Abeba (Etiopia), il lazzarista Berhaneyesus Demerew Souraphiel, e monsignor Arlindo Gomes Furtado, vescovo di Santiago de Cabo Verde (Arcipelago di Capo Verde). Biblista il secondo, al timone di una piccola Chiesa di rito orientale, staccatasi nel 1622 dall’ortodossia. Il primo, Souraphiel, in consonanza con Francesco, ha a cuore il dramma dei migranti e rigetta la ‘cultura della scarto’. Così si espresse al sinodo sull’Africa del 2009: .
Dei tre centro-sudamericani della quindicina monsignor Alberto Suárez Inda, arcivescovo di Morelia, arriva dal violento Stato di Michoacán (Messico). Due anni fa fu il primo vescovo del paese a celebrare messa con in rito antico in una cattedrale dopo la liberalizzazione di Benedetto XVI (motu proprio Summorum pontificum, 2007).
Nel Collegio cardinalizio entra anche l’agostiniano vescovo di David (Panama), monsignor José Luis Lacunza Maestrojuán, dal Papa preferito al presidente dell’episcopato locale, al pari del terzo latinos della rosa, monsignor Daniel Fernando Sturla Berhouet. Salesiano e arcivescovo di Montevideo (Uruguay), l’anno scorso Sturla balzò alle cronache internazionali per aver chiesto scusa a gay e lesbiche per le ferite arrecate loro dalla Chiesa.
Un altro neo cardinale sensibile alla causa omosessuale è monsignor John Atcherley Dew, arcivescovo di Wellington (Nuova Zelanda), scelto a sorpresa da Bergoglio che, per quell’area geografica, ha lasciato fuori dal prossimo conclave l’ordinario di Sydney. Quel monsignor Anthony Colin Fisher tradizionalista come il suo predecessore, il cardinale George Pell, ora ministro dell’Economia in Santa Sede.
Al recente sinodo sulla famiglia Dew si è mostrato favorevole a una pastorale più aperta nei confronti delle unioni gay. L’altro fresco porporato dell’Oceania è l’arcivescovo di Tonga, monsignor Soane Mafi, classe 1961: è lui ora il più giovane porporato del Sacro Collegio.
Nutrita la pattuglia degli asiatici (tre), a dimostrazione del fatto che il Papa, in procinto di partire per le Filippine e lo Sri Lanka, intende valorizzare un continente in cui il cattolicesimo è in espansione, senza dimenticare la Cina con la quale vuole riallacciare quanto prima.
Il 14 febbraio calzeranno così la berretta rossa il salesiano Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon (Myanmar), in prima linea sul fronte della riconciliazione in un paese ancora sotto il giogo della dittatura militare, monsignor Francis Xavier Kriengsak Kovithavanij, arcivescovo di Bangkok (Thailandia), e monsignor Pierre Nguyên Van Nhon, arcivescovo di Hanoi (Vietnam). Propugnatore di una Chiesa aperta a tutti (intervista a Radio Vaticana, 10 gennaio 2015), Kovithavanij è presidente dei vescovi amici dei Focolarini, mentre Van Nhon nel corso degli anni ha dovuto subire l’accusa, da parte degli oltranzisti cattolici, di ‘collaborazionismo’ con il regime socialista, perché ha sempre evitato lo scontro frontale con le autorità civili.
Sul nodo spinoso della tutela dei beni ecclesiastici, il presule asiatico è convinto che questa vada declinata senza antagonismo, ma dimostrando sempre che le proprietà della Chiesa sono a servizio del bene dell’intero popolo vietnamita. Van Nhon, un ‘pastore della pazienza’, non certo un guerriero come il suo predecessore, monsignor Giuseppe Ngo Quang Kiet.