I sacerdoti dovrebbero cominciare a mettersi in ascolto delle coppie omosessuali
Riflessioni di padre Louis J. Cameli* pubblicate sul sito del settimanale gesuita America (Stati Uniti) il 14 aprile 2021, liberamente tradotte da Giacomo Tessaro, parte prima
Tutte le denominazioni cristiane hanno difficoltà con le questioni LGBT; che si tratti dell’ordinazione ai vari ministeri, o della normale partecipazione alla vita della propria Chiesa, le questioni concernenti i cristiani LGBT stanno minacciando l’unità di molte comunità ecclesiali. La Chiesa Cattolica non fa eccezione, come possiamo vedere dalle reazioni a seguito del responsum della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla benedizione delle coppie omosessuali, ma nella nostra Chiesa la lotta si svolge, in maniera particolarmente intensa, a livello parrocchiale.
Consideriamo questa situazione: una donna, che si ritiene lesbica e che ha stretto matrimonio civile con un’altra donna, si presenta per ricevere la Santa Comunione. Il suo parroco sa del suo matrimonio: dovrebbe concederle il sacramento? Molto dipende da come il sacerdote considera il suo ruolo: deve facilitare il passaggio attraverso la porta, o deve fare il guardiano?
I sacerdoti della prima categoria, che di solito sono di una certa età e di atteggiamento più liberale, sono inclini a concedere il sacramento a chiunque ne faccia richiesta. Se invitati a fornire una giustificazione teologica al loro atteggiamento, si rifaranno probabilmente all’inclusività e alla misericordia, due cose che hanno un saldo fondamento evangelico. I guardiani, invece, si preoccupano dell’integrità dei sacramenti, del sincero impegno personale [a vivere il Vangelo] e del pericolo di scandalo, tutte cose che hanno anch’esse un saldo fondamento nei Vangeli.
Queste due categorie di sacerdoti, di solito, non hanno contatti tra loro. Invece dovrebbero, perché in ciascun punto di vista c’è della saggezza. Ma i sacerdoti delle due categorie continuano a tenersi a distanza gli uni dagli altri.
Permettetemi di dire qualcosa che di solito non viene considerato quando si parla di questi argomenti. Tutti i sacerdoti dovrebbero parlare con le persone LGBT con cui si trovano faccia a faccia di fronte all’altare, e che vogliono partecipare alla vita sacramentale della Chiesa. Solo venendo a conoscenza delle loro esperienze, delle loro lotte e delle loro aspirazioni i ministri potranno servirle in maniera adeguata, e magari servirle bene.
Secondo me, la maggior parte dei sacerdoti dei due schieramenti tende a pensare a questo problema in modo teorico, e a suddividere le persone in categorie, perdendo così di vista gli esseri umani in carne e ossa affidati a loro. Anche i pastori attenti agli individui, in ogni caso, devono affrontare importanti questioni teologiche e pastorali.
Misericordiosi e fedeli
I sacerdoti che danno la Comunione a chiunque devono considerare certe problematiche complesse in maniera più critica, vale a dire il duro e sincero processo di discernimento indicato da papa Francesco, in particolare nella Amoris laetitia. Il discernimento è un compito esigente, e questa categoria di sacerdoti deve prenderlo sul serio.
La mia riflessione, tuttavia, si concentrerà maggiormente sui sacerdoti che negano la Comunione e sui loro scrupoli, perché penso che sia questo atteggiamento a porre più domande in questo momento delicato della vita della Chiesa.
Chi nega la Comunione probabilmente vuole essere misericordioso e sensibile, ma anche fedele. Faccia a faccia, di fronte all’altare, con la donna che ha contratto un matrimonio omosessuale, vuole fare la cosa giusta per lei, ma vuole evitare anche di compiere un gesto pericolosamente fuorviante, che potrebbe dare scandalo.
Potrebbe essere incline a negarle il sacramento, secondo quanto è scritto nel Canone 915: “Non siano ammessi alla sacra comunione gli scomunicati e gli interdetti, dopo l’irrogazione o la dichiarazione della pena e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto”.
Le parole importanti per noi sono “in peccato grave manifesto”. Il sacerdote deve decidere se la donna si trova effettivamente in peccato grave manifesto (evidente), vale a dire in una situazione oggettiva di peccato: non deve esprimere un giudizio sul suo soggettivo senso del peccato, né potrebbe farlo.
In quanto pastore, il sacerdote deve anche prendere in considerazione l’impatto che avrebbe sulla comunità la Comunione concessa a quella donna. Darebbe scandalo? Infrangerebbe la dottrina? Sarebbe chiudere un occhio sulla situazione peccaminosa della donna? Di fronte a questi dubbi e preoccupazioni, il sacerdote guardiano, che vuole fare le cose nel modo giusto di fronte al sacramento, di fronte alla Chiesa e anche alla donna stessa, probabilmente deciderà di negarle la Santa Comunione.
Il guardiano però farebbe meglio a muoversi con cautela, proprio in base al diritto canonico, alla disciplina sacramentale e alla sana prassi pastorale, perché la situazione della donna non è così chiara come potrebbe sembrargli a prima vista.
Integrati nella vita della Chiesa
Un buon punto di partenza è essenziale per qualsiasi ministero pastorale. Quando ci prendiamo cura di qualcuno affidato a noi, il nostro obiettivo dovrebbe essere fornirgli ogni risorsa spirituale ragionevolmente disponibile; questo è fondamentale, e dà il respiro alla disciplina sacramentale e all’applicazione del diritto canonico, come ha ricordato papa Francesco nella Amoris laetitia, per esempio nel paragrafo 299.
Questo principio parrebbe giustificare il sacerdote che offre la Comunione a chiunque senza distinzioni, ma non è così. Lo stesso passo della Amoris laetitia parla di chi si trova in situazioni complicate: essi rimangono nella Chiesa, e devono essere integrati nella vita della Chiesa, ma “integrazione” non significa automaticamente “integrazione sacramentale”, perché essa può prendere varie forme. Torniamo quindi al Canone 915, e alla necessità di stabilire se chi intende comunicarsi è “in peccato grave manifesto”, e quindi escluso dall’Eucarestia.
Il rifiuto di concedere la Comunione è un affare molto serio, perché nega una risorsa essenziale per la vita cristiana. Bisogna procedere con cautela. Un buon punto di partenza è il Canone 912: “Ogni battezzato, il quale non ne abbia la proibizione dal diritto, può e deve essere ammesso alla sacra comunione”; in altre parole, a meno che il diritto non lo proibisca esplicitamente, il/la battezzato/a ha il diritto di avvicinarsi al sacramento.
Questa affermazione però richiede di essere interpretata dal Canone 18: “Le leggi che stabiliscono una pena, o che restringono il libero esercizio dei diritti, o che contengono un’eccezione alla legge, sono sottoposte a interpretazione stretta”. Dovendo dare un’interpretazione stretta per concedere o rifiutare il sacramento, guardiamo più da vicino la situazione della donna che vuole comunicarsi.
Questa donna sta ostinatamente persistendo in peccato grave manifesto? Il Catechismo della Chiesa Cattolica (vedi 2357-2359) insegna che gli atti omosessuali sono intrinsecamente disordinati. Al tempo stesso, la condizione di essere omosessuali, la cui “genesi psichica rimane in gran parte inspiegabile”, come ammette il Catechismo, non può quindi essere il risultato di una scelta, che implicherebbe perciò il peccato. La sua condizione di lesbica, per questo motivo, non può impedirle di ricevere la Santa Comunione.
In effetti, è vero proprio il contrario. Il Catechismo afferma chiaramente che gli uomini e le donne che presentano “tendenze omosessuali profondamente radicate” “sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita”, e “con la preghiera e la grazia sacramentale, possono e devono, gradatamente e risolutamente, avvicinarsi alla perfezione cristiana” (vedi Catechismo, 2358-2359). In altre parole, sono chiamati al più alto livello della vita cristiana, e per essere fedeli a tale vocazione devono attingere ai sacramenti.
Il fatto che una donna abbia contratto pubblicamente matrimonio civile con un’altra donna costituisce peccato grave manifesto? Sarebbe così se, per esempio, si avvicinasse alla Santa Comunione per dire qualcosa di negativo sulla dottrina matrimoniale cattolica, o per auspicare un cambiamento in proposito, perché in questo caso sfrutterebbe l’Eucarestia per i suoi scopi, e sarebbe un grave abuso del sacramento: qui la Santa Comunione verrebbe giustamente negata.
D’altro canto, il suo matrimonio con un’altra donna può essere interpretato in un altro modo, quando sia ben chiara un’importante distinzione. La dottrina cattolica afferma che il matrimonio è l’unione permanente e fedele di un uomo e una donna, dotata del potenziale di offrire nuova vita al mondo. Il matrimonio omosessuale è un equivoco di questo concetto di base. Anche chi è fortemente favorevole alla possibilità che due persone dello stesso sesso si sposino continua a distinguere tra il “matrimonio omosessuale” e il “matrimonio tradizionale”. L’unione di due persone dello stesso sesso è una realtà, ma non allo stesso modo del matrimonio tra un uomo e una donna.
* Padre Louis J. Cameli è sacerdote dell’arcidiocesi di Chicago e delegato del cardinale Blase J. Cupich per la formazione e la missione.
Testo originale: Priests should think twice before denying Communion to Catholics in same-sex unions