I sogni delle donne transgender thailandesi e il loro contrastato cammino verso l’uguaglianza
Articolo di Julia Boccagno* pubblicato sul quotidiano online Huffington Post (Stati Uniti) il 4 dicembre 2015, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Warat “Bai Thong” Tanasanti, 24 anni, era una brillante studentessa che sognava di diventare avvocato. Ma i suoi sogni hanno ricevuto una dolorosa battuta d’arresto quando ha capito che questo non era possibile. Il motivo dei suoi problemi non hanno niente a che fare con le sue qualifiche o con il tasso di disoccupazione thailandese: è un motivo che ha molto a che fare con l’identità che si è scelta, quella di donna transgender. Bai Thong, che lavora per uno studio legale che serve clienti internazionali, non può realizzare il suo obiettivo di diventare pubblico ministero perché si rifiuta di indossare l’uniforme maschile che le verrebbe prescritta. Vestirsi da donna in un tribunale thailandese le varrebbe una condanna con la condizionale, perché vorrebbe dire “prendersi gioco” della santità del giudice: “Se entrerò in tribunale, sarà necessario [per me] indossare l’uniforme maschile” ci dice mentre sorseggia il suo affogato al caffè “ma io non sono così”. Poi parla del cattivo trattamento ricevuto da una delle sue colleghe: “Ha cercato di cacciarmi. Diceva che il mio genere costituiva problema. Diceva alle altre colleghe ‘Thong non può fare questo perché si veste da donna’”.
La sua storia non è isolata. Le persone transgender in Thailandia, una popolazione che vive alla luce del sole, sono diventate un prodotto culturale in questo Paese conservatore che conta circa 67 milioni di persone. È difficile stimare con esattezza la consistenza della comunità; l’International Journal of Transgenderism stima la loro incidenza da uno su 180 a uno su 3.000.
Ma visibilità non sempre significa accettazione formale. In superficie, sembra che la Thailandia accetti la sua comunità transgender, soprattutto se la confrontiamo con i Paesi vicini. Raramente vengono registrati crimini transfobici e ci sono miriadi di cliniche dove operarsi. Ma la storia di Bai Thong, così come molte altre, ci dicono come i kathoey (“donne-uomini”) non riescano a trovare un lavoro nella società “comune”.
Kath Khangpiboon è un’apprezzata attivista di 28 anni che non riesce a ottenere un posto da docente all’Università Thammasat, l’istituto dove non solo si è laureata e specializzata ma dove ha già insegnato in passato. Celebrata come la prima persona transgender a candidarsi a quel posto, Kath è sopravvissuta ai colloqui preliminari. Dopo aver passato molti test sfiancanti, che andavano dagli esami scritti a quelli psicologici, la facoltà di amministrazione sociale ha comunicato al rettorato che Kath era una candidata competitiva e qualificata. “Fin dall’inizio credevo che sarei stata accettata e che avrei passato gli esami, ma ecco il punto di svolta. È stato un grande voltafaccia perché il rettorato mi ha bocciata. Non hanno approvato la mia candidatura a docente” dice in inglese, la sua seconda lingua. La decisione dell’ateneo, che secondo Kath non avrebbe dovuto prendere più di qualche settimana, arrivò cinque mesi dopo il sostegno ufficiale della facoltà. Il rettorato informò Kath della bocciatura tre settimane dopo la pubblicazione di una sua foto su Instagram: un rossetto a forma di pene, regalo di una sua amica.
Secondo l’ateneo, Kath non era adatta a quel posto perché il suo comportamento sui social media era “inappropriato”. Kath replicò che l’attività sui social media non facevano parte dei criteri di giudizio e che l’università non aveva mai usato tale criterio prima del suo caso: “Penso sia un loro pregiudizio. La cosa che mi rende fiduciosa è che stavano aspettando di fare qualcosa. La mia facoltà mi ha approvata in giugno. C’è voluto molto tempo. La foto l’ho postata a novembre. L’ho postata perché volevo ringraziare la mia amica… Era [un modo] molto simpatico per parlare di sesso”. Kath non comprende la logica utilizzata dall’ateneo per rifiutarle il posto: “Hanno usato il mio rossetto a forma di pene e hanno detto che è una brutta foto da mostrare agli studenti. Se qualcuno, come i genitori degli studenti, sanno che sei una professoressa e vedono [cosa] metti su Instagram, allora non puoi fare la professoressa. Questo è il modo thailandese di ragionare”.
Wannapong “Nhuun” Yodmuang, che si occupa di formazione all’Associazione Cielo Arcobaleno di Thailandia, loda Bai Thong Tanasanti. Le due donne hanno frequentato insieme la facoltà di legge, liberale e progressista, dell’Università Thammasat, con un programma che l’Università di Harvard ha definito “valido”. Wannapong cita gli ottimi voti della collega: si è laureata con un punteggio di 76 su 100, quando il massimo espresso dalla classe è stato di 77. Dopo la laurea, Bai Thong ha sostenuto circa dieci colloqui: solo in metà di essi ha potuto candidarsi per un posto da avvocato in senso stretto, mentre gli altri studi legali le hanno consigliato di candidarsi per un posto in amministrazione, in segreteria o nel settore risorse umane: “Penso che le mie capacità siano medio-alte, ma non posso andare avanti a causa della discriminazione, dei pregiudizi di certa gente. Secondo me non ha senso”. Bai Thong riferisce anche che gli intervistatori la mettevano a disagio. Molti le hanno chiesto se si fosse già operata, vale a dire se si fosse sottoposta all’operazione chirurgica di riassegnazione del genere: “Cosa c’entra con le capacità lavorative? Penso sia una cosa incredibile chiedere [una cosa del genere]”. Le conoscenze della famiglia l’hanno aiutata a ottenere un lavoro in uno studio legale specializzato in questioni commerciali. I suoi genitori già lavorano nell’ambito giudiziario: “Se io e mia madre [non] conoscessimo già [l’amministratore delegato dallo studio], non penso che avrei potuto trovare lavoro, perché sono una transgender, anche se mi sono laureata in una facoltà prestigiosa [con] un buon punteggio”.
Rapeepun Ohm Jommaroeng, segretario generale dell’Associazione Cielo Arcobaleno di Thailandia, la pensa allo stesso modo: ”È già dura frequentare la facoltà di legge se i tuoi genitori non lavorano al Ministero della Giustizia o nel sistema giudiziario. La nostra è una società feudale, dove ti affermi nella tua professione se è la stessa dei tuoi genitori. Se non hai qualcuno dietro le spalle è molto difficile lottare contando solo su te stesso, figuriamoci poi se sei una kathoey (donna trans)”.
La vivace personalità di Kath Khangpiboon le ha creato ulteriori ostacoli nel suo cammino verso l’uguaglianza di genere. La sua tenacia e la sua fiducia in se stessa mette in imbarazzo la cultura thailandese, che insegna ad essere indiretti, a “salvare la faccia” e a comunicare senza discutere. “Penso che si esprima bene, ma [il suo] metodo non è dei migliori. Per esempio, cerca di mostrare tutto in pubblico… con Facebook e cose simili. Ma a volte penso che non abbia delle vere prove” dice Bai Thong Tanasanti.
Rapeepun Ohm Jommaroeng aggiunge che in generale i Thailandesi accettano lo status quo della società e in pratica non capiscono perché le persone che vogliono cambiare le cose (come Kath) trovino necessario istigare il disordine nel Paese conosciuto come “la terra del sorriso”: “Se chiedete come mai noi [Thailandesi] non riteniamo tutto questo un grosso caso di discriminazione, il Thailandese medio dirà più o meno ‘Be’, puoi sempre fare qualcos’altro. Perché devi continuare a combattere per quello quando hai altre opportunità?’”. Ma Kath si rifiuta di essere compiacente verso le norme tradizionali. Il sostegno e l’approvazione incondizionati dei suoi genitori, soprattutto durante la sua transizione, sono alla radice della forza che le ha consentito di perseverare nonostante l’opposizione pubblica: “Come ha detto qualcuno, ho tanta, troppa fiducia in me stessa perché la mia famiglia e i miei genitori mi hanno sempre sostenuta. Non mi hanno distrutta, non hanno ignorato ciò che sono”. Non dovrebbe giungere come una sorpresa, quindi, che Kath non abbia esitato ad appellarsi contro la decisione del rettorato dopo aver appreso la sua bocciatura. Non sarà una sorpresa nemmeno che l’ateneo abbia sfornato lo stesso verdetto lo scorso giugno, il che significa che il suo caso è in ballo da più di un anno.
Ma Kath non ha intenzione di mollare e porterà il suo caso di fronte al tribunale amministrativo thailandese, dove potrà presentarsi vestita da donna, a differenza di Bai Thong, non essendo un avvocato autorizzato e non dovendo aderire ad alcuno standard professionale. Al tribunale potrebbero essere necessari anche sei anni per arrivare a una decisione. Fino ad allora Kath continuerà a lavorare come cofondatrice dell’Alleanza Thailandese Transgender, un network nazionale che difende i diritti delle persone transgender: “Non credo sia la fine per me. È una buona occasione per utilizzare il mio caso come esempio, per segnare un punto a nostro favore e per far sapere alla gente cos’è la discriminazione di genere. Ho fiducia nella vittoria”.
Un diverso atteggiamento
Qui, due storie apparentemente parallele divergono. Bai Thong Tanasanti ha accettato il fatto di non poter progredire nella professione di avvocato e medita di tornare a studiare per accedere a un ambito dove potrà arrivare più in alto: “Vorrei andare in Gran Bretagna il prossimo mese e studiare business management. Spero di lavorare in Occidente, in un Paese del primo mondo, perché penso che sarà più facile arrivare più in alto e che verrò trattata meglio. Penso che l’ambito legale sia il più adatto a me, ma è difficile, quindi voglio cambiare ed entrare nell’ambito del business e del management. Penso che sarà più facile, [ma] sarà comunque difficile”.
Rapeepun Ohm Jommaroeng afferma che le persone transgender thailandesi esitano a rompere il “soffitto di vetro” e lottare per l’uguaglianza di genere all’interno del mercato del lavoro “formale” quando sentono storie come quelle di Bai Thong e Kath: “Se parli con chi lavora nel cabaret, come estetista, parrucchiera o fiorista, ti diranno che sono molto ben accette perché quelli sono i mestieri nei quali, fin dalla notte dei tempi, le donne transgender sono accettate. Le opportunità di lavoro sono confinate a determinati mestieri” ha dichiarato in un’intervista.
Un futuro incerto
Anche se la Thailandia ha recentemente approvato un cambiamento nella sua Costituzione che rende illegale la discriminazione di genere, Kath e Rapeepun smorzano gli entusiasmi, affermando che la legge non fornisce una definizione chiara di uguaglianza di genere e quindi permette la persistenza della discriminazione: “È una pietra miliare, ma non è abbastanza, infatti non riconosce legalmente nessun aspetto delle persone LGBT” afferma Rapeepun.
Secondo Bai Thong non è il riconoscimento legale, bensì l’atteggiamento della gente ciò che si frappone tra lei, l’accettazione sociale e migliori condizioni di vita: “Per quanto mi riguarda voglio fare l’avvocato, ma non posso. So che ci sono molte transgender le cui carriere sono diverse da quelle degli altri. Magari una transgender vuole fare l’ingegnere, l’avvocato, o il pubblico ministero, come me, ma non possono anche se sanno lavorare bene, quindi ci vuole un cambio di atteggiamento”.
* Nata a Scranton in Pennsylvania, Julia Boccagno si è laureata magna cum laude in giornalismo radiotelevisivo all’American University di Washington, DC, nel maggio 2015. Si è diplomata anche in studi internazionali e lingua italiana. Si definisce una nomade globale e ha un’innata curiosità per il mondo e i suoi diversi abitanti. Si interessa in particolar modo al ruolo del giornalismo digitale nel campo dei diritti umani e delle società postbelliche. Recentemente ha frequentato un corso intensivo di lingua italiana all’Università di Modena.
Testo originale: A Dream Deferred: A Look At Transgender Discrimination In Thailand