Il 2008, i cattolici e l’omosessualità. Ragionando al di là degli slogan
Riflessioni di don Domenico Pezzini tratte a Acqua di fonte n.48 di ottobre 2008
Il 2008 ha visto la pubblicazione di due contributi molto seri alla riflessione sulla condizione omosessuale. Sono un invito alla riflessione, che fin dall’inizio abbiamo detto essere uno scopo, il secondo dei tre (gli altri due sono l’accoglienza e il dialogo), che danno ragione dell’esistenza di un gruppo come la Fonte.
In gennaio la prestigiosa rivista teologica Concilium, per la prima volta nei suoi 44 anni di esistenza, dedicava quasi un intero numero a “Le omosessualità”. In giugno l’altrettanto prestigiosa rivista dei gesuiti milanesi, Aggiornamenti Sociali, produceva un numero monografico intitolato “Riconoscere le unioni omosessuali?”, dal sottotitolo altrettanto significativo “un contributo alla riflessione”.
La prima reazione, che ritengo rilevante, è di far sapere a chi identifica Chiesa e Vaticano, e pensa che la dottrina proceda per pronunciamenti magisteriali che devono solo essere accettai e obbediti, che la Chiesa è invece una famiglia dove si parla, si argomenta e si discute, o se si preferisce è un “corpo” che vive in modo organico di articolazioni plurime e diversificate, e non un reperto rigido e mummificato, buono per un museo.
1. Le omosessualità (Concilium 1/2008)
La scelta di utilizzare un articolo al plurale è significativa e voluta. In effetti, la tesi maggiore che introduce i sette saggi dedicati al tema, è che, non solo quello che si indica genericamente come „omosessualità’ presenta diverse forme, ma ancora di più che è pericoloso assumere il desiderio e l’affettività omosessuale come „unico’ elemento per descrivere l’identità di una persona.
Quello dell’identità è un problema che la lucida scheda di Norbert Reck pubblicata in questo numero aiuta molto a illuminare e chiarire. In effetti, parlare di „identità omosessuale’ ha voluto dire che tale dimensione è parte costitutiva della persona e non può essere considerata un dettaglio trascurabile o rimovibile a piacere.
D’altra parte il farne, come si è detto, l’elemento che da solo basta a descrivere una persona è estremamente pericoloso, per due ragioni. Anzitutto, dato che le omosessualità si realizzano in forme svariate, si rischia di sovrapporre alla persona un’etichetta semplificatrice e dunque falsa.
Secondo, marcare un’identità in antitesi a un’altra, l’eterosessualità in questo caso, cela il pericolo di contrapposizioni e finanche violenze. Bisogna cambiare. Bisogna, come ripete l’editoriale, “decolonizzare le mentalità”.
Cosa significa’ Vuol dire “uscire dalle mere classificazioni”, perfino da quelle che vedrebbero una “minoranza” in lotta per essere accettata da una “maggioranza”. È probabile che una quota di “lotta” in ordine ad essere riconosciuti, una lotta pacifica certo, e non violenta, continui ad essere necessaria, e questo per l’istinto inguaribile che ogni maggioranza ha di “normalizzare” ciò che ne è fuori e che sembra per ciò stesso contestarla.
Ma deve essere il sogno di tutti quello di realizzare una società dove le diversità non siano costrette a costituirsi in “identità”. In questa luce, persino la categoria del “rispetto” verso gli omosessuali, di cui parla il Catechismo della Chiesa Cattolica, è rischiosa: “appare una forma retorica in cui si pretende il rispetto, ma si presuppone anche la disistima”.
2. Legalizzare le coppie di fatto (Aggiornamenti sociali, giugno 2008)
La riflessione è partita da una discussione molto accesa a cavallo tra 2007 e 2008 sulla possibile legalizzazione delle coppie di fatto, i famigerati DICO, che nessuno, sembra, ricorda più. Partendo da qui, il gruppo di studio sulla bioetica che fa capo alla rivista ha lavorato su questa ipotesi: “se sia possibile istituire una disciplina giuridica di un legame tra due persone dello stesso sesso, non basandosi specificamente sulla sua connotazione omosessuale, quanto piuttosto sul suo significato per la vita sociale.
Tale fattispecie non equiparabile in nessun modo alla famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio” (art. 29 Cost.) rientrerebbe in una più generale possibilità di regolamentazione giuridica di relazioni sociali stabili che costituiscono una forma di realizzazione dei soggetti coinvolti, prevista dalla nostra Costituzione (cfr art. 2 Cost.). In forza della stabilità, un siffatto legame risulta dotato di una sua rilevanza sociale e costituzionale”.
Per fare questo il tema è stato affrontato da numerosi punti di vista complementari: magistero cattolico, etica, sociologia, antropologia, fino agli aspetti eticonormativi, giuridicocostituzionali ed eticopolitici. Il semplice elenco dice la varietà e la ricchezza dei contributi, che meritano una lettura attenta e possibilmente uno studio approfondito.
Vorrei soltanto ricordare alcuni punti che per il vero sono da sempre nell’agenda delle riflessioni del nostro gruppo. Quella della centralità della “relazione”, per esempio. “Ci si potrebbe domandare se negli scritti magisteriali non rimanga aperta, o comunque non completamente esplorata, la via che consiste nel prendere in considerazione la rilevanza sociale delle relazioni interpersonali che si stabiliscono tra conviventi.
Tali unioni verrebbero disciplinate in ragione non dell’omosessualità della coppia, ma dei diritti e dei doveri cui dà origine la relazione stabile e che la società ritiene di dover tutelare” (P. Fontana). O l’annosa semplificazione per cui l’omosessuale sarebbe “libero” di essere altro da quello che sente di essere: “nella maggioranza dei casi lo spazio lasciato alla libera scelta è molto ridotto: la persona riferisce di scoprirsi omosessuale senza volerlo e quasi sempre in modo irreversibile.
Il compito dell’etica non sta quindi nell’insistere per modificare questa organizzazione psicosessuale, ma nel favorire per quanto possibile la crescita di relazioni più autentiche nelle condizioni date” (C. Casalone).
O ancora, “Né la natura biologica, né la cultura sociale offrono le risorse sufficienti per l’interpretazione dell’identità sessuale, che implica, invece, una più radicale questione antropologica (e teologica), quella dell’essenziale relazionalità degli esseri umani. In una concezione relazionale della persona, l’io è essenzialmente legato al tu, cosicché anche l’identità sessuale non può essere definita se non entro la relazione interpersonale” (A. Fumagalli).
E infine, con riferimento alla definizione della condizione omosessuale come “intrinsecamente disordinata”, si precisa che “sembra più prudente affermare che l’orientamento all’altro sesso è naturalmente buono e da promuovere in via preferenziale; più difficile sostenere che consentire all’inclinazione verso il medesimo sesso sia sempre necessariamente illecito” (M. Reichlin). Piccole schegge, che aprono orizzonti di respiro, molto più veri e significativi di chi, ahimè, legge la dottrina della Chiesa a partire dai titoli dei quotidiani o dagli strilli dei telegiornali.
3. Omosessualità e sacerdozio (Congregazione per l’Educazione Cattolica, ottobre 2008)
E qui tocchiamo un tasto dolente. Il 31 ottobre scorso la stampa dava notizia di un documento vaticano: “Orientamenti per l’utilizzo delle competenze psicologiche nell’ammissione e nella formazione dei candidati al sacerdozio”. Il concetto cardine, secondo i giornali, era che i gay non potevano essere ammessi al sacerdozio, impegno prontamente ripreso dall’ineffabile on. Binetti, e collegato da altri con gli scandali dei preti pedofili.
Il quotidiano cattolico Avvenire, che non passa per essere radicale, dandone notizia sparava sopra il titolo “L’omosessualità preclude l’ammissione al sacerdozio”.
Nell’articolo si riportavano virgolettate queste affermazioni del cardinal Zenon Grocholewski, prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica: “Se un candidato al sacerdozio manifesta tendenze omosessuali profonde pur vivendo una castità perfetta e quindi non facendo peccati sessuali, non può ugualmente essere ammesso al sacerdozio.
Questo in quanto la natura profonda della vocazione presbiterale contiene un senso della paternità umana e spirituale che un omosessuale non possiede”. Un amico prete psicologo, per la cronaca eterosessuale, ha commentato: “sono affermazioni gravissime, che nessun psicologo serio potrebbe sostenere”.
Visto che tre anni fa era suonata la stessa musica, si ha l’impressione che la cadenza ossessiva di tali proclami produca gli stessi effetti delle gride di manzoniana memoria.
Per fortuna la psicologia non può pretendere il peso che hanno le affermazioni di fede, e peraltro il documento ricorda che per arrivare all’ordinazione non è neanche obbligatorio passare dallo psicologo. E poi c’è sempre quella qualifica di “profondo” che parrebbe escludere certi omosessuali le cui tendenze profonde non sono.
Mah! Quello che mi ha impressionato, però, è stato scoprire che nel documento pubblicato dall’Osservatore Romano del 31 ottobre 2008 l’omosessualità è nominata una sola volta, e per giunta in un grappolo di “immaturità” (!) che sono “forti dipendenze affettive, notevole mancanza di libertà nelle relazioni, eccessiva rigidezza di carattere, mancanza di lealtà, identità sessuale incerta” (n. 10).
Ancora di più mi ha colpito il fatto che nella sintesi del discorso di presentazione del cardinale pubblicata dallo stesso Osservatore a lato del documento non compare per niente l’affermazione riportata tra virgolette da Avvenire. A che gioco si vuole giocare? Lascio al lettore di sbizzarrirsi nell’immaginazione. Invitando tutti a una grande serenità.
Al di là degli strilli dei quotidiani, quello cattolico incluso, il testo della Congregazione è un documento innocuo, fatto di osservazioni per lo più di buon senso, che purtroppo è passato (ma perché? e per opera di chi?) come una dichiarazione di guerra agli omosessuali sbarrando loro le porte del ministero.
Meno male che in casa cattolica abbiamo anche riviste serie, meno “popolari”, certo, ma che almeno testimoniano che nella comunità di Gesù c’è chi non ha rinunciato a pensare, e a operare per un progetto di riconciliazione delle “identità” quali che siano, diverse sì, ma che hanno comunque la vocazione a superarsi nella comune “identità cristiana” (cfr. Gal 3,28).