Il bullismo e l’omotransfobia nel linguaggio dei giovani
Dialogo di Katya Parente con lo scrittore e docente Dario Accolla
L’ospite di oggi, Dario Accolla, è un attivista LGBT con un dottorato in filologia moderna, un insegnante e uno scrittore. In una parola, un tipo tosto. Tra i suoi lavori figurano “I gay stanno tutti a sinistra – Omosessualità, politica, società” (Aracne, Roma 2012), “Mario Mieli trent’anni dopo”, con Andrea Contieri (Circolo Mario Mieli, Roma 2013), la raccolta di racconti “Da quando Ines è andata a vivere in città” (Zona, Arezzo 2014) e “Omofobia, bullismo e linguaggio giovanile” (Villaggio Maori Edizioni, Catania 2015), “Il gender: la stesura definitiva” (Villaggio Maori Edizioni, Catania 2017) e “Non passa lo straniero – Come resistere al discorso sovranista” (Villaggio Maori Edizioni, Catania 2019).
Essendo per professione a contatto con i ragazzi, e dal momento che le nuove generazioni sono quelle che plasmeranno una società non troppo distante, abbiamo deciso di parlare con lui del rapporto che intercorre tra bullismo, omotransfobia e il modo di esprimersi dei teenager, trattato in “Omofobia, bullismo e linguaggio giovanile”.
Innanzitutto una domanda a bruciapelo: perché hai scritto questo libro?
Nasce da un’urgenza: stabilire il legame tra parola e insulto. Insulto omofobico, nello specifico. Insulto che poi diventa ingrediente specifico di una persecuzione. E quest’ultima, attraverso una “messa a sistema”, diventa quel fenomeno più complesso che chiamiamo bullismo.
La parola ha una specie di effetto feedback: descrive le cose, ma ne modifica anche la percezione. È così anche per il linguaggio omofobo?
Il linguaggio ha regole universali. Accompagnando una frase, l’uso di parole specifiche, con una certa inflessione di voce, con una gestualità specifica, diamo un valore – e un senso – ai termini che usiamo. Questo vale, dunque, anche per il linguaggio intriso di omo-bi-lesbo-transfobia. Pensiamo a frasi altrimenti neutre, accompagnate con una risatina. Un “guarda chi c’è!” pronunciato in maniera neutra ha un valore. Accompagnato con un tono derisorio, in direzione di una persona “sospettata” di omosessualità, un altro. Nel primo caso non succede nulla, nel secondo caso possiamo fare molto male.
Parli del mondo giovanile: in quali contesti l’omofobia ha terreno più fertile?
Nei contesti di socializzazione, specialmente. Scuole, palestre, persino il muretto in cui ci si ritrova nelle ore libere. Questi luoghi sono “teatri” di socializzazione, fondamentali per ritagliare il proprio posto nel mondo. Fin dalla più tenera età. Non entriamo in questi teatri di esistenza in modo neutro. Ci portiamo dietro il nostro contesto di riferimento. Nel nostro contesto, le cosiddette “sessualità non normative” sono viste con sospetto. E ci dotano, fin da giovanissimi, di dispositivi culturali per reagire negativamente verso tutto ciò non rispetta la norma pre-determinata. Questa norma, detto in modo molto sintetico, vede l’essere persone Lgbt+ (e non solo) come errore e svantaggio. Ne conseguono reazioni violente, dove con il termine “violenza” non mi riferisco solo a quella fisica. Derisione, isolamento e bullismo sono risposte violente di una società che ha pochi strumenti per metabolizzare le diversità.
Che peso hanno le parole?
Con le parole possiamo definire interi ambiti di esistenza. Sono uno strumento potentissimo. Persino nella Bibbia – e lo dico da non credente – troviamo un esempio del potere “creatore” del linguaggio. Dio creò il mondo, infatti, con le parole. E dotò proprio l’uomo, non a caso creato a sua immagine e somiglianza, del potere della parola. Se fossi credente, ogni volta che uso le parole mi sentirei di attingere al potere divino della creazione. Si pone, perciò, un problema: come usare questo “dono”? Creando l’inferno, qui in terra, per migliaia di adolescenti Lgbt+, descrivendoli come errori (invertiti), figli di una natura perversa e corrotta (contronatura), come ortaggi (finocchi) o come parti del corpo (culo, ricchione)? Perché è ciò che si fa, quotidianamente, con il cosiddetto “linguaggio omofobo”.
Sei un insegnante. Cosa consigli ai tuoi colleghi affinché gli adolescenti usino, nei confronti delle persone queer, un linguaggio rispettoso?
Sarebbe il caso che nelle scuole si facesse una corretta formazione per gestire, includere e accogliere in modo costruttivo tutte le diversità presenti nelle nostre aule. Le scuole sono lo specchio di una società sempre più multietnica, sempre più abitata da singolarità che sfuggono con la loro esperienza diretta alla “norma” di cui sopra. Intervenire a chiazze è utile nella gestione dei singoli casi, ma non basta. Ci vuole una regia nazionale. Usare sempre il maschile e il femminile, in aula, insieme a formule più inclusive può essere un buon esercizio di inclusione. Problematizzare il linguaggio d’odio, non reprimendolo – tabuizzare è il modo migliore di renderlo ancora più affascinante – ma responsabilizzando alle scelte linguistiche adeguate, può essere un’altra soluzione. Ma, ripeto, è necessaria un’azione più ampia, di coordinamento.
E a chi è vittima/spettatore di un episodio omofobo?
Di denunciare, sempre. Confidandosi con qualcuno di cui si ha piena fiducia, in primo luogo. Cercando sempre e comunque degli alleati. La solitudine è una condizione molto pericolosa, in questi contesti. Aprirsi, parlarne, cercare aiuto è sempre un ottimo antidoto per sentirsi in un certo qual modo più protetti, meno isolati.
Sei gay e sei dichiarato. Non ti è mai capitato che un tuo alunno ti sbeffeggiasse? Come hai reagito?
È successo. Niente di particolarmente grave, per fortuna. Laddove la situazione si è palesata ai miei occhi, ho semplicemente chiesto al ragazzo in questione di chiarire meglio il suo pensiero. In modo molto tranquillo. Ne ho fatto un’occasione di dibattito, in aula, per parlare di rispetto delle differenze. In altri contesti mi sono venuti in aiuto altri studenti e altre studentesse. Quella dell’insegnante è una figura di riferimento. L’omosessualità polarizza il giudizio. Se sei credibile come docente, avrai formidabili e inaspettati alleati. Mi è successo più volte. Lì comprendi che vedono la persona e il suo valore, non il suo orientamento sessuale. E credo che sia questa la cosa più importante.
Se essere attivista vuol dire impegnarsi per rendere più giusta la società mettendoci la faccia, allora Dario lo è a pieno titolo. Che il suo impegno possa spronare tanti educatori ad abbattere le barriere culturali e a comprendere che chi ci sta davanti è un essere umano. Esattamente come noi.