L’inferno di Hanan, una ragazza trans presa in trappola dalla polizia egiziana
Dossier pubblicato sul sito di Human Rights Watch (Stati Uniti) il 1 ottobre 2020, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro, parte dodicesima
Nel settembre 2017 Hanan, una ragazza trans di 17 anni, viene presa in trappola dalle forze di sicurezza attraverso i social media e arrestata arbitrariamente in un ristorante del Cairo: “Avevo parlato su Facebook con un uomo che aveva chiesto di vedermi in un ristorante, tre giorni prima del concerto dei Mashrou’ Leila: avevo il biglietto del concerto nel mio zainetto. Quando arrivai, trovai quattro uomini in borghese che mi stavano aspettando. Sapevo di essere in arresto”.
I poliziotti setacciano il cellulare di Hanan, attraverso il suo account di Facebook si loggano su Grindr e creano una finta chat per caricare sue foto da donna. Non le vengono notificate le accuse contro di lei. Alla stazione di polizia deve spogliarsi di fronte agli agenti, che esaminano il suo corpo e le rivolgono domande personali: “Ti fai la barba?”, “Come ti sono venuti i seni?”, “Perché hai i capelli lunghi?”, “Come mai hai un biglietto per il concerto dei Mashrou’ Leila?”.
Dopo ore di insulti e oltraggi, Hanan smette di rispondere alle domande, ma gli agenti iniziano a picchiarla: “Mi presero a schiaffi, mi presero a calci con gli stivali, mi afferrarono per i vestiti fino a strapparmeli. Io singhiozzavo, e non riuscivo a parlare. I poliziotti mi schiaffeggiavano e mi colpivano con le penne per obbligarmi a parlare, poi mi minacciarono di sottopormi a un esame anale. Dissi loro di farlo pure, non avevo niente da nascondere, allora ordinarono a un medico forense di eseguire l’esame”.
Il procuratore le chiede delle foto sul suo cellulare. Hanan nega di essere lei, ma il procuratore dice “Le foto di te vestito da uomo ti incriminano. O confessi ora, o da qui non te ne vai”. Il procuratore minaccia e grida, ma Hanan si rifiuta di confessare, poi le viene detto ”Ti terremo qui per tre giorni, così potrai pensarci”.
“Mi misero in una gabbia in un sottoscala [nell’ufficio del procuratore], nemmeno in una cella di prigione, [ma] in uno stanzino di 3 metri per 2, assieme ad altre persone gay e transgender. Non potevo chiamare nessuno, né avere un avvocato. Non riuscivo a dormire, deliravo, ero sotto shock, avevo paura che mi succedesse qualcosa, che mi avrebbero uccisa. Presi un paio di forbici e mi tagliai i capelli, in modo da apparire normale quando mi avrebbero interrogata di nuovo.”
Dopo tre giorni, Hanan viene spostata in una cella di soli uomini: “Sono stata maltrattata, molestata sessualmente, insultata e derisa. Mi toccavano mentre dormivo, così smisi di dormire. Gli agenti mi picchiavano e mi dicevano ‘Ti insegneremo ad essere un uomo’. Quando opponevo resistenza, mi soffocavano con l’acqua. Il mio processo veniva rimandato in continuazione, prima di quindici giorni, poi di due mesi. Pensavo che non sarei mai uscita”. Hanan è stata tenuta in custodia cautelare per un totale di due mesi e quindici giorni.
Un tribunale la condanna a un altro mese di carcere per “incitamento alla debosciatezza”. Nonostante la pena sia stata scontata, le accuse sono rimaste per tre anni sulla fedina penale di Hanan: “Quando venni rilasciata, l’agente mi chiese ‘Sei attivo o passivo?’. Non capivo cosa volesse dire, perciò mi tenne dentro una notte in più, anche se c’era l’ordine di scarcerazione. Il giorno seguente ripeté la domanda. Dissi ‘Sono attivo’, e lui rispose ‘Bravo, ragazzo’”.
Testo originale: Egypt: Security Forces Abuse, Torture LGBT People