Il calvario di scoprirsi lesbica in Spagna nel secolo scorso
Articolo di Alicia Rocafull pubblicato sul sito La Oveja Rosa – Universo Gay (Spagna) l’8 settembre 2015, liberamente tradotto da Dino
Noi lesbiche e gays l’abbiamo vissuto regolarmente nel corso della storia. Una delle peggiori epoche per le lesbiche spagnole è stata quella della Restaurazione Borbonica, poi è arrivata un po’ di tranquillità con la II Repubblica, ma in seguito è arrivato Franco con le sue leggi sui vagabondi e i delinquenti e altri elementi di repressione. In seguito all’introduzione di un personaggio lesbico nella serie “Sei sorelle”, oggi voglio raccontarvi com’era essere lesbica nei primi anni del secolo XX.
Una delle peggiori epoche in Spagna per gli omosessuali, insieme alla dittatura di Franco, è stata la tappa della Restaurazione Borbonica (1874-1931). Dopo la caduta della I Repubblica, la Restaurazione Borbonica comporta un altro ritorno ai valori ultracattolici e monarchici difesi da Cánovas del Castillo e dalla sua cricca (della quale fanno parte conservatori e progressisti, comprendendo anche Castelar), e l’omosessualità comincia a svilupparsi in un ambiente di oppressione alla periferia di Madrid e Barcellona, in club e feste private, senza tardare a corteggiare qualcuno dei suoi membri individualmente con l’opposizione alla monarchia di Alfonso XIII, e successivamente al suo dittatore militare, il generale Miguel Primo de Rivera.
Nel 1908, col fiorire della sessuologia, i manuali dell’epoca, benchè non sempre contrari ai diritti di gay e lesbiche, descrivono in questo modo la donna omosessuale: “un temperamento attivo, coraggioso, creativo, piuttosto risoluto, non troppo emotivo; amante della vita all’aria aperta, della scienza, della politica o anche del commercio; buona organizzatrice e gratificata dai posti di responsabilità… Il suo corpo è perfettamente femminile, benchè la sua natura interiore sia in gran parte maschile“. Sicuramente oggi non riusciamo a farci un’idea su cosa c’è di lesbico o di maschile in questo ritratto, giacchè è la definizione di una qualsiasi persona di oggi.
La maggior parte degli uomini di scienza della fine del secolo XIX e dell’inizio del XX, erano soliti associare l’autostima, l’indipendenza e l’atteggiamento femminista con il lesbismo. Tutto ciò senza chiamarle lesbiche, perchè il termine non era ancora di uso frequente. Noi lesbiche eravamo chiamate “invertite”. Bene, queste caratteristiche nel 1890 erano sufficienti per accusare di inversione una donna e ancora oggi fanno parte dell’immaginario collettivo quando si descrive una lesbica.
Un’altra caratteristica di questo immaginario collettivo riferito alla lesbica è il considerare i giochi di ruolo, che una svolga il ruolo della donna e l’altra quello dell’uomo, come parte imprescindibile delle relazioni lesbiche, un concetto chiaramente attribuibile alla sessuologia, questa scienza all’epoca così nuova, che differenzia tra due tipologie di donne omosessuali.
-Le “invertite congenite”, di orientamento maschile
-Le “pseudoinvertite”, che potrebbero essere state eterosessuali se non fossero state vittima degli artifici della vera omosessuale. Avevano l’aspetto e il comportamento della donna eterosessuale femminile del suo tempo.
Entrambi i tipi di donna provano attrazione reciproca e, come per magia, queste donne svolgono a letto i ruoli propri del loro rispettivo aspetto esteriore. Le pratiche maschile/femminile, il desiderio di penetrare ed essere penetrata da un’altra donna, sono fatti incontrovertibili e hanno generato molte discussioni all’interno del movimento lesbico femminista, tuttavia non possono essere estese a tutte le lesbiche ed essere elemento essenziale dello stereotipo lesbico dei giorni nostri. E’ semplicemente una caratteristica sessuale che alcune lesbiche hanno ed altre no.
Nell’immaginario collettivo l’amore tra donne, più che mai nel corso della storia, comincia ad essere associato alla malattia, alla demenza e alla tragedia. Quando il lesbismo è considerato patologico molte donne lesbiche patologizzano se stesse soffrendo una mancanza di identità, entrando in conflitto col proprio essere femminile e assumendo forme di relazione e valori sessuali maschili. Nella letteratura del secolo XX scritta da lesbiche o che narra storie con protaginiste lesbiche, è frequente trovare personaggi tormentati, infelici e che a volte hanno fantasie suicide. Fedele riflesso di quello che si viveva fino ai passati “felici anni 20”.
A quei tempi era complicato vivere una vita apertamente lesbica. Sebbene in altri posti come il regno Unito o gli Stati Uniti erano note donne lesbiche, come i celebri matrimoni bostoniani (coppie di donne conviventi senza il supporto di un uomo, ndt) di cui tanta letteratura ci ha parlato, qui in Spagna non c’erano riferimenti. Qui la donna era totalmente sottomessa all’uomo e non poteva vivere liberamente la sua vita. Le donne celebri che conosciamo come lesbiche dovettero andare in esilio o vivere di nascosto la loro sessualità. E’ stato con la Terza Repubblica che persino donne come Carmen Conde (prima donna ad essere eletta Accademica della Reale Accademia di Spagna), Victorina Duran (stilista), Margarita Xirgu (attrice), Ana Maria Sagi (poetessa, sindacalista, giornalista, femminista e atleta), Irene Polo (giornalista), Lucia Sanchez Saornil (fondatrice di Mujeres Libres), vissero la loro vita e la loro sessualità con relativa libertà, benchè sempre con grande discrezione.
Le invertite dei primi anni del secolo XX, nel caso venissero scoperte, dovevano sottoporsi a terapie di conversione. Loro stesse si consideravano malate e si sottoponevano volontariamente a questo calvario. Se tutti, ma proprio tutti, gli scienziati e i medici dell’epoca dicono che sei una malata e che, da quella malata che sei, puoi curarti e condurre una vita normale, è logico che accetti di sottoporti alla terapia, qualunque essa sia, per poter condurre una vita normale e in accordo con le norme sociali.
Con la nascita dei primi sessuologi e della psicanalisi di Freud, si pensò di avere gli strumenti necessari per iniziare queste terapie di conversione di cui stiamo parlando. Freud espresse seri dubbi sulle potenzialità della conversione terapeutica, non era d’accordo. In una famosa lettera a una madre che gli chiedeva di trattare il figlio, rispose:
“Chiedendomi se posso aiutare suo figlio, vuole chiedere, penso, se posso eliminare l’omosessualità e far sì che l’eterosessualità possa tornare al suo posto. La risposta è che in generale non possiamo promettere di riuscire ad ottenerlo. In un certo numero di casi abbiamo successo sviluppando il germe della tendenza eterosessuale che è presente in tutti gli omosessuali, ma nella maggior parte dei casi questo non è possibile. Dipende dal tipo e dall’età dell’individuo. Non si può prevedere il risultato del trattamento. […] L’omosessualità di certo non è un merito, ma non è nulla di cui vergognarsi, non è un vizio nè una degradazione, non può essere classificata come una malattia“. Sigmund Freud
Freud non considerava l’omosessualità come una “anomalia”, come invece faceva la psichiatria della sua epoca, ma sosteneva che ogni individuo poteva realizzare questa “scelta” a causa dell’universalità della bisessualità da lui sostenuta.
Fino a metà del secolo XX i tentativi medici di “curare” l’omosessualità hanno compreso trattamenti farmacologici e anche chirurgici. Dapprima veniva eseguito un trattamento ormonale e in seguito farmacologico, con stimolanti e inibitori sessuali. Se questo non funzionava si procedeva con l’ipnosi e la psicanalisi, per finire con una terapia di avversione combinata con l’elettroshock.
Se tutto ciò continuava a non essere efficace, e non lo era, si cominciava col trattamento chirurgico: l’isterectomia (asportazione dll’utero), l’ovariectomia (asprtazione delle ovaie), l’ablazione del clitoride, la chirurgia del nervo pudendo e la lobotomia. Con la lobotomia smettevi per sempre di essere lesbica, la verità era che questo era l’unico metodo che “funzionava”. Per chi non lo sapesse, la lobotomia è un procedimento chirurgico che ha come obiettivo la distruzione delle connessioni nervose del lobo frontale dell’encefalo. In seguito a questo intervento l’individuo rimane in uno stato quasi vegetativo, senza volontà nè capacità di giudizio. Per fortuna molte donne molti uomini accettavano di essere eterosessuali per non arrivare a questi estremi, sempre e soltanto quando non consideravano se stessi come dei malati, come solitamente avveniva.
Nel 1900 una lesbica doveva quindi affrontare tutto questo calvario. Davanti a questo modello sessuale e con secoli di rifiuto cattolico del lesbismo, le lesbiche del XX secolo costruirono la loro identità e si trovarono a loro agio con se stesse. Non è stato un compito facile, e ancora oggi per molte continua a non esserlo, per questo è importante raccogliere l’eredità e i contributi che ci hanno lasciato molte donne che hanno amato donne nel corso dei due ultimi secoli, perchè senza dubbio hanno spianato la strada su cui oggi molte di noi camminano a pieno titolo.
Senza di esse il nostro cammino sarebbe stato indubbiamente più difficile. L’introduzione di personaggi LGTB in serie televisive e in film ci fa conoscere la loro storia, e riconoscere il loro valore ci permette di renderci conto che oggi vivere una sessualità diversa è possibile e gratificante, ma che non sempre è stato così. E’ doloroso vedere che le storie di lesbiche nelle nostre serie televisive non sono belle storie d’amore con finale felice, ma è la realtà e bisogna accettarla, per noi non c’erano finali felici.
E ricordate, in molti posti del mondo continuano a non esserci finali felici per lesbiche, gays e transessuali. Dobbiamo continuare a combattere.
Testo originale: Ser lesbiana en 1900 no era fácil