Il cammino di Judith, pastora e lesbica, tra l’impegno per Dio e l’amore per una donna
Testimonianza di Judith Kotzé* pubblicata sul sito Stonewall (Gran Bretagna), liberamente tradotta da Samantha Cardillo
Ho sentito la vocazione (al pastoralato) a soli sei anni. Dopo la fine della scuola, anche mia sorella gemella ha seguito la mia stessa vocazione. D’altronde, nella nostra famiglia, da circa duecento anni ci sono sempre stati dei ministri di Dio. Crescendo, non mi rendevo conto di essere lesbica. A me bastava restare concentrata sul mio obiettivo, su quel percorso ancora così difficile che nessuna donna fino ad allora aveva intrapreso. All’università l’attrazione per le donne cresceva e non sapevo cosa fare. Avevo paura. Pensavo che l’omosessualità avrebbe ostacolato il mio sogno e così pregavo ogni giorno affinché Dio mi donasse la castità. Diventai ministro nel 1995.
La Chiesa aveva aperto le porte al pastorato femminile, tuttavia le congregazioni che chiamavano le donne ministro per servire Dio erano ancora poche. Decisi così di unirmi ad un ministero specializzato. Molte di noi lo fecero. In quel periodo ebbi l’occasione di collaborare con “Inclusive and Affirming Ministries (IAM, Ministero per l’Inclusione e l’Affermazione) e di conoscere persone che erano riuscite a far convivere sessualità e spiritualità serenamente.
Nel 1998 mia sorella iniziò una relazione con una donna e affrontò la cosa in famiglia. Vista la reazione dei miei genitori pensai che non avrei potuto complicare le cose parlandogli me. Io e mia sorella fummo d’accordo: avremmo rinviato la conversazione almeno per un po’.
Ma un anno dopo mi innamorai. Avevo trent’anni eppure mi sentivo come un’adolescente, così euforica per quella sessualità riscoperta. Pensavo che, dato che stavo avendo una relazione sessuale con quella persona, l’avrei poi sposata; “sarò legata a te per sempre”, dissi a me stessa. Ma nel giro di tre mesi finì tutto e decisi di prendere quella delusione come la risposta ai miei dubbi: la mia strada non era quella della castità, della solitudine. Man mano che prendevo parte agli incontri del Ministero, mi sentivo sempre più in grado di far combaciare la mia fede con la mia sessualità.
Nel 2000 incontrai la donna che è oggi la mia compagna. Ci siamo sposate nel 2007, subito dopo l’approvazione del decreto sulle unioni civili in Sudafrica. Ad un mese dal matrimonio non ero certa che i miei genitori sarebbero venuti ma alla fine lo fecero e fu un traguardo meraviglioso per loro e per me. C’erano voluti dieci anni ma avevamo finalmente voltato pagina. Quando mia madre morì nel 2011, mi sentii sollevata del fatto che non ci eravamo arresi e che prima che lei morisse, fossimo riusciti a superare tutte le incomprensioni, insieme. La mia esperienza può spiegare come spesso questo percorso possa rivelarsi lungo e faticoso anche se lo si affronta con le persone che ti conoscono da sempre. Nel nostro caso ci sono voluti dieci anni, ma alla fine ce l’abbiamo fatta ed oggi mi sento grata di avere una partner accanto a me.
Durante gli incontri al Ministero, ci occupiamo dei cosiddetti testi “antigay”, leggendoli sia attraverso un’interpretazione letterale che contestuale. Da queste analisi emerge che la Bibbia non dà testimonianze legate all’omosessualità, perché non erano parte di quel contesto. Ma oggi il contesto è differente e noi possiamo darne testimonianza, possiamo tradurre ed analizzare l’omosessualità attraverso gli insegnamenti ispirati da Dio: non farsi del male, essere fedeli e responsabili e considerare il proprio corpo e la propria sessualità come doni che Dio ci ha fatto per onorarlo. La Bibbia ci insegna che non siamo stati creati per essere soli.
Nel corso della mia vita ho visto spesso persone costrette a scindere la propria sessualità dalla spiritualità perché gli era stato detto che potevano essere gay o cristiani ma non entrambi, contemporaneamente. Se si rimane nell’ombra si rischia di promuovere quell’omofobia che tutti temiamo. Alcuni scelgono un’altra strada; ho visto credenti omosessuali uscire fuori dall’ombra della loro sessualità per poi opporsi alla fede, convinti che la religione e le sue istituzioni siano il nemico da combattere. È così che rischiamo di rimanere intrappolati nel mezzo: per i credenti siamo “troppo gay” e per i gay siamo “troppo religiosi”. Bisogna lavorare in entrambe le direzioni per ottenere l’accettazione reciproca.
Con il tempo, ho imparato ad essere più cauta nell’affrontare queste tematiche nelle comunità religiose, perché quando si parla di problematiche legate all’omosessualità tutti si arroccano nelle proprie convinzioni, annullando il confronto. È un tema scottante. So cosa vuol dire lavorare con persone che non comprendono e mi sono sentita ferita nel vedere alcuni pregare per me affinché “guarissi” o sentirmi esclusa insieme ad altri “in nome di Dio”. Ciò accade perché le persone vedono in noi il tradimento di tradizioni vecchie centinaia di anni.
Credo che le nostre esperienze di disuguaglianza debbano essere lo strumento per parlare di uguaglianza. È un percorso importante, da compiere un passo alla volta. Devo ammettere però di essere preoccupata per la situazione mondiale attuale, una situazione che sta mettendo a rischio non solo i diritti degli omosessuali, ma quelli di tutti gli esseri umani. I cristiani fondamentalisti hanno stretto un’alleanza tra Africa e America per muoversi contro di noi.
Dobbiamo quindi unirci anche noi per contrattaccare e trovare un terreno comune basato sul dialogo e su valori condivisi. Non credo che sarei riuscita a superare tutti gli ostacoli nel mio cammino senza dei modelli di riferimento. Sono stati l’arcivescovo Desmond Tutu e l’attuale arcivescovo di Cape Town, Thabo Makgoba, a darmi la speranza. Quando Makgoba si pronunciò contro le leggi anti-gay in Nigeria ed Uganda, un cristiano eterosessuale disse: “Da alleato, io sono dalla tua parte”. In quell’uomo e nelle sue parole risiede l’esempio che tutti dovremmo seguire.
Ciò che è davvero importante è trovare la strada per il dialogo. Nel caso dell’HIV, ad esempio, ci siamo uniti tutti per combatterlo, iniziando proprio dalla discussione sulla sessualità. Poi, con grande sensibilità abbiamo condiviso le esperienze degli omosessuali. Basta dare inizio al dialogo, che con il tempo coinvolgerà un numero sempre maggiore di persone, e non importa se le loro interpretazioni su Dio e la Bibbia saranno diverse, l’importante è restare uniti.
Oggi mi sento più compassionevole, perché ho dovuto imparare ad esserlo prima di tutto verso me stessa. Ho dovuto perdonare me stessa per tutte le ansie e le paure con le quali ho riempito la mia vita. Ho dovuto perdonare me stessa per tutto ciò che questa paura ha provocato. Ho imparato che posso dialogare con chi non condivide le mie idee e rendere queste persone partecipi del dibattito. Ho imparato a limitare la mia suscettibilità che spesso mi portava perfino a non tollerare la presenza degli omofobi. Da ministro di Dio, celebro matrimoni tra persone dello stesso sesso ed ogni volta mi sento onorata di poter consacrare un’unione, un rito di passaggio fondamentale per la coppia stessa e per le loro famiglie.
* Judith Kotzé è stata una delle prime donne a diventare pastora della Chiesa Riformata Olandese all’età di 26 anni. Oggi è direttrice del Ministero per l’Inclusione e l’Affermazione (IAM).
Testo originale (PDF): For the churches we are “too gay” and for the gays we are “too churchy”. Acceptance from both religious and LGBTI communities needs to work bothways