Il mio cammino di donna transgender verso una piena identità
Testimonianza di Savannah Burton resa a Caroline Youdan e pubblicata sul sito del mensile Toronto Life (Canada), liberamente tradotta da Giacomo Tessaro
Ho sempre saputo che qualcosa nel mio corpo non andava. Mi ricordo una volta che ero seduta nel cortile di casa mia a Corner Brook, a Terranova: avevo quattro o cinque anni e urlavo “Sono una ragazza!”. Ero terrorizzata che qualcuno potesse sentirmi ma non riuscii a resistere all’impulso di gridarlo a pieni polmoni, di rendere in parole l’acuto disagio che sentivo.
In seguito, lo sport divenne il mio rifugio. Cominciai a giocare a baseball a otto anni, continuando poi nell’adolescenza. A ventun anni entrai nella squadra di Corner Brook. Il resto del tempo lo passavo barricata in camera a guardare le repliche di Friends e Seinfeld, sperando di poter fare cambio con i personaggi delle due serie.
A ventidue anni mi trasferii a Toronto, senza un progetto di lavoro né un posto dove vivere. Fu un atto di disperazione: dovevo fare la transizione da maschio a femmina e pensavo che in una grande città sarebbe stato più facile. Passai una settimana da sola in un hotel pulcioso vicino all’aeroporto, poi scoppiai in lacrime e chiamai mia mamma.
Quando il giorno dopo mi raggiunse non riuscii a trovare le parole per spiegare quello che stavo attraversando. Le dissi che mi sentivo come Bernadette Bassinger, il personaggio trans del film Priscilla – La regina del deserto, ma lei non capì l’allusione: sembrava solo triste e confusa e tornò a casa dopo pochi giorni. Allora mi rimisi in piedi.
Affittai un appartamento, trovai lavoro in un negozio di giocattoli e come corriere, sempre in giro per la città con la mia macchina vecchia e scassata. Presi appuntamento con un medico e iniziai la terapia ormonale. Sono alto 1.88 e pesavo 86 chili, quindi farmi un guardaroba non fu cosa semplice. Alla sera cercavo il coraggio di uscire in pubblico truccata e con abiti femminili, ma la maggior parte delle volte rimanevo incollata al divano. Ero intrappolata nel mio appartamento e in un corpo che disprezzavo.
Dopo qualche anno di tentativi, mi passò la voglia di diventare donna. Trovai un appartamento da scapolo e cominciai a lavorare come receptionist in un hotel. Con i colleghi ero gentile ma distante e non andavo mai più in là di qualche chiacchierata. Per i successivi dieci anni passai la parte migliore del mio tempo al cinema: non avevo amici, ero priva di gioia, non avevo nessuna ragione di svegliarmi il giorno dopo: nei miei peggiori momenti speravo infatti di non svegliarmi più. L’unica cosa che mi faceva tirare avanti era la lezione settimanale di teatro.
Avevo la capacità di fingere di essere qualcun altro, forse perché lo facevo da trent’anni. Debuttai sul palcoscenico con una commedia intitolata The Splits, poi apparii in alcuni film indipendenti e anche in pubblicità televisive. Man mano che frequentavo il mondo degli attori stabilivo sempre più rapporti fecondi. Un amico, in particolare, divenne il mio mentore: dietro suo incoraggiamento mi iscrissi a dei corsi serali all’università. In seguito entrai in una squadra di dodgeball. Presto mi trovai a uscire e incontrare gente e passavo sempre meno tempo persa nei miei pensieri.
Cresceva la fiducia in me stessa e cresceva anche il mio coraggio. Alla soglia dei quarant’anni ricominciai a flirtare con l’idea della transizione. Dal mio primo tentativo, quindici anni prima, il mondo era cambiato. All’epoca mi sentivo completamente isolata: ora invece accendevo il computer e mi connettevo con persone le cui lotte assomigliavano alle mie. Cominciai a frequentare un bar molto conosciuto tra le donne trans: lì per la prima volta trovai delle amiche con le quali non dovevo nascondermi. All’età di 37 anni vivevo una doppia vita: durante la settimana continuavo a mimetizzarmi tra gli uomini, nel weekend andavo in giro con le mie nuove amiche trans: ero me stessa, ma in incognito. Poco a poco mi stancai di togliermi lo smalto dalle unghie ogni domenica sera e nell’estate del 2013 decisi di vivere a tempo pieno come una donna. Presi un’aspettativa dal lavoro di quattro mesi e a dicembre feci il mio debutto alla festa di Natale del personale. Entrai nella stanza truccata, con un paio di jeans e una camicetta aderente. Il cuore mi batteva all’impazzata, ma mi sentivo carica. Alcune fecero la faccia scioccata, ma quasi tutti furono amichevoli e incuriositi. Alla fine della serata ero euforica.
Mi piacerebbe dire che da allora tutto è andato liscio, ma non è così. Lavorare a contatto con i clienti non è facile. Per ogni cliente che mi mostra rispetto ce n’è un altro che mi chiama “signore” in maniera stizzosa, come se lo stessi ingannando. Se nella metropolitana incontro un gruppo di adolescenti, è probabile che mi indichino a dito ridendo. Ogni volta che sui mezzi pubblici sento qualcuno che ridacchia, automaticamente penso che stanno prendendo in giro me. Eppure non sono mai stata più felice.
Ora mia madre mi sostiene e parliamo al telefono almeno una volta alla settimana. Lo scorso inverno ho fatto il provino per la nazionale femminile canadese di dodgeball e l’ho superato. Temevo che la mia identità di genere avrebbe costituito una barriera, ma così non è stato. Nel mondo del dodgeball competitivo le atlete e gli atleti trans devono fornire i documenti legali che dimostrano il loro genere: invece alle Olimpiadi e ai Giochi Panamericani bisogna dimostrare di avere subito la riassegnazione chirurgica del sesso, che io non ho fatto. Lo scorso agosto la mia squadra ha rappresentato il Canada ai Mondiali di dodgeball di Las Vegas, classificandosi al quarto posto. Ho anche ricominciato a recitare. Ci sono poche opportunità per le attrici e gli attori trans, soprattutto per quelli che hanno ancora troppe caratteristiche fisiche del sesso di nascita. Faccio spesso la caratterista: l’ultimo provino che ho fatto è stato per la parte di una prostituta senzatetto nel poliziesco canadese 19-2. La situazione però sta migliorando, ci sono sempre più persone trans in TV. Sono determinata a diventare un’attrice di successo.
A volte è ancora difficile uscire di casa. È difficile riprogrammare il cervello e il cuore, e ogni battuta crudele, ogni commento insensibile rende il tutto ancora più duro. Ma ci sto provando. C’è una vita là fuori e non voglio più perdermene nemmeno un po’.
Testo originale: My trans life: Savannah Burton