Il cardinale Schönborn: «Ho conosciuto un coppia gay che era esemplare»
Intervista di Gian Guido Vecchi pubblicata sul “Corriere della Sera” il 14 ottobre 2014
«È questione di umanità. Non si può chiedere alla Chiesa di dire che va bene così, l’approvazione morale di una unione omosessuale, ma si tratta di riconoscere i valori umani e a volte veramente cristiani che si vivono…».
Il cardinale Christoph Schönborn, grande teologo domenicano che ha avuto un ruolo centrale nel dibattito del Sinodo, sfiora con le dita il Crocifisso sul petto, lo sguardo assorto oltre l’interlocutore. «In aula si diceva oggi che non dobbiamo identificare una persona con la sua sessualità. È un aspetto della persona, ma anzitutto bisogna vedere la persona. E ci sono grandezze e bellezze in ogni essere umano…».
Ad esempio, eminenza?
«A Vienna, ho conosciuto due uomini di tendenza omosessuale che convivono da tempo, hanno fatto un patto civile. E ho visto come si sono aiutati quando uno di loro è caduto gravemente malato. È stato meraviglioso, umanamente e cristianamente, come uno si è occupato dell’altro, restandogli accanto. Sono delle cose da riconoscere.
Gesù ha detto: i pubblicani e le prostitute vi precederanno nel Regno di Dio. E questo lo dice anche a noi, noi cardinali, vescovi, preti. Tante volte, anche se non approviamo questa forma di sessualità, possiamo inchinarci davanti a comportamenti umani esemplari».
La «Relatio» cita la «significativa chiave ermeneutica» del Concilio che lei ha fatto in aula a proposito delle «situazioni difficili». Di che tratta?
«È semplice: in ogni situazione, si può sempre vedere ciò che manca oppure ciò che già c’è. Facevo una analogia con il documento Lumen Gentium : allora la Chiesa cattolica ha optato per uno sguardo sulle altre confessioni e religioni che non puntava su ciò che manca — quello lo sappiamo — ma su ciò che invece c’è. Se manca qualcosa non significa non ci siano cose positive che, come dice il Vaticano II, “spingono verso” la pienezza. Lo stesso sguardo si può applicare alle situazioni che stanno in cammino “verso”.
Molti giovani e meno giovani, per dire, oggi convivono senza matrimonio ma possono scoprirne man mano la bellezza, il senso. Questa è l’idea di gradualità: non la gradualità della legge ma della scoperta e del compimento della legge, del suo vissuto».
Si può applicare anche ai divorziati e risposati?
«Qui c’è di diverso l’esperienza dolorosa di una rottura, che può essere un peccato grave, perché è grave la rottura di ciò che Dio ha unito.
Ma c’è anche l’esperienza anche di nuovi cammini. L’analogia si può applicare nel senso che, quando esiste una nuova realtà, ci può essere del bene.
Se ci sono figli di una nuova unione, ad esempio, c’è un bene reale: ci sono i bambini, c’è una nuova famiglia. È vero che certi hanno paura, di vedere il positivo…».
E perché?
«Perché temono sia un riconoscimento, in questo caso del divorzio. E invece no, è un constatare che c’è del bene. Del resto, è una paura legittima: per il partner che rimane fedele al sacramento, se vede che la Chiesa dà facilmente l’approvazione ad una nuova unione, può essere una nuova ferita».
Perciò si parla di «cammino penitenziale» per riammetterli alla comunione?
«Sì. Noi abbiamo sempre la tendenza a legittimarci. Ma prima di tutto dobbiamo guardare i nostri peccati. Noi siamo peccatori. Poi possiamo vedere come anche attraverso i nostri fallimenti possa iniziare qualcosa di buono».
Lei ha insistito sulla sofferenza dei figli
«Coloro che divorziano e hanno bambini non devono mai dimenticare che restano genitori. E non possono permettere che il peso del loro fallimento gravi sulle spalle dei figli. C’è tanta sofferenza, oggi…».
Ha parlato della sua sofferenza di figlio di divorziati…
«Avevo tredici anni. È strano, ma ti rimane il sogno che i genitori si ritrovino, fino alla fine della loro vita. È una cosa istintiva, non razionale. È il cuore. Ne conosco tanti, di figli nella mia situazione.
Rimane questo sogno che papà e mamma tornino assieme. Mi ha commosso il racconto di un divorziato che diceva: sono tornato a casa a Natale. Ho pianto perché è successo a me.
Mio padre aveva il cancro e due mesi prima di morire, a Natale, è venuto a casa. Eravamo già tutti adulti, i miei fratelli sposati, ma è stato un grande momento».
Francesco ha invitato a non restare chiusi nei propri sistemi e riconoscere i «segni dei tempi». Sta accadendo?
«Il Papa lo ha detto più volte, la Chiesa è un ospedale da campo e io sono contento che questo spirito si senta. Dobbiamo continuare a camminare.
Abbiamo un anno davanti a noi per approfondire la discussione, anche nel popolo di Dio. Penso che si inviterà la Chiesa a seguire le intuizioni e i risultati di questa tappa, per andare avanti verso il grande Sinodo del 2015».
Perché ospedale da campo?
«Perché ci sono tante ferite, intorno a noi, e vanno aumentando. Affettive, sociali, economiche. Quando vedo tanti giovani precari… come possono mettere su famiglia, senza nessuna certezza?
Queste sono le grandi sfide che il Papa ci invita a vedere con cuore, attenzione e impegno, perché le comunità cristiane sono la rete di sicurezza del nostro tempo. E la famiglia, anzitutto: la famiglia è la rete di sicurezza».