“Il Club” di Pablo Larraìn (2015)
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Scheda di Luciano Ragusa del film proposto durante il cineforum del Guado il 15 Aprile 2018
Perché Pablo Larraìn è tra i registi più importanti al mondo. Come spesso sottolineato, sia in sede di dibattito che in altre schede del nostro cineforum, il cinema assurge a forma d’arte quando, contemporaneamente, si fa vettore di riflessione sulla realtà (stimolando per esempio un’analisi socio-politica), e oltrepassa i limiti della messa in scena generando un nuovo immaginario filmico che offra una visuale differente sulle potenzialità del medium stesso. Sin dai suoi esordi, Pablo Larraín, ha fatto esattamente questo: sottrarsi ad ogni regola e convenzione per allargare le maglie del racconto in pellicola, e costringere lo spettatore davanti ad uno specchio in cui tutti, uomini e donne, sono «sull’orlo di una crisi di nervi».
Nato Santiago del Cile nel 1976, figlio di una coppia di politici appartenenti all’Unione Democratica Indipendente (un partito di area conservatrice) ha vissuto per intero la tragica dittatura di Augusto Pinochet la cui ferocia ha segnato in maniera indelebile ogni dimensione della vita e della cultura cilena. Questa esperienza traspare in ogni pellicola di Larraín, nelle quali, anche quando i soggetti non richiamano direttamente a quel vissuto, è sempre leggibile un sottotesto politico che tende a riflettere le connivenze delle istituzioni con il regime totalitario.
Dunque, uno dei tentativi sottesi nella poetica del regista, è scuotere i propri connazionali da una specie di abbaglio collettivo, da un malessere di cui, a più di un decennio dalla morte del dittatore, non sembrano ancora in grado di liberarsi pienamente (per completezza ricordiamo che Pinochet è stato Presidente della Giunta militare del Cile dall’11 settembre 1973 all’11 marzo 1981, che tra il 17 dicembre 1974 e l’11 marzo 1990 è stato il trentesimo Presidente del Cile, che dal 1973 al 1998 ha assunto la carica di Comandante in capo dell’Esercito cileno e che, dall’11 marzo 1998 fino al 10 dicembre 2006, data della sua morte, è stato Senatore a vita nel suo paese).
Fuga, il primo film di Pablo Larraìn, datato 2006, è ambientato negli anni settanta e svela immediatamente il suo stile provocatorio, attraverso la messa in scena, la genesi e lo sviluppo di un’ossessione musicale nello scenario soffocante di un istituto psichiatrico (che potrebbe essere identificato con lo stesso Cile), dove la musica, da sempre simbolo di vita, assume le sembianze macabre della morte.
Ad aumentare la notorietà di Larraín è stata poi la pellicola Tony Manero del 2008, vincitrice del Festival del Cinema di Torino e in concorso alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes. L’ambientazione è sempre il Cile degli ultimi anni settanta, dove un uomo di mezza età, Raúl Peralta, emula parossisticamente la vita del protagonista de La febbre del sabato sera senza però comprendere né l’aspetto tragico del personaggio interpretato da John Travolta, né l’iconografia edonistica dentro cui Tony Manero si muove. La simbiosi sarà tale da travolgere, in un esito sanguinario, la vita dello stesso Raúl Peralta e delle persone che gli stanno vicino.
Dopo Cannes e Torino, il passo verso Venezia è stato breve e l’ha portato a concorrere, nel 2010, al Leone d’Oro con il film Post Mortem, dove racconta il colpo di stato di Pinochet, avvenuto nel 1973, e le sue drammatiche conseguenze. Il punto di vista scelto dal regista è quello di Mario Cornejo, l’impiegato di un obitorio di Santiago che, di ora in ora, vedrà riempirsi di cadaveri il suo luogo di lavoro, fino a trovarsi di fronte la salma martoriata del presidente Salvador Allende. La prospettiva intima di Mario si confonde con la dimensione storica di ciò che è in atto, fino a comprendere che la sua vita, e quella dell’intero Cile, stanno precipitando nell’abisso.
Due anni dopo, Larraín, torna a Cannes con una pellicola No – I giorni dell’arcobaleno, che gli farà guadagnare il premio C.I.C.A.E. al Quinzaine des Réalisateurs, e, nel 2013, una candidatura agli Oscar nella categoria Miglior film Straniero. Più che mai lo sfondo è quello cileno, ma, questa volta, l’obiettivo si sposta dall’origine del male all’inizio della sua fine, ovvero, il referendum che il 5 ottobre 1988, avrebbe sancito l’atto iniziale del ripristino della democrazia in Cile, e l’inevitabile viale del tramonto del dittatore Augusto Pinochet. Ciò che caratterizza il film, non è la componente didascalica che ricostruisce la vicenda del referendum, ma la capacità del cineasta di stravolgere le regole delle opere a tesi: mischiando generi e linguaggi, decriptando lo scenario ambiguo e disonesto nel quale la componente storica si è espressa, senza risparmiare un giudizio sull’uso arbitrario delle immagini, e quindi anche del cinema, di cui il regime si era servito per manipolare la realtà.
Tralasciando Il Club, di cui ci occuperemo nelle prossime pagine, si giunge a Neruda del 2016, un lungometraggio unanimemente considerato tra i migliori del cineasta cileno che l’ha portato a vincere numerosi premi vinti in diversi festival in giro per il mondo. Anche in questo caso, come era già capitato con No – I giorni dell’arcobaleno, Larraín introduca nuovi modi di narrare vicende biografiche. La cronaca della vita e dell’attivismo del poeta vengono infatti rappresentati in una maniera surreale, in cui il piano della realtà, del sogno, del pensiero e della scrittura, si mischiano senza soluzione di continuità. Come il regista evidenzia in alcune interviste, lo stesso Neruda dichiarò all’Accademia di Svezia, nel discorso che aveva fatto in occasione del ritiro del premio Nobel per la letteratura, di non sapere se i due anni di cui si parla nel film, furono sognati, scritti o vissuti.
Nello stesso anno di Neruda esce Jackie (2016), con la splendida Natalie Portman a vestire i panni della first lady americana Jacqueline Kennedy: al di là dei premi (il più importante dei quali per la migliore sceneggiatura a Noah Oppenheim a Venezia) e delle diverse candidature, il cineasta è abilissimo a tratteggiare le ore e i giorni successivi alla morte di JFK (22 novembre 1963), concentrando la narrazione filmica sulla dicotomia tra la dimensione privata della first lady e ciò che il mondo si aspetta da lei; fra il dolore intimo di chi ha visto assassinare il proprio marito, e la ragion di Stato già pronta a voltare pagina verso nuovi lidi. Grazie alla famosa intervista rilasciata al giornalista Theodore H. White (avvenuta una settimana dopo l’omicidio di Dallas) sulla rivista Life, Jacqueline Bouvier Kennedy consegnerà al mondo, e alla storia, il ricordo del 35° Presidente degli Stati Uniti d’America.
A titolo informativo è da segnalare in lavorazione La storia di Mark Stroman, terrorista americano, ispirato alla vicenda del pilota dell’Air Force del Bangladesh, Raisuddin Bhuiyan, il quale, dopo aver realizzato il sogno di arrivare in America, viene ucciso, dopo l’11 settembre, da Mark Stroman, sedicente terrorista americano.
Il club
La pellicola, datata 2015, è stata proiettata per la prima volta in Italia il 23 ottobre dello stesso anno, in occasione di una retrospettiva dedicata a Pablo Larraín al Festival del Cinema di Roma. Fa la sua comparsa nelle sale cinematografiche italiane a partire dal 25 febbraio 2016, forte soprattutto dell’Orso d’argento al Festival internazionale del cinema di Berlino, e di una nomination al Golden Globe 2016. Anche in questo film, così come in Fuga, in Tony Manero, in Post Mortem, in No – I giorni dell’arcobaleno e in Neruda, Larraín affida uno dei ruoli principali ad Alfredo Castro, attore molto amato dal regista per la sua capacità ossimorica di far trasparire universi emotivi complessi in un volto pressoché monolitico. Nel 2012 Alfredo Castro ha partecipato ad un film italiano diretto da Daniele Ciprì (di solito in coppia con Franco Maresco) intitolato È stato il figlio. Il ruolo femminile è invece assegnato ad Antonia Zegers, moglie del regista stesso.
Trama
In un piccolo villaggio situato sulle coste cilene dell’oceano, la vita di un gruppo di preti, e di una suora, scorre apatica tra preghiere quotidiane e l’allenamento di un levriero a cui tutti sono affezionati. L’arrivo di un nuovo ospite sconvolge la routine dell’insolita famiglia, costringendo ciascuno di essi a ripensare, laddove possibile, ai motivi che lo hanno condotto a questo esilio forzato.
«Dio vide che la luce era cosa buona, e separò la luce dalla tenebre» (Gen 1,4)
Grigio, azzurro, toni smorzati, quasi una pittura tonale costruita con colori freddi. Poche le sequenze di luce piena, nitida, come se Genesi 1,4 non esistesse nello specifico contesto scenico, e nessuna separazione tra luce e tenebre fosse possibile. La scura neutralità dei campi, lunghi o corti che siano, non appartiene solo alla fotografia e alla scenografia, ma rimanda alla dimensione interiore dei protagonisti, vero spazio logico nel quale si consuma, senza speranza, la possibilità di una redenzione capace di far posto alla luminosità della consapevolezza. Come abbiamo più volte sottolineato al regista piace mischiare la dimensione individuale con quella storica del proprio paese: e allora la tavolozza dei colori con cui Larraín dipinge Il Club, diventa manifesto di una nazione dove la ragione di Stato, sia collettiva che personale, si orienta verso l’autoindulgenza, a metà strada tra la percezione di aver commesso un reato e l’assoluzione con formula piena.
Gli illeciti contestati ai personaggi della vicenda sono tutti esempi di come le istituzioni (che in questo caso è l’istituzione ecclesiastica) anziché affrontare i problemi, li allontani, perché è più utile evitare scandali piuttosto che intraprendere la via della giustizia e della verità. Dunque, il soggetto, non è da circoscrivere alla Chiesa cattolica e alle modalità attraverso cui esilia i propri sacerdoti fuoriusciti dalla legalità, ma all’intera dimensione politica del Cile (il riferimento sono gli anni successivi la morte di Pinochet), dove la microstoria dei singoli, si fonde con la narrazione di un paese colpevole nei fatti, ma pronto a impoverire fino alla scomparsa, le responsabilità che una lunga connivenza con qualsivoglia regime reca con sé.
«Attenzione! – suggerisce Larraìn, – respingere le proprie colpe, l’autoassoluzione, il rifiuto di essere considerati peccatori/complici del degrado di un’istituzione, religiosa o politica che sia, impedisce di fare ammenda dei propri atteggiamenti, smussando fortemente l’opportunità di fare i conti con se stessi e con le circostanze storiche in cui si è vissuto». Il tutto a a vantaggio, di una quieta ipocrisia.
Scheda
Regia: Pablo Larraín.
Sceneggiatura: Pablo Larraín, Guillermo Calderón, Daniel Villalobos.
Fortografia: Sergio Armstrong.
Montaggio: Sebastián Sepúlveda.
Musiche: Carlos Cabezas.
Paese di produzione: Cile.
Produttore: Juan de Dios Larraín.
Casa di Produzione: Fabula.
Produttore esecutivo: Juan Ignazio Correa, Mariane Hartad, Rocío Jadue.
Distribuzione in Italia: Bolero Film.
Scenografia: Estefania Larraín.
Interpreti: A. Castro (Padre Vidal), A. Zegers (Sorella Mónica), R. Farías (Sandokan), A. Goic (Padre Ortega), M. Alonso (Padre García), J. Vadel (Padre Silva), A. Sieveking (Padre Ramírez), F. Reyes (Padre Alfonso), J. Soza (Padre Lazcano).
Genere: drammatico.
Anno: 2015.
Durata: 97 minuti