Il “Coming Out” come combattimento con il divino
Rifessioni di Terence pubblicate sul blog Queer Spirituality il 30 giugno 2009, liberamente tradotte da Silvia Lanzi
… Ho voluto postare qualcosa sull’importante eredità della visibilità e del coming out. Dopo aver pensato a cosa dire, ho preso “Know My Name. A Gay Liberation Theology” di Richard Cleaver (Westminster John Knox Press, 1995) per rileggerlo e sono rimasto deliziato dal trovare che il suo secondo capitolo, “Knowing and Naming“, tratta esattamente questo argomento. Così invece che rimaneggiare o discutere ancora le idee del mio post di apertura di sei mesi fa (“Welcome: Come in, and Come out”), ho pensato di condividere con voi qualche intuizione di Cleaver.
Primo, Cleaver sottolinea che oltre all’attuale significato di “coming out” come uscita dal nascondimento, ce ne sono anche altri due importanti. Può anche venire in mente la storia dell’Esodo dell’uscita dalla terra d’Egitto, che significa fuggire dalla schiavitù e dall’oppressione; ed è stato usato prima di Stonewall per imitare il rituale inglese delle debuttanti di “uscire” in società – del raggiungimento del primo riconoscimento come adulto in essa. Per noi, allora, il coming out è la liberazione dall’oppressione, l’accettazione e il benvenuto in una società nuova. Cleaver continua dimostrando che questo coming out, così come lo intendiamo oggi, è un primo passo essenziale per ascoltare il messaggio di liberazione evangelica.
Per fare questo, egli sottolinea i costi ben noti del coming out: oppressione psicologica, aumento del rischio di suicidio (specialmente tra i giovani) e gli arresti conseguenti all’attività sessuale in bagni pubblici/case di uomini sposati o “velati” in qualche altro modo. Di contro, parla delle ricompense del coming out. Dopo essersi detti la verità, il passo successivo, quello di andare in contro agli altri come abbiamo fatto con noi stessi “di solito è più di un momento di trasformazione rispetto al riconoscimento privato e all’accettazione della nostra omosessualità… Fare coming out pubblicamente (un processo continuo e non un evento sporadico) porta un senso di libertà di cui dobbiamo fare esperienza per poterlo capire. Fare coming out è una dei nostri – molti – motivi di gioia“.
Questo è un sentimento che approvo con tutto il cuore, perché ne ho fatto esperienza, e a cui aggiungo l’ossevazione che “la gioia è un segno infallibile dello Spirito Santo“. Quindi ritorna ad alcuni possibili costi del coming out: una discriminazione attiva, anche sul lavoro, difficoltà in un approccio sicuro e adeguato con i bambini; il lasciarsi guidare verso un matrimonio eterosessuale in previsione di una ‘cura’; e infine l’ostilità, se non l’ingerenza, delle varie Chiese. Questo porta ad un fortissimo rifiuto nel coinvolgimento della vita ecclesiale:
“Non sorprende che sia che la lasciamo che ci restiamo, reagiamo alla Chiesa con sospetto. Qualcosa di quello che insegna, qualcosa su come concepisce se stessa è sbagliato. Nel caso del suo modo di porsi nei confronti di gay e lesbiche, possiamo trovare due spiegazioni particolari per questo sospetto.
Primo, la Chiesa ha permesso a se stessa di subordinare il comandamento dell’amore alle richieste della cultura eterosessista, sfidando l’ingiunzione di Paolo, “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare” (Romani 12:2)…
E’ il risultato della lunga ossessione della Chiesa per l’attività sessuale, che porta a ridurre la vita di gay e lesbiche al solo ambito dell’esperienza sessuale”
“Questo porta al mio secondo sospetto sulla Chiesa, e cioè il motivo del suo conformarsi alla mentalità del tempo, della sua compromissione con la cultura borghese: essa spera così di mantenere la sua autorità e il suo potere istituzionale evitando di far parlare gay e lesbiche delle loro esperienze. Bisogna considerare i benefici – autoreferenziali – di tale istituzione basata su una teologia che permette di tramandare decisioni senza che si siano raccolti i dati necessari.
E’ per questo che, aggiungo ancora una volta, sono convinto che abbiamo bisogno di uscire allo scoperto ed essere visibili nella Chiesa. Finché rimaniamo nascosti nel nostro angolino, finché ci tratteniamo dal parlare delle nostre esperienze, siamo complici della nostra stessa oppressione“.
Cleaver continua discutendo storie del Vangelo ben conosciute, traendone delle lezioni importanti per noi che facciamo parte della comunità LGBT.
Riflettendo sulla storia della samaritana al pozzo, evita alcune delle osservazioni più comuni, e ne fa altre due. Nota che, mentre riconosce la sua non conformità sessuale, Gesù non la ammonisce, né la condanna e quella non esprime alcun pentimento.
“Gesù non è un assistente sociale… il suo obiettivo è quello di trasformare la società, non quello di ‘sistemare’ chi patisce ingiustizie affinché l’ordine sociale esistente possa scorrere più liscio“..
Il secondo punto è che dopo lo scambio iniziale, la donna continua facendogli alcune domande “teologiche” sull’adorazione. Cleaver nota che questa storia non riguarda per niente la promiscuità, ma “chi è in grado di fare teologia”.
Si tocca ancora questo punto quando discute della storia di Maria e Marta (Luca 10). Mentre Marta lavora, Maria è seduta e ascolta Gesù che parla. Marta si lamenta, ma la risposta è che Maria “si è scelta la parte migliore“. Nella società ebraica ci si aspettava che le donne facessero i lavori domestici, mentre erano solo gli uomini che partecipavano a studi o a dibattiti religiosi, e c’era una divisione tra uomini e donne quando erano presenti ospiti a mangiare. Non si era mai sentito di donne che partecipassero a discussioni religiose, ma non solo Cristo la perdona per questo, ma la loda anche. Ci si aspettava che le donne ebree e gli emarginati fossero invisibili: ma per il Signore nessuno lo è e tutti sono invitati a fare della teologia.
Nel raccontare la storia del ricco epulone e di Lazaro (Luca 10), Cleaver lo paragona alla comunità LGBT “fuori dalla porta” della Chiesa, mentre il ricco è paragonato alla Chiesa istituzionale, che con la sua indifferenza, contribuisce alla nostra oppressione.
La sua ultima riflessione biblica è una lunga discussione sulla lotta di Giacobbe con l’angelo a Peniel (Gen 32: 22-32). Per Cleaver, ci sono due importanti temi in questa storia: la lotta in se stessa, e il dare un nome. A partire da ciò egli riflette sull’importanza di chiamare onestamente la nostra oppressione. Notando che “Impariamo a dare un nome alla nostra oppressione combattendola“, Insiste che dobbiamo presentarci in tutta franchezza e onestà, e questo implica il resistere alla tentazione di imitare i modelli tradizionali di moralità, solo per il desiderio di evitare di essere offesi: “La strategia di mostrare solo immagini “accettabili” di noi stessi è destinata al fallimento… Dovremmo essere sinceri riguardi a quello che siamo“.
Per me le tre lezioni chiave di Cleaver, che approvo con tutto il cuore sono:
– nonostante gli ovvi pericoli e costi, il coming out pubblico è rinvigorente e liberatorio;
– abbiamo bisogno di ampliare il processo del “coming out” alle nostre vite nella Chiesa, dovremmo essere pienamente visibili, e parlare in modo franco ed onesto delle nostre esperienze e dei nostri punti di vista;
e facendo ciò, eserciteremo il nostro diritto di condividere il fare teologia, nonostante gli sforzi della Chiesa istituzionale di detenerne il monopolio.
“Dobbiamo far sentire le nostre voci, con tutte le loro imperfezioni, in risposta alle aperture di Dio. Mosè balbettò, Israele zoppicò. Quel che importa non è l’apparenza ma l’integrità. Se Dio chiama, dobbiamo sapere chi risponde. Rispondiamo al nostro vero nome, perché è con questo che Dio ci chiama. Il prezzo per impararlo è quello di lottare con il divino“.
Amen
Testo originale: “Coming Out” as Wrestling with the Divine