Il coming out come uscita dal sepolcro della paura
Riflessioni del pastore A. Stephen Van Kuiken pubblicate sul sito della Lake Street Church di Evanston (Stati Uniti) il 30 giugno 2013, liberamente tradotte da Giacomo Tessaro
“Il coming out è un’esperienza universale, anzi un sacramento al quale siamo tutti invitati a partecipare. Il nostro personale coming out stimola altri a condividere la loro identità segreta, a prendersi il rischio di aprire il proprio intimo. Nella storia molti individui e gruppi sono usciti dal nascondiglio e dall’anonimato per dichiarare la loro identità unica, le loro opinioni uniche, le loro uniche credenze e speranze per il futuro.” Chris Glaser, Coming Out As Sacrament (Il coming out come sacramento)
Il testimone antico: Giovanni 11:17; 43-44
Oggi è il nostro culto annuale dedicato al Gay Pride, in cui celebriamo l’uguaglianza delle persone LGBTQ, e non penso che quest’anno ci sia un giorno più propizio di oggi. Ovviamente parlo delle due sentenze della Corte Suprema, che ha dichiarato incostituzionale la legge che proibisce il matrimonio omosessuale e ha confermato la sentenza del tribunale che aveva rovesciato la Proposta 8 [anch’essa proibiva il matrimonio omosessuale, in questo caso in California, n.d.t.], facendo così della California il tredicesimo Stato ad aver legalizzato il matrimonio omosessuale.
Come moltissime altre persone, incluso qualcuno e qualcuna di voi, mi sono impegnato in questa lotta per decenni. Più di dieci anni fa mi sono dovuto destreggiare tra giornalisti, telecamere e trasmissioni radio durante il mio processo di fronte al comitato della Chiesa Presbiteriana, che a causa del mio attivismo mi avrebbe fatto perdere il lavoro, la mia posizione e la mia Chiesa. La mia storia arrivò sui media nazionali e fu raccontata dall’Associated Press, dal New York Times, da The Advocate (che pubblicò un lungo articolo) e altri. Molta gente mi contattò da tutto il Paese, esprimendomi in termini incredibili il suo sostegno e la sua gratitudine. In quel frangente ricevetti la lettera di un amico che non vedevo da più di 25 anni.
Mark era il mio migliore amico al liceo. Andavamo bene a scuola e insieme avevamo scelto i corsi più difficili. Suonavamo nell’orchestra giovanile insieme, insieme partecipavamo al gruppo dei dibattiti. Eravamo in gamba, fin dall’inizio del liceo studiavamo su libri universitari, ma lui era più forte di me e aveva voti altissimi (e la cosa mi rodeva!). Io ero abbastanza pigro al confronto, mentre lui ottenne una borsa di studio per un’università dell’Ivy League [un gruppo di università tra le più antiche e prestigiose degli Stati Uniti, n.d.t.], nel giro di tre anni si laureò a Princeton e poi andò alla Columbia per studiare legge. Così perdemmo i contatti, ognuno per la sua strada.
Nell’ultimo anno di liceo Mark fece coming out con me e i genitori. Mi ricordo che i suoi genitori erano furiosi e lo mandarono da uno psicologo per “curarlo”. Mark, che nutriva la speranza di diventare un giorno Presidente (nel suo caso era un obiettivo realistico), vide crollare tutte le sue ambizioni politiche: negli anni ‘70 essere gay significava la fine della carriera politica. Mi ricordo la goffaggine della sua attrazione fisica per me, la mia incapacità di ricambiare i suoi sentimenti e noi due che in ogni caso rimanemmo ottimi amici. Ma l’amicizia è molto difficile quando gli ormoni ruggiscono. Ora ricordo soprattutto il rischio incredibile che corse facendo coming out con me. E se l’avessi picchiato, deriso, se gli avessi voltato le spalle? Cerco di immaginare come avrebbe reagito, ma non ci riesco.
E così, dieci anni fa ricevo questa lettera che comincia con “Ciao, vecchio amico”. Mi racconta che è single, che è sieropositivo e che vive nell’Est. Mi racconta la sua vita e spera che mi vada tutto bene. Poi mi scrive:
“Ho visto tua moglie accanto a te, nella foto vicino all’articolo. Spero che la tua famiglia stia bene.
Steve, è molto importante per i gay che degli etero compassionevoli ci difendano e stiano con noi. Ti dico grazie con tutto il cuore, da parte mia e da parte di migliaia di altre persone che non ti scriveranno mai ma ti seguono. Con affetto. Mark”
Sono stato veramente benedetto! Ho imparato moltissimo a proposito di me stesso, della fede, di Dio.
Un articolo di Tim McFeely apparso sulla Harvard Gay and Lesbian Review, intitolato Coming Out As Spiritual Revelation (Il coming out come rivelazione spirituale), parla del coming out come atto d’amore. Non più soddisfatta/o di interagire con gli altri in maniera superficiale, la lesbica o il gay si rivolgono a qualcuno aprendo la loro anima, come atto non di sfida ma d’amore. È un atto che implica rischio, vulnerabilità e fiducia. Scrive McFeely: “Penso che la causa che sta dietro alle reazioni negative dei famigliari nell’apprendere che il figlio o la sorella sono omosessuali sia il fatto di rendersi conto che per molti anni questo sia stato completamente nascosto. Il dolore e lo shock sono causati più dalla delusione che dall’apertura del/la famigliare. Basta far passare un po’ di tempo e la maggior parte dei parenti e degli amici giungeranno a considerare il nostro coming out una testimonianza della nostra fiducia e del nostro amore per loro…”. Spessissimo ho visto persone omosessuali, in precedenza alienate dai loro genitori a causa della paura e della possibile delusione, creare con loro un’intimità prima impensabile una volta aperta la porta del nascondiglio.
I gay e le lesbiche mi hanno insegnato moltissimo su cosa vuol dire essere un cristiano. Sono stato benedetto e continuo ad esserlo. Nonostante gli enormi rischi, guardando in faccia l’ingiustizia e la violenza, ho visto persone lottare per essere se stesse e dimostrare un notevole coraggio nello sforzo di essere vulnerabili di fronte agli altri. Nel suo libro Coming Out As Sacrament, Chris Glaser parla dei doni unici che le persone gay e lesbiche hanno da offrire alla Chiesa, se solo quest’ultima fosse abbastanza saggia da accettarli: “Il nostro personale coming out stimola altri a condividere la loro identità segreta, a prendersi il rischio di aprire il proprio intimo”. Anch’io la penso così. Noi parliamo molto di comunione ma la Chiesa non fa gran che per incoraggiarla e spesso si accontenta di una pallida imitazione, perché essere in comunione con qualcuno significa avere una relazione intima e offrirsi vicendevolmente il proprio autentico sé. Comunione significa coming out reciproco e questo è il motivo per cui le persone gay e lesbiche possono aiutare la Chiesa a giungere a livelli di comunione sempre più profondi. Noi etero possiamo imparare molto sull’esperienza della comunione, se solo siamo disponibili all’ascolto.
Un altro mio pensiero è che le persone gay e lesbiche mi hanno aiutato a capire meglio l’integrità, l’onestà e l’autenticità. La vita che Dio vuole da ciascuno e ciascuna di noi è una vita in cui il nostro stato interiore corrisponde alle nostre azioni. Mentre molte persone etero possono evitare di confrontarsi con l’integrità, le persone gay e lesbiche devono farci i conti fin dall’inizio, aiutandomi così a imparare sempre di nuovo a lottare per essere autentico: un tema basilare della fede. A mio avviso la vita che Dio vuole da ciascuno e ciascuna di noi è una vita in cui il nostro stato interiore corrisponde alle nostre azioni. Questo mi fa venire in mente quello che una volta disse Rosa Parks, la grande pioniera dei diritti civili: “Non agirò mai più in modo da contraddire la verità che risiede nel profondo di me stessa. Non agirò mai più come se fossi da meno della persona che dentro di me so di essere”.
Vorrei sottolineare un punto importante, che Glaser espone in una nota a pie’ di pagina. Parlando di quanto sia distruttivo il nascondiglio, ribadisce di non voler assolutamente scaricare la colpa sulla vittima: “Capisco come il nascondiglio possa essere, per alcuni e per un certo periodo di tempo, una scelta necessaria, sana o perfino morale, a seconda delle circostanze e dello stadio di sviluppo dell’individuo, ma credo che abbia sempre delle conseguenze per la salute generale e il benessere morale della persona. In pratica, il nascondiglio ferisce il suo occupante […] Credo anche che il coming out sia una scelta che si fa con alcuni e non con altri […]”. McFeely dice qualcosa di simile: “Il coming out non porta necessariamente alla felicità spirituale, ma per chi cerca delle intuizioni spirituali il coming out è una conditio sine qua non del cammino […] Se si vuole avere successo nella ricerca spirituale non si può rimanere nel nascondiglio”. Come uomo etero e come pastore leggo i commenti di McFeely e mi rendo conto di quanto la mia ricerca spirituale dipenda dall’uscita dal mio nascondiglio personale. Anche questa è una benedizione che ho ricevuto dalle persone gay e lesbiche.
William Sloane Coffin ha parlato una volta di quanto siamo tutti unici e diversi ma anche di come nessuna identità umana si esaurisca nella razza, nel genere e nell’orientamento sessuale: “Gli esseri umani sono pienamente umani solo quando trovano l’universale nel particolare, quando riconoscono che sono più le cose che abbiamo in comune che le occasioni di conflitto”. Ci sono alcune cose dell’essere gay che non capirò mai, altre cose sul nascondiglio che non potrò mai comprendere. Il nascondiglio è un’esperienza omosessuale ma anche umana; è particolare ma anche universale. Ci insegnano che la sincerità è una virtù e proviamo vergogna e senso di colpa quando celiamo parti essenziali di noi stessi. Un nascondiglio, qualunque nascondiglio, fa sentire insinceri. La vergogna viene interiorizzata e l’individuo sente che c’è “qualcosa da nascondere”. Il coming out ha qualcosa da dire a ciascuno e ciascuna di noi, se glielo permettiamo. Dice McFeely: “Non smettiamo mai di uscire allo scoperto e l’inestinguibile sete di verità è essa stessa il nocciolo della nostra spiritualità […] Il coming out pone fine al nascondimento, cura la paura e si oppone al cancro della vergogna”. Se poi la Chiesa guardasse più da vicino la sua storia, troverebbe moltissimi esempi di gruppi e individui che sono usciti allo scoperto, in senso lato e universale, persone di grande coraggio e convinzione che hanno condiviso le loro verità, uniche e profondamente sentite, in barba alle intimidazioni del potere.
Infine, il coming out può portarci all’accettazione priva di vergogna di quelle cose di noi di cui non andiamo fieri. C’è un detto che circola tra chi cerca di liberarsi da una dipendenza: “Siamo tanto malati quanto più abbiamo segreti”. In altre parole, quando non siamo sinceri con gli altri è molto difficile essere sinceri e autentici con se stessi e smettiamo di crescere, emotivamente e spiritualmente. Questo mi ricorda una grande frase di Joseph Conrad tratta da Lord Jim: “Nessun uomo comprende veramente i suoi trucchetti furbeschi dalla squallida ombra dell’autoconoscenza”. Coming out significa accogliere interamente noi stessi. Questo non vuol dire presentare un’immagine di noi stessi edulcorata e falsa, al contrario: se uscire allo scoperto significasse essere perfetti, nessuno lo farebbe, è un’aspettativa irragionevole. Uscire allo scoperto significa vivere con maggiore trasparenza e con meno vergogna e senso di colpa, è un cammino spirituale che conduce verso l’integrità e la guarigione.
Per me il coming out è affine all’immagine evangelica della “vita in abbondanza”, una vita senza paura, libera e gioiosa: una vita che si rialza, una vita di resurrezione. La vita come Gesù la desiderava per tutti e tutte. Una vita che anela a una comunione piena e profonda con tutti e tutte. Quando penso a Gesù penso a una persona che è uscita completamente allo scoperto (nel senso universale e umano) rivelando chi era e in cosa credeva, con grande rischio personale. Le persone che fanno questo mi stupiscono e mi ispirano; certamente mettono in evidenza la mia personale inadeguatezza e incapacità, ma mi offrono anche la speranza che questa vita in abbondanza sia disponibile anche per me. La saggezza che si riflette in Gesù ci chiama a levarci dai nostri sepolcri di paura per essere noi stessi senza timore, senza vergogna né sensi di colpa, verso la consapevolezza che l’amore di Dio è con noi qualunque cosa accada e che questo amore può darci la forza di smuovere le montagne. Come a Lazzaro, Gesù grida “Vieni fuori!” a una vita aperta, alla luce del sole, per toglierci di dosso il sudario che ci impaccia, per liberarci, per farci risorgere!
La chiamata all’impegno:
Anche se non hai fatto niente di vergognoso
ti vorranno vedere pieno di vergogna.
Ti vorranno vedere piangere in ginocchio
e sentirti dire che avresti dovuto essere come loro.
E una volta che dirai che ti vergogni,
leggendo la pagina che ti terranno aperta davanti,
allora la luce che hai sparso
nella tua vita ti lascerà.
Non avranno più bisogno di starti alle calcagna.
Sarai tu a stare alle loro calcagna, elemosinando il perdono.
Non ti perdoneranno.
Non c’è potere che valga contro di loro.
Solo il candore è a loro estraneo,
solo la carità interiore, priva di vergogna,
non possono raggiungere. Sii pronto.
Quando la loro luce ti inonderà
e le loro domande saranno esaurite, di’ loro:
“Non provo vergogna”. Un orizzonte sicuro
ti circonderà. L’airone spiccherà
il suo volo serale dalla cima della collina.
Wendell Berry, Non provare vergogna, da Collected Poems 1957-1982
Testo originale (PDF): Coming Out As Spiritual Practice