Il coming out è un atto di fede per ogni cristiano LGBT
Riflessioni di Brian G. Murphy pubblicate sul sito Queer Theology (Stati Uniti), liberamente tradotte da Silvia Lanzi
Quando noi persone LGBT facciamo coming out, ci avventuriamo in un territorio sconosciuto. Per molti è un atto di fede audace (e potenzialmente pericoloso).
Il mio coming out è stato il mio più importante atto di fede. È stato più importante che decidere di andare all’altro capo del Paese per il college, di lasciare il mio lavoro in un network televisivo ed avere lo stipendio decurtato della metà per lavorare per The Simple Way [un’associazione non profit che si occupa soprattutto dei poveri di Philadelphia, n.d.c.]. Il mio coming out è stato un atto di fede più grande di quando ho consegnato la mia vita a Gesù e l’ho accettato come mio personale Signore e Salvatore.
Sono cresciuto frequentando la Chiesa Evangelica Presbiteriana. I miei genitori si sono incontrati al liceo, su un autobus per il campo YoungLife. I nostri amici di famiglia più stretti venivano dalla Chiesa, da YoungLife, o erano comunque cristiani profondamente impegnati.
Certamente avevamo amici che non erano religiosi, o avevano una fede diversa dalla nostra (o erano cristiani di una Chiesa diversa), ma erano eccezioni che confermavano la regola.
La mia esperienza di conversione è stata semplice e breve.
Il signor McKinnon, il mio insegnante di catechismo, ogni settimana ci assegnava un compito. Una settimana, una delle domande era se avevamo accettato Gesù nei nostri cuori. La mia risposta era no, che non l’avevo fatto.
La settimana seguente mi chiese se avessi potuto rimanere in classe per poter parlare della mia risposta. Non avevo accettato Gesù come mio personale Signore e Salvatore non perché mi opponessi a lui, ma semplicemente perché il momento non era ancora arrivato. Mi chiese se lo volessi, e io dissi di sì (è probabile che avessi detto “Certamente”). Quella notte, o forse qualche notte più tardi, ero a letto e chiesi a Dio/Gesù di entrare nel mio cuore. E così fu.
Questo non significa che capissi la mia esperienza di conversione, che sarebbe andata avanti definendo la mia adolescenza e i miei anni di giovane adulto. I gruppi giovanili furono la mia attività sociale principale durante le medie e il liceo, e gli amici della Chiesa furono tra quelli più vicini e duraturi.
La mia fede cristiano-evangelica mi spronò a portare gli amici in chiesa e ai campi per l’evangelizzazione, mi ispirò a lavorare per YoungLife al liceo e nei campi estivi all’università, mi portò nella Repubblica Ceca per un’attività di costruzione di campi da gioco (e a giocare a calcio e a wall ball con i ragazzini del posto).
Ma mentre le ramificazioni di questa decisione erano state piuttosto notevoli, il momento della decisione era stato calmo, e la considerazione che le avevo dato minima.
La mia decisione di fare coming out non fu niente di che.
Sebbene avessi iniziato a capire che ero attratto dagli altri ragazzi all’incirca “nel periodo in cui i ragazzi e le ragazze iniziano a notarsi”, fu solo due mesi prima del mio diciannovesimo compleanno che lo dissi ai miei amici, mentre un mese dopo lo dissi ai miei genitori.
Prima del coming out mi immaginavo ogni scenario possibile. Come avrebbero reagito i miei genitori? E i miei amici? E poi… avrei avuto degli appuntamenti? Sarei stato sessualmente attivo? Come avrei potuto rimanere cristiano? Che possibilità di lavoro avrei potuto avere?
Qual sarebbe stato il destino della mia anima immortale?
Prima del mio coming out volevo “aver già tutto chiaro”. Volevo avere una sorta di immagine pulita e ordinata da presentare a me stesso e al mondo, che dicesse, “questo è quello che sono, questo è quello in cui credo, e questo è quello che farò nel mondo”.
Non andò così, arrivò invece il momento in cui seppi che non potevo più aspettare.
Logan Mehl-Laituri, un mio amico, descrive il momento in cui aveva capito di non poter più usare la violenza e combattere nelle forze armate statunitensi come una “cristallizzazione della coscienza”. Provai anch’io una simile “cristallizzazione della coscienza”, il momento in cui seppi di non poter rimanere più a lungo in silenzio sulla realtà della mia vita e del mio spirito.
Non avevo tutte le risposte, non sapevo esattamente come sarebbe andata a finire con questa verità, o cosa mi avrebbe riservato il futuro, ma sapevo che dovevo agire.
Ricordo il momento molto chiaramente: un’attrazione tra me e un nuovo amico che mi era fatto grazie alla compagnia del liceo. Eravamo andati a vedere un film a casa di un comune amico. Eravamo seduti uno accanto all’altro. E poi, lentamente, le nostre dita e le nostre mani iniziarono ad intrecciarsi. Mi stavo avvicinando ad un punto di non ritorno. Ci tenemmo per mano per il resto del film, e mi sembrò di essere rinato.
Quella sera, dopo che i nostri amici si erano addormentati sul divano e sul pavimento, ci scambiammo il nostro primo bacio. Il giorno dopo ammisi davanti a lui (in ritardo) di essere attratto dagli uomini. La sera di quel giorno mi incontrai con la mia amica Jennifer, e glielo dissi di persona. Il giorno dopo lo dissi all’altra mia migliore amica, Amy. Lo dissi a tutti gli amici, all’inizio pian piano e poi velocizzando la cosa, e loro lo dissero agli altri: e così lo seppero tutti.
Col senno di poi, sembra tutto così facile. Dovete dire solo:
“Sono gay”
“Mi piacciono i ragazzi”
“Sono bisessuale”
“Comunque non sono una ragazza, sono un ragazzo”
“Mi piacciono le ragazze”
“Devo cambiare il mio corpo”
Quello che va bene per voi.
Ma in quel momento, sembrava che fosse in gioco il mondo intero, ed era proprio così.
Prima di fare coming out, avevo fatto i conti con la possibilità che i miei genitori potessero infuriarsi, essere imbarazzati o avere dei rimorsi. Mi avrebbero cacciato? (Ne dubitavo) Avrebbero continuato a pagarmi l’università? (Era probabile, ma non certo) Sarei stato di nuovo il benvenuto nella mia Chiesa? (Improbabile) Sarei stato di nuovo il benvenuto in una Chiesa qualsiasi? (Non ero sicuro)
In Luca 14:26 Gesù dice: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”.
Mentre mi preparavo per fare coming out, ho dovuto fare i conti con la realtà che avrei potuto perdere tutto… tutto ciò che avevo conosciuto, amato, di cui mi fidavo e che mi era caro.
Ma dovevo farlo.
Dovevo farlo perché sapevo che c’era qualcosa di incrollabilmente vero nel mio orientamento sessuale. E anche se non avevo ancora bene in mente la dottrina, i precetti teologici o i punti di discussione biblici, sapevo, nel profondo del mio essere, che quella parte di me era buona, amata, creata in un certo modo perché era così che doveva essere.
Fare coming out è stato un rischio, un atto di fede, ed è stato infatti il mio primo vero atto di fede. E la lezione che ho tratto da quell’esperienza ha continuato a imprimere la sua impronta sulla mia vita e sulla mia fede fino ad oggi.
Qualunque cosa valga la pena fare, è qualcosa per cui vale la pena perdere tutto.
Testo originale: COMING OUT AS AN ACT OF FAITH