The Cross in the Closet. Ho fatto coming out per capire cosa significa essere gay
Testimonianza di Timothy Kurek* pubblicata sul sito Salon (USA) il 25 ottobre 2012, liberamente tradotta da Silvia Renghi
Volevo mettere in discussione le mie convinzioni cristiane conservatrici. Così ho fatto “coming out” con la mia famiglia — e la mia vita è cambiata radicalmente. Tornando a quando ero studente alla Falwell Liberty University, l’equivalente evangelica della West Point, la scuola mi ha insegnato a diffidare dei gay: erano tutti positivi all’HIV, pervertiti e pedofili liberali. Sarei cresciuto come un conservatore cristiano fondamentalista e volevo essere un buon “Esempio per Cristo”.
Ma le mie convinzioni iniziarono a cambiare dopo aver lasciato la Liberty al primo anno ed essere tornato a casa. Ritrovai me stesso andando regolarmente al karaoke notturno cui partecipavano tante persone gay, tanto che lo chiamavamo “Lesbaoke.”
In un primo momento mi sentii scomodo, ma col tempo trovai in quel luogo una nuova casa, dove ognuno era l’epitome dell’amore e dove la voce del giudizio dentro di me fu costretta al silenzio.
I frequentatori del bar divennero una sorta di famiglia, legati da qualcosa di più forte del legame di sangue: una combinazione di birra a buon mercato e successi degli anni ’70, ’80 e ’90.
Poi una notte, ebbi una conversazione con una donna di nome Elizabeth che mi costrinse a lottare con il mio passato cristiano. “Ho fatto coming out con la mia famiglia ieri,” mi disse con gli occhi umidi. “Mio padre mi ha detto di andarmene di casa con tutte le mie cose e che non avrebbe pagato un altro centesimo per la formazione di una “figlia lesbica!”
Poggiò la testa sulla mia spalla ed io abbracciai il suo esile corpo. Ma poi la tradii. Senza pensare, tradii la gentile creatura dal pianto interminabile che giaceva sulla mia spalla: stavo in silenzio. E mi resi conto che odiavo Lizzy. Non perché fosse una cattiva persona, ma perché le piacevano le donne.
Ciò era una sfaccettatura del suo essere sufficiente per essere contro di lei, non riuscivo a comprenderla. La Bibbia ci dice di amare gli altri come noi stessi. Come poteva essere questa la voce di Gesù? E se questa voce non era di Gesù, di chi era?
Volevo saperlo. E in quel momento mi venne un’idea: mettermi nei sui panni di Lizzy – nei panni delle persone che ero nato per odiare. Le implicazioni dell’idea furono schiaccianti.
Farlo avrebbe significato rovinare la mia vita. Ma che tipo di vita avevo avuto se esisteva una tale barriera tra me e le persone che amavo? Per i successivi sei mesi sentii crescere quest’idea che si radicava dentro di me come una decisione che era già stata presa. Ero destinato a questo. È stata una chiamata che non ho né cercato né capito, ma non potevo ignorare il senso divino dell’affermazione contenuto in essa.
L’idea era abbastanza semplice o così pensavo: fare coming out come gay davanti alla mia famiglia, agli amici e alla Chiesa e vedere come l’etichetta di gay avrebbe influenzato la mia vita. L’ultima possibilità per testare tutto quello che mi avevano insegnato due decenni di educazione nella Chiesa Battista indipendente.
Avevo vissuto a Nashville da quando avevo due anni e l’amavo. Come molte città del sud, abbiamo vissuto ad un ritmo molto più lento. Era un luogo di fede e di politica repubblicana, dove il tè freddo era il vizio d’elezione ed essere un membro di questa chiesa era più prestigioso che appartenere ad un country club.
Crescendo sono diventato il ragazzino unico responsabile del successo “dell’industria delle falsità”. Sto più ore in Chiesa della maggior parte dei pastori. Le trasmissioni televisive come “Power Rangers” erano off-limits per la loro musica mondana (non per la violenza), così come i film come “Free Willy” per la loro causa “ambientalista.”
Non mi è stato mai permesso di credere in Babbo Natale o nel coniglietto di Pasqua e non una volta in occasione di Halloween i miei genitori mi hanno permesso di travestirmi per andare a fare “dolcetto o scherzetto”. Dicevano che era il giorno del “diavolo” e io ero troppo giovane per protestare. Tuttavia niente di tutto questo davvero mi importava. Avrei solo voluto essere normale, anche se non ero molto sicuro di cosa fosse veramente normale.
Una delle prime lezioni scolastiche domenicali che mi ricordo fu “Sodoma e Gomorra”. Non avevo più di sette o otto anni. Guardai con soggezione il tabellone che mostrava la distruzione della città, riprodotta in feltro. L’insegnante della scuola domenicale collocò “la pioggia di fuoco che pioveva dal cielo” sul tabellone con cura, così come l’aveva conservata. Ogni pezzo, compresa la gente, sembrava qualcosa di simile ad un film di fantascienza.
Ricordi della mia infanzia mi avevano afflitto a partire da quella sera al bar con Liz, ma nessuno di loro era rimasto com’era. Ora li vedo per ciò che in realtà potrebbero essere: il “campo di addestramento” spirituale che mi ha insegnato come utilizzare la Bibbia per voler male invece che per amare. Ero stato allevato come un “agente” della Bibbia, un omofobo; la mia decisione non fu facile.
Tuttavia agire non fu semplice. Settimane di notti insonni in seguito alla mia decisione di andare avanti con l’esperimento. Sono diventato uno zombie insonne, ossessionato oltre ogni limite dall’esperimento e anche un eremita. La mia mancanza di contatto con il mondo esterno preoccupò il mio migliore amico Josh e non ci volle molto prima che fossi portato ad andare a casa sua per dirgli tutto. Era colpa sua se avevo iniziato andando al karaoke, dopotutto – e stavo per renderlo partecipe, che gli piacesse o no! Dopo qualche breve e piccola chiacchierata, titubante gli dissi. “A proposito, ho deciso di fare ‘coming out’ con la mia famiglia e con gli amici.”
“Cosa? Ma tu non sei gay!” Mi guardò scioccato e la confusione sul suo volto quasi alleggerì il mio umore. “Tu sei…? “Certo che no! Tu mi conosci meglio di chiunque altro”, dissi. “Conosci la mia storia, come sono stato cresciuto e tutto il resto.” Uno sguardo di riconoscenza fiorì sul suo volto e il suo atteggiamento cambiò. “Perfetto!” disse. “Se ti metti nei loro panni, potresti non essere così “stronzo” ai loro occhi.”
“Hey, ora! Non sono…Beh, sì, fondamentalmente lo sono. Ma non voglio più essere uno “stronzo”, dissi, mentre Josh mi sorrideva. “È solo che, beh, non sono sicuro di dover…” detti voce alla mia esitazione, stando a guardare se mi avrebbe detto di lasciar perdere o mi avrebbe incoraggiato a portare avanti l’idea.
Josh vide la mia esitazione. “Se non lo farai, ho intenzione di trovare qualcuno che loro farà al posto tuo. Questa è l’idea migliore che abbia mai avuto e deve essere portata avanti. Tim, questa è la tua occasione per mettere in discussione tutto ciò che hai imparato! È la possibilità di “elevarti spiritualmente”. Tutto ciò sta per cambiare la tua vita!” Mi conosceva troppo bene. Sapevo che non avevo scelta.
Negli ultimi tre mesi sono stato in piedi davanti allo specchio in camera e ho provato il mio discorso per il “coming out” non meno di cinquemila volte e pensavo di averlo memorizzato. Ma la paura ha cancellato la memoria. I palmi delle mie mani sono sudati e, anche se siamo a metà inverno, una goccia di sudore si forma anche sulla mia fronte. Nulla potrebbe prepararmi al momento in cui guarderò mio fratello Andrew negli occhi e gli dirò che sono gay.
Mia cognata, parente recentemente acquisita in famiglia, sta in piedi accanto a suo marito nella cucina della loro casa, massaggiandogli la schiena empateticamente.
La lancetta dei secondi dell’orologio sopra la porta d’ingresso raggiunge ogni “tacchetta” con la forza di un colpo di martello. Gli amici sono sotto il portico coperto nelle vicinanze, fumano e ridono. Vorrei sapere di cosa. La lavastoviglie fa dei click, il primo carico di piatti sporchi dopo i nostri pancake per colazione. Due, tre, quattro pile di piatti ordinatamente impilate nel lavandino; lo sciroppo rimasto gocciola sopra il bordo del piatto superiore. Ancora non posso parlare. Infine, dal nulla, accade.
“Sono gay!” A quelle due semplici parole fece seguito il silenzio. Ero in stato di shock. L’attesa prima di pronunciare quelle parole era stata una sorta di inferno, ma attendere mio fratello per rispondere loro era il secondo inferno, più lungo del primo. I miei occhi erano vicini alle lacrime e la paura dentro di me stava crescendo. Mi sentivo vile, pietrificato, una mano ancora copriva la mia bocca.
“Stai scherzando, Tim?” La voce di mio fratello suonava diversa. Non era la sua voce normale. Variava e strideva mentre parlava e posso dire che dallo sguardo sul suo volto stava cercando di capire se ero serio o no, sperando che le successive parole che sarebbero uscite dalla mia bocca sarebbero state Ma si! o Sto scherzando! “No, non è così.” Il mio corpo cominciava a tremare come in attesa del “contraccolpo”.
Non avevo mai pensato che fare coming out come gay sarebbe stato così difficile, emozionante, terrificante. Non è la paura che la vita non prosegua; piuttosto, che la vita non risolva la questione in qualche modo. Le domande e gli stereotipi e la paura per tutte le relazioni che potrei perdere mi consumano. Non voglio perdere i miei amici e non voglio che la mia famiglia mi tenga a distanza.
Non voglio essere la pecora nera della famiglia o il fratello o il figlio gay diverso. Voglio essere me stesso. Ma essendo cresciuto in una casa religiosa conservatrice so che queste speranze non sono ragionevoli. Vivere nella cultura della “Cintura Biblica” rende la prospettiva di sentirsi normale e contemporaneamente gay probabilmente impossibile. Non posso immaginare come sarebbe il coming out se fossi davvero gay. Un anno può sembrare un periodo molto lungo, ma una vita sarebbe davvero troppo.
Lo sguardo sul volto di mio fratello che elabora la mia rivelazione ne è la prova. Nulla quest’anno sta diventando facile. Poi la moglie di mio fratello, Maren, mi guarda con la grazia di una sorella e il volto di Andrew assume un sguardo fatto di simpatia e protezione. Non so perché mi sta guardando in questo modo, ma non è minaccioso. Non l’avevo mai visto prima e mi sorprende.
Mia cognata mi viene vicino e giocosamente mi afferra per il mio collo. “Avevi davvero paura che ti mandassimo via per il solo fatto di essere gay?” mi chiede mentre la sua mano accarezza la mia schiena ancora molto rigida. Il mio polso è accelerato.
“Onestamente, non sapevo come avreste reagito”, rispondo, ancora tremante.
Andrew mi si avvicina e mi circonda col suo braccio. Sono nel mezzo a queste due persone e mi sento come se appena le conoscessi. Sono stato troppo duro sul loro conto, partendo dal presupposto che mio fratello avrebbe reagito male al mio coming out come se lui lo avesse fatto con me? Non so cosa pensare.
Mi è stato detto che la maggior parte dei membri della famiglia fa domande dopo aver scoperto che una persona cara è gay. Ma loro non mi hanno chiesto da quanto tempo so di esserlo o da quanto mi “sento in questo modo” e se ho un fidanzato. Anzi, hanno lasciato che fossi me stesso. È una cosa bella che nonostante tutto credevo, o almeno pensavo, potesse accadere; nel nostro caso il sangue realmente supera il dogma.
Ora è il momento di dirlo ai miei genitori. Non so se lo farò.
* * *
Prima di andare a casa di mia madre, 20 minuti a nord dell’Hermitage, nel Tennessee, mi fermo a casa della mia amica Hope. Ho dormito molto poco la scorsa notte e ho bisogno di riposare qualche ora prima di vedere mia mamma. Entro e mi lavo prima di andare in cucina. Hope mi versa un bicchierino di vodka mentre sono in bagno. Me lo porge e poco più tardi il mio petto si riscalda come se quella bevanda trasparente scorresse lungo tutto il mio corpo.
“E poi?” chiede lei.
“Sto andando a chiedere a mia mamma se vuole prendere un caffè con me e poi glielo dirò.”
“Suona bene. Hai intenzione di riposare per un po’?”
“Non penso di poterlo fare.”
“Devi provarci,” dice.
“Sto per andare a chiamarla e a cercare di convincerla a incontrarmi,” dico.
Dopo un po’ di chiacchiere, composi il numero di mia mamma e misi il telefono all’orecchio. Mi sembrò passare un’eternità prima che mia mamma rispondesse, gli occhi mi davano una visione appannata e mi rassegnai all’idea di poterle spaccare il cuore.
“Ehi, mamma, possiamo prendere un caffè o qualcos’altro, più tardi? Ho bisogno di parlare con te di qualcosa.” Una parte di me si chiedeva come mi avrebbe risposto. Non potevo fare a meno di chiedermi se mi avrebbe creduto. “So che cosa hai intenzione di dirmi”. La sua voce, di solito stravagante e acuta, suonava cupa. Sembrava che avesse pianto, la sua voce era rauca e rotta.
“Di cosa stai parlando?”. “So che pensi di che essere gay. Andrew mi ha chiamata poco fa.” Sembrava essere in attesa di conferma, quindi gliela diedi. “Pensare di essere gay? Mamma, io sono gay”. Non potei fare a meno di rispondere sulla difensiva.
Perché lei dice pensi? Pensare, così come l’ha detto, è come lasciare spazio all’errore e al dubbio e se so qualcosa è che nessuno avrebbe avuto il buon senso di dichiarare il proprio orientamento sessuale al mondo se “avesse solamente pensato” di essere gay. È troppo rivoluzionario e doloroso farlo a casaccio. Non solo, ma nega anche la dichiarazione di per sé, una dichiarazione che richiede tempo per chi la fa.
“Torna a casa, Tim. Ne parleremo qui.” La sua voce si abbassò e io a malincuore feci cenno a Hope che era il momento, per me, di andarmene.
Arrivo a casa di mia madre. Appena entro nel vialetto la vedo in piedi sui gradini davanti casa che mi attende. Non mi ha mai salutato in questo modo. Una parte di me sente sollievo al pensiero che lei già lo sappia, ma un’altra parte, più ampia, sente la rabbia per aver perso l’opportunità di dirglielo di persona. Esco dalla macchina, prendo la mia borsa e mi incammino verso di lei. Quando raggiungo il gradino più alto, lei mi abbraccia.
Mi lascio andare tra le sue braccia come un bambino che si è appena sbucciato un ginocchio e lei mi sostiene.
“Tim, ti voglio tanto bene. Lo sai, no?” mi chiede mentre la mia testa poggia sulla sua spalla. Non posso fare a meno di essere orgoglioso della mia mamma. Così avrei dovuto trattare Liz.
“Sì, ma so che questo non è qualcosa che vuoi sentire da me.”
“Ci penseremo poi. Ti vorrò bene lo stesso. Dammi solo un po’ di tempo.”
“OK”. Non posso dire molto in risposta. Sono troppo stanco, ma felice che stia facendo un tentativo per dimostrare che si preoccupa per me. Andiamo dentro e ci sediamo sul divano, dicendo molto poco mentre ci abituiamo a qualcosa di nuovo. Alla fine lei parla.
“L’hai già detto a tuo padre?”
“Non ancora. Gli manderò un’email. Non ho la forza di avere un’altra conversazione oggi.”
“Non devi fare tutto in un giorno,” dice.
“Lo so”, dico.
Cerco di immaginare quanto le cose sarebbero state più difficili se lei e mio fratello non si fossero preoccupati abbastanza di farmi vedere che mi amavano ancora. Il mio cuore si spezza per coloro che hanno effettivamente perso la famiglia dopo il coming out. Non posso immaginare la sensazione di vulnerabilità nell’essere abbandonato dalle persone che supponi essere sempre lì per te.
Penso ancora a Lizzy quella notte al karaoke, sei mesi fa e avrei voluto sapere. Avrei voluto sapere come ci si sente, avrei voluto avvolgerla con le mie braccia e rammaricarmi e accettarla con il suo dolore. Sopraffatto dai sensi di colpa, dalla vergogna e dalla tristezza, salgo al piano di sopra per andare a letto. Sono le 16.26, ma sono pronto per dormire.
Tutto ciò che suscita il tipo di paura che ho sentito oggi richiede coraggio per essere superato. Non avrei mai creduto che fare coming out fosse un atto di coraggio. Fino ad oggi, fare coming out come gay ha sempre rappresentato codardia e senso di rinuncia.
Credevo fosse un semplice gesto per chi non vuole superare la perversione e il peccato. Ma se oggi ho imparato qualcosa è che l’atto di fare coming out e mettere a rischio la vita così come l’hai sempre vissuta è una cosa coraggiosa, un atto degno di rispetto.
* Timothy Kurek è l’autore di “The Cross in the Closet” (BlueHead Publishing, 2012, 354 pagine) da cui questo testo è tratto. Vive a Portland, Oregon. Il suo sito web è TimothyKurek.com
Testo originale: Undercover as a gay man