Il Dio queer. Quando l’amore divino rompe la gabbia della decenza
Recensione di Claudio Canal pubblicata su “Il manifesto” del 11 dicembre 2014
Non ho capito la metà di questo libro. Ma l’altra metà mi ha folgorato, per la traiettoria di nuovi sguardi che riesce a offrire. Qualcuno, che non l’ha letto, ha preso il titolo “Il Dio queer” e l’ha tradotto in base al proprio vocabolario mentale: Il Dio frocio, il Dio ricchione, poi ha imprecato ad alta voce bestemmia!
Il libro, pubblicato dalla casa editrice valdese Claudiana di Torino (pp. 315, euro 24,50) nella collana Piccola biblioteca teologica, presenta per la prima volta al pubblico italiano un lavoro organico della teologa argentina Marcella Althaus Reid, nata a Rosario nel 1952 e morta nel 2009 ad Edimburgo dove insegnava teologie contestuali da alcuni anni..
Uno sconcerto teologico
Nel 2000 aveva pubblicato “Indecent Theology. Theological Perversions in Sex, Gender and Politics” (Routledge). Un saggio meno impenetrabile dell’attuale, più vitale e ironico, mentre in alcune parti de Il Dio queer Marcella Althaus Reid sembra quasi parlare in lingua, una specie di glossolalia visionaria non sempre facile da decifrare.
Chi legge può fortunatamente appoggiarsi sull’ampia introduzione di Gianluigi Gugliermetto che, oltre a tradurre impeccabilmente l’arduo testo, offre una presentazione complessiva e approfondita del pensiero della teologa. La postfazione di Letizia Tomassone ne coglie alcuni aspetti basilari che danno la rotta alla lettura.
È invece saltata la dedica dell’edizione originale: «Questo libro è dedicato a tutti i miei amici e amori ed a tutti coloro che nella vita vanno come me “liberi e s-catenati”, cercando Dio in mezzo agli amori, gli amorazzi e tante solitudini». Peccato, era un motivo non marginale di questo cacofonico sconcerto teologico. Anche un classico indice dei nomi non avrebbe guastato.
Per scompaginarci la teologa argentina non esita a bistrattare il linguaggio mettendo a dura prova i nostri nervi, impaurendoci e lasciandoci, come minimo, frastornati. Titoli di alcuni paragrafi: Dio voyeur, Trinità come orgia, Dio come sodomita, Eiaculazione precoce: Dio in transito, Sodomizzare l’ermeneutica, Teologia della liberazione pubica. Fuochi d’artificio linguistici che testimoniano l’impegno a nominare e rinominare, a produrre nuove metafore piuttosto inedite, ma non indicibili, come sembrerebbe a prima vista.
Infatti, chi è il Dio queer? È il Dio che è andato in esilio con il popolo di Dio ed è rimasto con loro. Un Dio fluido e instabile, clandestino, indocile, un estraneo che sta davanti alla porta del nostro attuale ordine amoroso ed economico.
Un Dio che fa coming out della sua marginalità e della sua onni-sessualità che oltrepassa qualsiasi dogmatica dell’eterosessualità. Ma che genere di Dio è? È un Dio sfrenato e poliamoroso, il cui sé si compone in relazione ai suoi abbracci multipli e alla sua mancanza di definizione sessuale. Dio è un mescolamento di generi. Un Dio che non disdegna gli eccessi, pieno di desideri trasgressivi a causa del suo amore per gli esseri umani.
La rottura del canone
La teologia della liberazione di matrice latinoamericana, da cui Marcella Althaus Reid rivendica la provenienza, ha visto il corpo affamato, il corpo emaciato, il corpo torturato e sfruttato, ma non il corpo sessuato.
In questo modo ha scansato le turbolenze dei corpi scalpitanti di desiderio e di piacere, lasciando così intatto l’ordine eterosessuale che la conquista europea dell’America Latina ha imposto fin dall’inizio, facendosi forte di una presupposta e fondante eterosessualità di Dio.
È stata l’ingiunzione di una decenza che ha scaricato nell’indecente tutto ciò che fuoriusciva dal canone, tutto ciò che non combaciava con l’ideologia sessuale europea, cioè la teologia, rendendo impossibile e illeggibile la presenza di Dio tra le «impurità» del mondo.
Avendo bene in mente che la teologia queer è una teologia materiale che prende i corpi sul serio (qualcuno ha visto i santi e le sante in mutande?) l’autrice va alla ricerca nelle società latinoamericane di tracce di indecenza e di abiezione sopravvissute in pratiche religiose e sessuali estromesse. L’abietto, il gettato fuori di sé, come Lacan insegna, costituisce spesso il contrappunto proibito e sovversivo in opposizione all’ideologia dei corpi asserviti e disumanizzati. Uno dei gradi di lettura postcoloniale più appassionanti di questo libro.
A costruire il circolo ermeneutico libertino, come lo chiama Marcella Althaus Reid, vengono convocati De Sade, Bataille, Klossowski, Deleuze, oltre a Hélène Cixous e Judith Butler, tra le altre.
Cruciale il ricorso alla connazionale Alejandra Pizarnik (moderatamente presente nell’editoria italiana), grande poeta estenuata dall’orrida decenza propugnata dalla giunta militare argentina, e al porteño Federico Andahazi, autore de L’anatomista, romanzo in cui scoperta dell’America e scoperta del corpo femminile orgasmico si intrecciano nelle persone di due omonimi italiani, Cristoforo e Realdo Colombo. Gira e rigira la mobilitazione di queste intelligenze e una fine esegesi queer di alcuni luoghi biblici (Sodoma, Lot, Raab) ci conducono ad uno dei cardini del cristianesimo non imperiale: l’inno cristologico presente nella «Lettera ai Filippesi» di Paolo in cui si afferma che Dio, in Cristo, si è spogliato della sua divinità per prendere la forma di servo, di ultimo tra gli ultimi.
Uno svuotamento e dissolvimento delle prerogative divine che ha sempre ispirato i gesti antagonisti al dispotismo dell’Onnipotente e dei suoi ultrà.
Etica della passione
È la kenosi (io vuoto), in cui la mascolinità dei cieli si perde nelle identità fluide, ambivalenti e arrabbiate, in cui Dio esce dai nascondigli della eterosessualità, si incammina nei vicoli bui che lo portano fuori strada. Un Dio de-genere che prende corpo, una incarnazione in cui la carne è vera carne e sangue che pulsa.
Un Dio che non può essere cooptato da nessuno, non è embedded ad alcuna ortodossia né femminista né queer. Proprio per questo è tuttavia un Dio queer, instabile, fluido, trasversale, promiscuo, obliquo, forse perfino un po’ goffo, che sta fuori della legge, ma nella giustizia, che transita in quei territori dove donne e uomini stringono imprevedibili amicizie e amori, non importa con quale etichetta di genere, dove la sintassi normativa della eterosessualità retrocede senza fallo, dove qualcuno è pronto a mostrare il sedere alle multinazionali.
Per Marcella Althaus Reid, matrice Paulo Freire e la pedagogia degli oppressi, è un’etica della passione e i corpi innamorati di un amore indecente che la vivono, sovvertono le modalità di organizzazione sociale e di produzione degli scambi economici e affettivi. È queer ciò che dubita di questa normalità espressa dal capitale, interpretando il capitale come qualcosa che si riferisce anche alle relazioni. Un’escatologia dei corpi abietti in rivolta che promette bene oppure riconferma della sua smagliante solitudine?
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Marcella Althaus-Reid, Il Dio queer, a cura di Gianluigi Gugliermetto, Postfazione di Letizia Tomassone, pp. 315