Il diritto alla famiglia: il caso delle famiglie omo(genitoriali)
Articolo del 6 marzo 2013 di Margherita Graglia pubblicato su risky-re.it
L’Europa sta arrivando anche in Italia; non parliamo di economia, ma del riconoscimento di alcuni, fondamentali diritti umani. Nel nostro paese assistiamo ad un vuoto normativo (…); quest’assenza è una chiara espressione a livello macro dello stigma: il mancato riconoscimento giuridico (del matrimonio tra persone dello stesso sesso, dell’adozione per le persone omosessuali, della legge contro l’omofobia) comunica implicitamente che queste istanze non sono degne, quindi contribuisce indirettamente a perpetuare lo stigma nei confronti delle persone LGBT, a creare dei cittadini di serie B.
Il mancato riconoscimento è una forma di quell’atteggiamento culturale rispetto all’omosessualità tipicamente italiano, che è il silenzio. Un sistema ipocrita e patogenetico che tuttavia non può più proseguire, in questo caso grazie all’Europa Ad esempio l’anno scorso è stato approvato il “Rapporto sulla parità dei diritti tra uomo e donna”.
Il documento stabilisce che i governi dei Paesi membri non devono dare “definizioni restrittive di famiglia” al fine di negare diritti e tutele agli omosessuali e ai loro figli. Inoltre il documento rivolge al Consiglio europeo la richiesta di “riaffermare il principio di uguale trattamento senza distinzione di religione o credo, disabilità, età o orientamento sessuale”.
E’ probabile che la soluzione italiana consisterà in qualche forma di riconoscimento delle unioni civili, considerato che per molti è improponibile, per questioni ideologiche e di potere, parlare di matrimonio. Per la nostra Costituzione, nonostante le affermazioni di incostituzionalità, non ci sono vincoli di diritto naturale inteso come necessaria differenza tra i sessi, per accedere all’istituto matrimoniale; lo ha stabilito la sentenza 4184 della cassazione, del 13 Marzo 2012, in quanto all’art. 29 della Costituzione non c’è nessun riferimento alla diversità di sesso dei coniugi.
Rispetto a queste istanze il dibattito italiano è praticamente inesistente, ridotto alla retorica del “sono altre le priorità!”, “il matrimonio è solo tra uomo e donna!”, “se riconosciamo le unioni poi vorranno le adozioni!”. Frasi inscatolate che pungono sul vivo chi ascolta, dove “il vivo” qui è un miscuglio di pregiudizi, stereotipi, assiomi culturali, pseudo conoscenze, miti, paure ancestrali. Impossibile sfiorare l’assioma culturale “ci vogliono un padre e una madre”, “di mamma ce n’è una sola” senza che i toni si surriscaldino, la possibilità di interrogarsi si inabissi ed emerga prepotente la chiusura e un violento e sordo “no”. Impossibile aprire la questione ed esplorare per interrogarsi, interrogare e capire. Impossibile riflettere e chiedersi realmente: quali sono i presupposti socio-culturali su cui fondiamo il concetto di famiglia?
Perché abbiamo assunto questi presupposti? Antropologicamente ne esistono altri? Perché siamo così attaccati a questa divisione dicotomica: uomo o donna? (o meglio, quale funzione psico-socio-economica svolge questa opposizione?) Perché chiudiamo l’esplorazione con la pseudo risposta: “la natura ha previsto così”? Cosa intendiamo dire quando affermiamo che per la crescita di un figlio è necessario un padre e una madre? La mascolinità è appannaggio degli uomini e la femminilità delle donne? Che cos’è la paternità? E la maternità? Esistono, in ambito antropologico, altri punti di vista?
Quali sono le caratteristiche di un buon genitore? Sono connesse con l’orientamento sessuale? In che modo? Di che cosa ha bisogno un bambino per crescere in salute, sereno e per poter esprimere le sue potenzialità al meglio? Di un genitore eterosessuale? Perche? E’ forse l’eterosessualità un indicatore di salute mentale? Come professionista della salute, per comprendere la realtà delle famiglie omogenitoriali ritengo sufficienti le teorie che ho studiato all’università durante la specializzazione o è necessario che mi confronti con teorie e dati aggiornati?
In definitiva sono le domande che ci poniamo che aprono o chiudono gli scenari possibili, aprono o chiudono i cancelli; occorre che, come comunità, non soltanto ci rendiamo disponibili a interrogarci sull’esistente ma ci apriamo a interrogare le nostre stesse domande. Nulla può essere scontato e ovvio; come animali culturali sappiamo che attribuiamo costantemente significato all’esistente e questo fa la differenza, per noi e per gli altri. Creando concetti insondabili, come quello di “Natura” costruiamo mondi abitabili per chi è “secondo natura” e mondi inospitali per chi è “contro natura”, ma questa è un’operazione umana, non “naturale”.
Altre domande potrebbero essere: cosa conosco delle famiglie omogenitoriali? Ne conosco? Qual è la mia idea sulle coppie dello stesso sesso? E sui genitori omosessuali? Da dove provengono queste idee? Su che cosa si basano? Conosco dei bambini che hanno genitori gay o lesbiche? Che cosa ho osservato? Perché ho fatto queste osservazioni? La mia attenzione, durante l’osservazione, su cosa tende a focalizzarsi?
Nel dibattito italiano, come detto, trova spazio l’anatema, l’orrore e non la domanda. In questo clima ideologizzato e contrapposto non si conoscono i risultati delle numerose ricerche in lingua inglese e anche di quelle italiane, che rilevano che la funzione genitoriale non è connessa con l’orientamento sessuale, che non è l’identità sessuale del genitore a influenzare il benessere del figlio, ma la sua disponibilità e capacità a prendersene cura (per una dettagliata rassegna sui risultati delle ricerche si consulti “Omofobia. Strumenti di analisi e intervento”, Graglia M., Carocci, 2012).
Tuttavia se c’è un blocco ideologico i dati non servono, come si suol dire “non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere”. E sappiamo che vediamo ciò che vogliamo vedere, dunque a questo punto le domande cambiano: che cosa può aiutare la crescita dei figli che hanno genitori omosessuali? Il fatto che i loro genitori siano eterosessuali o che vivano in un contesto che li riconosca in una famiglia, li supporti e li metta al riparo dallo stigma?
Mi sono resa conto nella mia esperienza come formatrice che il blocco, il tappo potremmo dire, è a livello politico, poiché invece le persone nel quotidiano sono molto più accoglienti di quanto si possa credere, soprattutto quando incontrano persone reali anziché pensarle astrattamente. Con alcuni miei colleghi abbiamo condotto un corso sui temi dell’accoglienza nella scuola primaria rispetto ai figli con genitori dello stesso sesso e abbiamo verificato la disponibilità e il desiderio di conoscenza degli educatori.
Come se molti cittadini italiani si collocassero in ambito europeo rispetto al tema dell’orientamento omosessuale, viceversa la politica è rintanata in un provincialismo bigotto, per ragioni ideologiche e di potere. Occorre dunque intervenire innanzitutto a livello istituzionale per promuovere un ampio cambiamento culturale.
Credo che sia importante ad esempio presentare nei media la varietà delle persone che sono gay, lesbiche o bisessuali, la realtà delle coppie e delle famiglie dello stesso sesso. Come l’eterosessualità, l’omosessualità è un fenomeno che si presenta in una molteplicità irriducibile di modi. E tutti non solo hanno diritto di cittadinanza, ma diritto di prosperare, anche quando spiazzano i nostri assiomi.