“Il fiore delle Mille e una notte” di Pasolini
Scheda di Luciano Ragusa*
Il fiore delle Mille e una notte, ultimo film della Trilogia della vita, è unanimemente considerato dalla critica cinematografica il più riuscito dei tre: nel “fiore”, infatti, si realizza il carattere gioioso e favolistico teorizzato concettualmente all’inizio del progetto; la libertà espressiva ed il completo abbandono di qualsiasi sovrastruttura occidentale rendono il film un autentico capolavoro onirico, in cui, la serenità (inedita nei film di Pasolini) dei rapporti sessuali tra i personaggi, non è mai sporcata da trame riconducibili alla prepotenza o al reciproco possesso, presenti invece, sia nel Decameron, che nei Racconti di Canterbury.
La Trilogia della vita
Siamo agli albori degli anni 70’: dopo aver concluso una trilogia di film definita “tragica”, per via delle fonti letterarie classiche che ne caratterizzano la genesi (Edipo Re di Sofocle (67’), Appunti per una Orestiade africana con riferimento ad Eschilo (68’), Medea di Euripide (69’)) Pasolini cambia totalmente ispirazione. L’uomo, e l’artista, sono ormai coscienti dell’impossibilità antropologica di ritornare ad un’Italia pre-industriale, dove il senso del sacro e dell’irrazionale sono le stelle polari sia dell’esistenza individuale sia della vita collettiva. Non è neppure sufficiente rievocare il passato in forma dialettica, come avviene per le suddette tragedie, dove la dicotomia tra la barbarie e la civiltà, pensiero magico e razionalità, istinto e ragione, si risolve ancora nella speranza di una coscienza che maturi l’importanza del bagaglio storico che la società dei consumi ci invita a dimenticare. L’autore sente perciò la necessità di cambiare strategia, sia stilistica che ideologica, e di rappresentare la dimensione corporale del sesso liberata da tutte le sovrastrutture che nel ventennio precedente (specie gli anni 60’) ne hanno caratterizzato lo svolgimento.
Così Pasolini giustifica il cambiamento di rotta: «Ero in aeroplano, stavo girando Medea. All’improvviso mi venne in mente di fare un film su un mondo altrettanto popolare, ma non barbarico e tragico, bensì vivace e allegro; tutto preso dalla gioia di vivere, del fare l’amore. Pensai subito al Boccaccio» (P. P. Pasolini, Intervista a “Panorama”, 1974).
Ed in un’altra intervista così si esprime: «Metto queste storie in rapporto con il rimpianto che provo per la perdita del mondo di una volta. Sono un uomo disincantato. D’altronde sono sempre stato ai ferri corti con la società del mio tempo. L’ho combattuta, mi ha perseguitato, ma mi ha dato anche il successo. Ora però non mi piace più. Non mi piace il suo modo di esistere, la sua qualità di vita. Per questo rimpiango il passato. Alla mia età, a questo punto della mia vita, penso che sia un fatto convenzionale. Il mondo di Chaucer e del Boccaccio non aveva ancora sperimentato l’industrializzazione. Non c’era niente di analogo alla società di oggi. Tranne forse questo: c’era una sorta di esigenza di libertà sessuale, nata dai prodromi della rivoluzione borghese nel contesto della società medioevale. Qui potrebbe stabilirsi un parallelo. Ma periodi di libertà come quelli sono condannati a finire presto. Da vecchio, Boccaccio divenne un bigotto. Quell’esplosione di libertà durò solo pochi anni. Lo stesso vale oggi: durerà solo pochi anni» (O.Stack, Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, Guanda, Venezia, 1992, pag. 146).
Cosa nasce da questa impostazione?
Nascono una serie di costruzioni rivolte al passato, cioè di una dimensione perduta, in cui la spontaneità della vita, rappresentata esclusivamente dalle necessità fisiologiche, riempie gioiosamente l’esistenza dei personaggi: anche in questo frangente, dunque, Pasolini utilizza “la forza del passato” come forma di contestazione della volgarità del presente.
Sono tre le fonti a cui l’autore si ispira per la sua Trilogia della vita: il Decamerone di Boccaccio per il primo film, Il Decameron; i Racconti di Geoffry Chaucer per il secondo, Racconti di Canterbury; l’anonimo autore arabo per il terzo film, Il fiore delle Mille e una notte.
Ma come vengono accolti i film della Trilogia della vita?
Il proposito di filmare la vita nella sua essenza fisiologica, fuori da ogni impegno intellettuale, suscita immediatamente scandalo. In una bellissima pagina così Serafino Murri, critico cinematografico, riassume la situazione: «Ma la valenza della Trilogia non è in ciò che può scandalizzare i patetici moralisti che sentono leso il loro “senso del pudore”, facendo fioccare le denunce per ”pornografia”: non è il sesso, né l’emergere a protagoniste della storia delle classi subalterne (cosa ormai “vecchia” per Pasolini). Rispetto al vitalismo plebeo di Accattone, vi è un elemento in più di rottura: il Trecento di Boccaccio o di Chaucer, o il tempo mitico delle Mille e una notte, cancellano completamente dall’orizzonte quella realtà borghese alla quale persino nella riscrittura della tragedia greca veniva adombrato un posto di grande importanza dialettica, come fonte di abbruttimento della sacralità della vita. Questa umanità che vive in una “età del pane”, di bisogni corporali strettamente necessari che rendono necessaria la sua vita povera e precaria, cancella, con la sua presenza, l’esistenza dell’idiozia consumistica, in cui avviene la sostituzione feticistica del godimento reale con il possesso del godimento. Nella cultura aneddotica, popolare, riduzione letteraria della tradizione orale dei tre testi da cui sono tratti i film della Trilogia della vita, non resta alcuna traccia del presente, ma nel regista non c’è neppure nostalgia del passato: il passato è solo uno strumento di negazione totale del vuoto presente. La Trilogia della vita, in questo senso, è una trilogia della “mancanza di vita”, è l’affermazione disperata di qualcosa che non esiste (o che non esiste più)» (Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini, Il Castoro, Milano, 1994, pag. 127).
Nonostante lo scandalo, la Trilogia, fu il più grosso successo di pubblico dell’intera filmografia pasoliniana: il Decameron subì più di ottanta denunce per pornografia, ma, nonostante ciò, presentato nel 1971 al Festival di Berlino si vide assegnare l’Orso d’argento; i Racconti di Canterbury vinse l’Orso d’oro al Festival di Berlino nel 1972; il Fiore delle mille e una notte ha invece vinto il Gran Premio Speciale della Giuria al Festival del cinema di Cannes nel 1974.
L’abiura alla Trilogia della vita
Siamo ormai nel 1975 e, spenti gli echi della Trilogia della vita, Pier Paolo Pasolini sente l’urgenza, ma soprattutto la necessità storica, di doversi smarcare da quella fisiologia giocosa che bene caratterizza gli ultimi lavori; si sente addirittura pronto ad una rinuncia radicale, poiché l’abiura, implica il riconoscimento, e pertanto la ritrattazione, di un errore.
Ma qual è lo sbaglio, la svista, l’imprecisione che convince l’autore ad una rinuncia che tanto sa di religione sconfessata?
Senza mai negare i lavori della Trilogia, l’uomo Pasolini, si rende conto che la crisi culturale e antropologica, rappresentata dalla cultura di massa, non può più essere arrestata: nemmeno rappresentando corpi totalmente immersi in un eros gioioso in cui il sesso assurge a simbolo culminante.
«Ora tutto si è rovesciato – dice il poeta nelle Lettere luterane – Primo: la lotta progressista per la democratizzazione espressiva e per la liberazione sessuale è stata brutalmente superata e vanificata dalla decisione del potere consumistico di concedere una vasta (quanto falsa) tolleranza. Secondo: anche la realtà dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico: anzi, tale violenza sui corpi è diventato il dato più macroscopico della nuova epoca umana. Terzo: le vite sessuali private (come la mia) hanno subito il trauma sia della falsa tolleranza che la degradazione corporea, e ciò che nelle fantasie sessuali era dolore e gioia, è divenuto suicida delusione, informe accidia» (P. P. Pasolini, Lettere Luterane, Einaudi, Torino, 2003, pag. 72).
Pasolini dichiara di odiare i corpi dei nuovi giovani e dei ragazzi italiani, perché retroattivamente svalutati dalla potenziale possibilità di diventare merce, oggetto di consumo. Il crollo del presente implica il crollo del passato, per cui non esiste più l’illusione di filmare una gioventù storicamente determinata in ipotetici medioevo avulsi da elementi degeneranti.
Ma a cosa conduce l’abiura?
Così risponde il poeta: «Mi conduce all’adattamento. […] L’Italia cioè non sta vivendo altro che un processo di adattamento alla propria degradazione, da cui cerca di liberarsi solo nominalmente. Tout va bien: non ci sono nel paese masse di giovani criminaloidi, o nevrotici, o conformisti fino alla follia e e alla più totale intolleranza, le notti sono sicure e serene, meravigliosamente mediterranee, i rapimenti, le rapine, le esecuzioni capitali, i milioni di scippi e di furti riguardano le pagine di cronaca dei giornali, ecc. ecc. Tutti si sono adattati o attraverso il non voler accorgersi di niente o attraverso la più inerte drammatizzazione. Ma devo ammettere che anche l’essersi accorti o l’aver drammatizzato non preserva affatto dall’adattamento o dall’accettazione. Dunque io mi sto adattando alla degradazione e sto accettando l’inaccettabile. Manovro per risistemare la mia vita. Sto dimenticando come erano prima le cose. Le amate facce di ieri cominciano a ingiallire. Mi è davanti – pian piano senza più alternative – il presente. Riadatto il mio impegno ad una maggiore leggibilità (Salò?)» (ibidem, pag. 75-76).
Nel 1970, Pasolini, acquistò a Chia, frazione di Soriano nel Cimino (VT), un rudere medievale da usare come sua abitazione: l’intento, dopo Salò, era quello di ritirarsi in un luogo completamente immerso nella natura e che conservasse, se non altro, il retrogusto del passato.
Trama
Tratto dall’omonima raccolta di novelle arabe Le mille e una notte, sistemata nella forma che è giunta a noi intorno al 1400, Pasolini ne ricava un affresco dal sapore magico, poetico, in cui «la verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni».
Il filo conduttore della vicenda è la ricerca disperata della schiava Zumurrud, rapita dai briganti, da parte di Nur-ed-Din, il quale, durante il suo viaggio, entrerà in contatto con diversi narratori che raccontano ciascuno una storia. Anche Zumurrud, prima del rapimento, racconta al suo padrone del poeta Sium: invitati al proprio palazzo tre giovinetti, questi, insieme al poeta, troveranno la loro felicità nell’amore omosessuale.
In un bellissimo gioco ad incastro anche Sium addolcirà il soggiorno dei tre ragazzi con la storia del re Harun e la regina Zeudi, i quali, incontrati a loro volta una un giovane e una giovane, discutono a chi dei due assegnare il primato della bellezza; conducono i due giovani nella loro tenda e li osservano mentre fanno l’amore, per poter esprimere un giudizio fondato e definitivo.
Nur-ed-Din incontra Munis, una misteriosa signora che gli racconta la storia della principessa Dunya e del principe Tagi: uno strano sogno sconvolge la principessa che per distrarsi, completa una tela con due gazzelle ricamate sopra. Il principe Tagi incontra il giovane Aziz, che gli mostra una pergamena con due gazzelle dipinte; Tagi, affascinato dal dipinto, vuole conoscerne l’autrice, per cui, chiede ad Aziz di raccontare a sua volta la storia della pergamena.
Il giorno delle nozze con sua cugina Aziza, Aziz vede una bellissima sconosciuta e se ne innamora immediatamente, dimenticandosi del matrimonio. Aziza, pur soffrendo, aiuta Aziz nell’intento di trovare la sconosciuta, ed inoltre, gli insegna come sedurla: Aziz raggiunge felice la sua bella e la ama per molte notti, fino a quando, Aziza, muore. Un giorno Aziz è attirato con l’inganno in una casa, dove una donna, minacciandolo di morte, lo costringe a sposarla. Quando un anno dopo riesce ad avere un giorno di libertà, Aziz, raggiunge l’amata che, per vendicarsi dell’abbandono, lo fa evirare dalle sue ancelle; Aziz torna a casa disperato dalla madre, la quale, consegna al figlio la pergamena lasciatale da Aziza con il disegno di due gazzelle, opera della principessa Dunya. Aziz cerca così la principessa e, una volta trovata, si rammarica dell’impossibilità di amarla per via della virilità perduta.
Entrano in gioco i racconti di Shahzaman, trasformato in scimmia da un Demone e salvato dalla figlia di un marinaio che sacrifica la sua vita per farlo tornare uomo; e Yunan, unico superstite di un naufragio, immischiato in una strana profezia in cui dopo aver amato un ragazzo, in pieno stato di “trance”, lo uccide. Assoldati dal principe Tagi per cercare la principessa Dunya hanno il compito di eseguire un mosaico sul tetto della torre del palazzo della principessa.
Il mosaico si compie: il sogno della principessa Dunya che tanto la sconvolgeva muta nel suo finale: il principe Tagi riesce a incontrare la principessa Dunya, la quale, capisce anch’essa che tutto è compiuto: la storia si conclude con l’abbraccio felice dei due.
Nur-ed-Din, nel frattempo, arriva in una città dove il re lo accoglie a palazzo e lo fa condurre nella camera da letto. Il giovane crede di dover sottostare alle voglie del re, il quale, dopo avergli chiesto se si sono mai incontrati, e qualche frase volutamente ambigua ed equivoca, si spoglia dei sui abiti maschili rivelando di essere in realtà Zumurrud. Nur-ed-Din, felice di aver ritrovato Zumurrud, decide di rimanere con la sua amata a governare la città.
Il testamento positivo
Il tema dell’eros, sia omosessuale che eterosessuale, viene esplicitato nel film con una leggerezza ed una felicità espressive mai raggiunte prima, né dopo, da Pasolini. Le vicende messe in scena sembrano addirittura far pensare che, nel complesso, la felicità umana sia raggiungibile; certamente non manca la rappresentazione della morte, anch’essa registrata nell’utopia onirica del film, ma ciò che più resta è il senso di un amore finalmente raggiungibile o ritrovato.
E in questa purezza di popolo antico, la distinzione tra le diverse modalità di amarsi, perde di significato, perché estratta dal gioco dell’osceno, da un’idea del sesso vissuta con il tipico moralismo occidentale.
Alberto Moravia, nella recensione al film così sottolinea: «Ne Il fiore tutti sorridono, sorridono i passanti, i vagabondi, i mercanti; sorridono i ragazzi abbracciando altri ragazzi. Questo sorriso non è casuale; è il sorriso dell’insperata, incredibile, fantastica avventura omosessuale. Il sorriso di chi si muove fuori dalla realtà non soltanto della storia, ma anche della psicologia, nell’utopia di una felicità irraggiungibile. La luce di questo sorriso utopistico resuscita l’oriente contadino dalla sabbia dei deserti. Un oriente che curiosamente rassomiglia all’Occidente di Proust anche lui affascinato dalla stessa utopia» (A. Moravia, Recensione al film, “L’Espresso”, 22 settembre 1974).
Prima di essere precipitati nell’inferno di Salò, i ragazzi di vita tanto cari a Pasolini, ritornano sorridenti nel mondo sognato deIl fiore delle mille e una notte. Da questo punto di vista, l’opera, può essere considerata come il testamento positivo del regista, il quale, subito dopo, ne scriverà una versione negativa abiurando dalla Trilogia stessa e girando il suo ultimo film.
Come viene accolto il film in patria?
In conseguenza ad una proiezione unica di beneficenza del film, che il regista ha organizzato in anteprima a Milano, con lo scopo di raccogliere fondi per realizzare un documentario a favore della riumanizzazione della città stessa, nel giugno del 1974, la pellicola riceve una denuncia per oscenità. Il sostituto procuratore di Milano, Caizzi, riconosce al film lo statuto di “opera d’arte”, in conseguenza del quale non viene promossa nessuna azione penale nei confronti del regista.
Visto che Il Decameron, ricevette più di ottanta denunce, come interpreta Pasolini l’accaduto?
Siccome non può trattarsi di una repentina crescita intellettuale e culturale della nazione, e nemmeno di un nuovo modo di concepire la morale, l’autore annuncia la scomparsa della repressione e l’avvento dell’epoca della tolleranza. In ultima analisi è la strategia del potere che ha assunto nuova forma: si è fatta più insinuante, cioè tollerante, indossando abiti di permissività che accontenta tutti, conservatori e progressisti, in un processo di omologazione a questo punto delle élites, che completa quello di assorbimento delle classi subalterne.
A questo processo non sfugge nemmeno Pasolini, le cui risposte a tale divenire della società italiana, verranno consegnate agli Scritti corsari e alle Lettere Luterane.
Scheda del film
Soggetto e sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini.
Regia: Pier Paolo Pasolini.
Aiuto alla regia: Umberto Angelucci, Peter Shepherd.
Collaborazione alla sceneggiatura: Dacia Maraini.
Fotografia: Giuseppe Ruzzolini.
Montaggio: Nino Baragli, Tatiana Casini Morigi.
Scenografia: Dante Ferretti.
Costumista: Danilo Donati.
Musica: Ennio Morricone.
Interpreti e personaggi: Ninetto Davoli (Aziz); Franco Citti (il genio); Franco Merli (Nur-ed-Din); Tessa Bouclé (Aziza); Ines Pellegrini (Zumurrud); Alberto Argentino (il principe Shahzaman); Francesco Paolo Governale (il principe Tadji); Salvatore Sapienza (il principe Yunan); Abadit Ghidei (la principessa Dunja); Fessazion Gherentiel (Bertané); Giana Idris (Giana).
Produzione: PEA (Roma) / Les Pproductions Artistes Associés (Paris).
Produttore: Alberto Grimaldi.
Pellicola: KodakEastmancolor.
Formato: 35 mm, colore 1:1.85.
Macchine da presa: Arriflex.
Effetti ottici speciali: Rank Film Labs, England.
Sincronizzazione: NIS Film, Roma.
Mixage: Fausto Ancillari.
Distribuzione: United Artist Europa.
Riprese: Marzo/Maggio 1973.
Esterni: Yemen del nord, Yemen del sud, Persia, Nepal, Etiopia, India.
Teatri di posa: Stabilimenti Labaro Film, Roma.
Durata: 129’.
Prima proiezione: Festival del Cinema di Cannes, 20 maggio 1974.
Bibliografia
M.A. Bazzocchi, I burattini filosofi. Pasolini dalla letteratura al cinema, Mondadori, Milano, 2008.
A. Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, Marsilio, Venezia, “Collana cinema”, 2005.
S. Murri, Pier Paolo Pasolini, Il Castoro, Milano, 1994.
A. Repetto, Invito al cinema di Pasolini, Mursia, Milano, 1998.
P.P. Pasolini, Il sogno del centauro (a cura di Jean Duflot), Editori Riuniti, 1983.
P.P. Pasolini, Lettere luterane, Einaudi, Torino, 2003.
P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano, 2008.
O.Stack, Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, Guanda, Parma, trad. it. 1992.
W. Siti, F. Zabagli, Pasolini per il cinema, Mondadori, Milano, “Meridiani”, 2001.
*Questo è il testo della scheda con cui, durante il breve cineforum che abbiamo dedicato a Pier Paolo Pasolini è stato presentato il film Il fiore delle Mille e una notte.