Il genere, quel terribile mostro…
Riflessioni di Véronique Beaulande pubblicate sul sito de “Le comete de la Jupe”, Comitato delle donne cattoliche per una chiesa profetica (Francia), il 3 giugno 2015, traduzione di finesettimana.org
Già due volte ho sentito parlare, a messa, in un’omelia e in una preghiera universale, di una certa “teoria del genere” diffusa in questi ultimi tempi nel nostro paese. Non posso nascondervi che, in entrambe le occasioni, sono sobbalzata, sicuramente in maniera ben poco discreta, e mi sono ripromessa di protestare.
L’espressione era stata anche utilizzata, ho poi saputo, in alcune risposte al questionario che ha preceduto il sinodo sulla famiglia; anche quel giorno, avevo protestato. Dopo aver inutilmente protestato nel vuoto, ho pensato di scrivere questo testo per chiedervi, amici cattolici, di smettere di usare questa espressione che, spero non ve la prendiate, non vuol dire assolutamente niente.
Non esiste una “teoria del genere”; non esiste nemmeno una “ideologia del genere”, espressione che tende a sostituire la prima nella retorica “anti-genere” spesso brandita da alcuni. Esiste un concetto scientifico, il “genere” (gender in inglese). Il genere non è una elucubrazione di militanti che vogliono distruggere la differenza sessuale interna all’umanità, come certi sembrano credere. Il termine “genere” è nato nel campo delle scienze umane e sociali – sociologia, storia, filosofia – dove è usato da alcuni decenni per designare ciò che viene chiamato anche il “sesso sociale”, cioè l’insieme dei comportamenti caratteristici di un sesso (uomo, donna) che non sono strettamente biologici. Più esattamente, il genere è stato definito per pensare le differenze non biologiche tra l’uomo e la donna.
Non fraintendete: sì, il concetto di genere è stato pensato in un contesto militante, femminista nello specifico, poi LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e trans). Permetteva (e permette ancora) di riflettere sui rapporti sociali tra uomini e donne innanzitutto, e poi tra maggioranza eterosessuale e minoranza LGBT. Ciò non impedisce di per sé la sua validità scientifica. Gli storici che fanno storia delle donne lavorano sul genere: tentano di conoscere quali sono i ruoli che una società, in un momento dato, attribuisce alle donne.
I sociologi che studiano i lavori domestici o la femminizzazione di una categoria professionale lavorano sul genere. Il “maschile” è oggi oggetto di numerosi studi, perché è “costruito” quando il “femminile”. Gli scienziati (sì, lo storico, il sociologo, il filosofo sono scienziati) che lavorano sul genere non negano l’esistenza dei due sessi nell’umanità (lascio da parte il problema pur doloroso degli intersessuati); mettono invece in discussione l’idea che dall’esistenza dei due sessi derivino necessariamente e “naturalmente” delle differenze di comportamento che rientrerebbero in una “natura femminile” e in una “natura maschile”.
Alcuni temono che il fatto di affrontare il genere in ambito scolastico (cosa non nuova, tra l’altro) destabilizzi i loro figli. Che cosa temete? Che il vostro maschietto accetti di giocare alle bambole con le sue compagne? Che la vostra bimba osi dire ai suoi compagni che vorrebbe giocare a calcio con loro? Che Jules, a cui piace moltissimo il rosa, vada a scuola con la sua T-shirt rosa fucsia perché i suoi compagni non lo prenderanno più in giro? Che Juliette che è innamorata delle automobili osi chiedere di iscriversi ad un corso di meccanica piuttosto che di segretariato?
Il genere è un concetto utile e potenzialmente liberante. Sì, abbiamo tutti introiettato delle norme di comportamento determinate dal corpo sociale nel quale viviamo. Alcuni o alcune di noi vivono molto bene all’interno di tali norme; state tranquilli, non si tratta affatto di impedire ad Albert di giocare a rugby e a Charlotte di imparare il punto croce; di costringere Robert a cambiare i pannolini e Caroline a cambiare le gomme dell’automobile; di sostituire un obbligo con un altro. Semplicemente di permettere a coloro che sono, poco o tanto, al di fuori della norma, di esistere.
Come dice Judith Butler, il cui pensiero è così spesso bistrattato in questi ultimi tempi, di rendere “vivibili” delle vite che le norme socio-culturali rendono “invivibili”. Abbiamo tutti degli esempi concreti, nostri o di persone a noi vicine, del “genere” a cui siamo assegnati e delle difficoltà, più o meno pesanti – le cose non sono sempre drammatiche, ma possono esserlo – che si incontrano nel non corrispondervi. Pensare che tali norme non sono degli assoluti atemporali e naturali, aiuta ad accettare gli altri così come sono, e non come pensiamo che dovrebbero essere.
Il genere non è una teoria; è un fatto sociale, concettualizzato con questo termine. Non riguarda né l’identità sessuale (si può essere di sesso femminile e di genere maschile), né l’orientamento sessuale (si può essere di sesso femminile, di genere maschile ed eterosessuale – qualsiasi altra combinazione è possibile). Lottare contro gli stereotipi di genere non significa fare la “promozione dell’omosessualità”; aiuta, invece, a lottare contro l’omofobia, evitando che un ragazzo di genere femminile si faccia trattare da “checca”, indipendentemente dal suo orientamento sessuale reale; o che una lesbica si faccia trattare da “maschiaccio” indipendentemente dal suo genere.
Questo permette di comprendere che “Papa porte une robe” (il papà mette la gonna), per riprendere il titolo di un album spesso vilipeso, anche senza essere stato letto, non è sinonimo di “il papà è transessuale” né di “il papà è omosessuale” (e questo indipendentemente da ciò che si pensa dell’omosessualità, che non è l’argomento di questo testo). Permette di insegnare a Robert e a Caroline che saper cambiare i pannolini e le gomme non rovina il loro status di uomo o di donna; di insegnare a Robert che non deve pensare che Caroline sia destinata più di lui a fare i lavori domestici, e a Caroline che Robert ha il diritto di detestare le automobili (ma che non c’è problema se a lei piacciono i lavori domestici e a lui le automobili, dal momento che ciascuno vi si ritrova “liberamente e senza costrizioni”, come si dice in altre circostanze).
Il sesso biologico esiste (con una complessità maggiore di come lo si presenta, ma diciamo che esiste); il genere anche. Non esiste una “teoria del genere”; tra le correnti filosofiche che usano il concetto di genere, alcuni sviluppano a partire da questo fatto delle concezioni filosofiche sull’essere che si possono mettere in discussione, su cui si può dibattere, su cui si deve dibattere, e sulle quali non mi pronuncio.
Ma mi sembra che la messa domenicale in parrocchia non sia il luogo di questi dibattiti intellettuali; mi sembra che evocare una fantasmagorica “teoria del genere” non aiuti il dibattito, e contribuisca a togliere credibilità a tutto un campo delle scienze sociali la cui utilità è comunque stata provata (non dovrebbe più aver bisogno di essere provata…). Amici cattolici, non abbiate paura di quel “terribile mostro che è il genere”: vi aiuterà semplicemente a comprendere meglio i rapporti sociali di cui siamo tutti protagonisti e a relativizzare molti giudizi che, talvolta, sotto l’apparenza della carità e della “correzione fraterna”, possono essere davvero distruttivi.
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Testo originale: Le grand méchant genre